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Che cos’è?
Il significato etimologico deriva dal latino “rendere pubblico”, invece il
termine inglese originale advertising deriva dal verbo “to advertise” ovvero
“promuovere, far conoscere”. Queste due o meglio tre definizioni sono tutte
corrette in quanto la pubblicità è uno strumento unico che permette alle
imprese di far conoscere i propri prodotti con lo scopo di incrementare le
proprie vendite. Ma esiste anche la pubblicità denominata progresso, che
non ha una funzione economica ma esclusivamente educativa. Essa lancia
un messaggio sociale ai fini di sensibilizzare le persone ad un determinato
problema. Tuttavia veritiera è la frase di Henry Ford “la pubblicità è l’anima
del commercio” perché il fine monetario è quello più diffuso e presente
nell’ambiente circostante e la mancata riuscita della campagna pubblicitaria
rappresenta per l’industria il fallimento sicuro del prodotto reclamizzato.
Quando è nata?
Le prime forme di pubblicità hanno radici molto antiche. Insegne e scritte
pubblicitarie sono state rinvenute in diversi scavi archeologici, in Italia
soprattutto a Pompei (grazie all’eruzione del Vesuvio del 79). Essa consisteva
principalmente in:
Scritte murali di propaganda elettorale che invitavano i passanti a votare
per un certo candidato alle elezioni politiche;
Insegne commerciali volute dagli artigiani e dai negozianti per mettere al
corrente la gente della loro presenza e dei loro servizi.
Tuttavia ci avviciniamo al concetto di pubblicità moderna a partire dal
Seicento con la diffusione della stampa, quando gli annunci sono
esclusivamente testuali e privi di immagini ma soprattutto gratuiti. Solo nel
diciottesimo - diciannovesimo secolo diventeranno a pagamento e faranno
da sostentamento per la testata giornalistica. Uno dei più antichi comunicati
commerciali in Italia è del 1691, inserito nel periodico “Protogiornale Veneto
Perpetuo”, dove il messaggio presenta l’utilizzo di maiuscole per accentuare
il valore della parola ed anche per conferirle un maggiore richiamo ottico.
Infatti, la pubblicità come noi la conosciamo si fa risalire allo sviluppo delle
industrie e soprattutto a seguito della seconda rivoluzione industriale grazie
alla quale gli annunci iniziano ad essere non più solo informativi ma
commerciali, composti dalle prime immagini. In quel periodo l’economia
europea si era radicalmente trasformata. La produzione della ricchezza, non
era più legata alla terra e all’agricoltura ma dipendeva principalmente dalle
industrie e dai beni che esse erano in grado di immettere sul mercato.
Questo cambiamento era dovuto ai miglioramenti dei trasporti che
favorirono gli scambi internazionali e resero possibile la concorrenza dei
prodotti dai paesi periferici sul mercato.
Ma soprattutto furono le scoperte come
l’elettricità, l’acciaio, il telefono e la radio che
rivoluzionarono il modo di produrre e vendere le
merci e anche quello di vivere. Così attraverso
queste innovazioni si arriva ad una distribuzione
e una vendita di prodotti pianificata su larga
scala. Grazie alla produzione in fabbrica si riuscì
ad abbassare i costi di realizzazione degli oggetti
industriali rispetto a quelli artigianali e ad
aumentare il più possibile il numero delle unità
prodotte.
Di conseguenza era necessario aumentare anche quello dei futuri
compratori. Si comprese così, ben presto, che occorreva reclamizzare il
prodotto per farlo conoscere al maggior numero di persone possibili. Per
raggiungere tale obbiettivo vennero utilizzati diversi metodi di propagazione.
Come si propaga?
Ormai sono diversi i canali di informazione dove è possibile trovare la
pubblicità, anzi è quasi più difficile trovare dove essa non sia presente.
Infatti, si avvale del potere della stampa (cartelloni, quotidiani, insegne
luminose, ecc.) e di veicoli come radio, cinema, televisione ed internet. Tutto
ciò perché il principale obbiettivo che i pubblicitari si prefiggono è quello di
“mostrare” il loro prodotto a più persone possibili in modo da ottenere una
vendita capillare e quindi un maggior profitto economico.
Il potere della tv e Carosello
La televisione in Italia nacque il 3 gennaio 1954, quando andò in onda, con
qualche anno di ritardo rispetto agli altri paesi europei, la sua prima
trasmissione. In più di mezzo secolo è riuscita ad entrare nelle case del 98%
degli Italiani, a condizionare i loro costumi e i loro consumi, a divertirli e ad
istruirli. Inizialmente la tv in Italia era considerata uno strumento culturale
controllato dalle istituzioni pubbliche, ma anche un mezzo di educazione e di
informazione. Solo tre anni più tardi viene introdotta la pubblicità.
Comincia così l’epoca d’oro di Carosello, con i
suoi spot lunghissimi (rispetto agli standard
attuali) e strutturati come vere e proprie storie,
nelle quali lo spettacolo prevale sul prodotto.
Carosello mostra rispetto per i gusti degli italiani per il fatto che racconta una
storia e solo alla fine, negli ultimi 15-35 secondi (chiamati “codino”), viene
fatta la reclame.
Gli italiani a quell’epoca non erano ancora assuefatti alla pubblicità e non
avrebbero sopportato di guardare qualcosa unicamente con lo scopo di
vendergli un prodotto, infatti, quest’ultimo veniva mediato da una storia,
barzelletta o battuta. La dipendenza da questo “programma” era dovuta al
suo scopo informativo. Infatti, nel dopoguerra gli italiani imparano a
conoscere prodotti come i gelati confezionati, i frigoriferi e detersivi che
oggettivamente migliorano le loro vite.
Inoltre il fatto che le singole storie fossero divise a puntate creava
dipendenza e allo stesso tempo continuità nello spettatore che vedeva la sua
vita ruotare attorno ad esso. Soprattutto per i bambini ai quali veniva
stabilita l’ora di riposo alla fine del programma attraverso l’ormai celebre
frase “a nanna dopo Carosello!”. Ma nel corso della sua “carriera” i Caroselli
subiscono piccole variazioni di tempo. Se nel 1957 durano singolarmente 2’
15’’, nel 1974 ogni carosello arriva ad 1’ 40’’. Questo cambiamento, seppure
di qualche secondo, evidenzia come più questa trasmissione aveva successo
più gli spot venivano incrementati. Adesso la durata massima è diventata di
30 secondi per ogni spot e in alcuni casi (i cosiddetti nano spot) di 10
secondi. Questo è dovuto alla moltitudine di prodotti concorrenti che ci sono
nel mercato e al fatto che le imprese abbiano bisogno di pubblicizzare la
propria merce per farla conoscere e quindi acquistare.
Produttori e consumatori
Possiamo considerare la pubblicità attraverso due punti di vista: da una parte
vi sono i produttori che, a causa della forte concorrenza, fanno a gara per
promuovere la loro merce, mentre dall’altra parte c’è il consumatore che
spesso non riesce, da solo, a valutare i pregi ed i difetti di quella merce e
finisce quindi per seguire il proprio istinto che egli ingenuamente crede
naturale e libero ma che in realtà è fortemente condizionato dai
“suggerimenti” pubblicitari che è costretto anche involontariamente a subire.
Si crea così una corsa a chi riesce a persuadere al meglio il consumatore
attraverso la scelta di particolari parole ad effetto che costituiscono frasi
brevi e concise in grado di lanciare un messaggio chiaro e facilmente
comprensibile; proprio come facevano in passato Seneca con le sue
sentenzie, Agostino con l’uso di slogan nei suoi sermones e O. Wilde con gli
aforismi che sono alla base del manifesto estetico.
Come soggiogare la mente umana?
Il presidente dell’“American Public Relations Society” ha dichiarato ai suoi
colleghi (come riferisce Vance Packard) che la materia su cui i pubblicitari
lavorano è “la mente umana”. Infatti, secondo le direttive della pubblicità, “
noi non consumiamo arance ma vitalità, non compriamo un’automobile ma
prestigio”.
La libertà di scelta del consumatore è perciò minima, in quanto gli esperti di
pubblicità si avvalgono degli studi psicologici e della retorica per i propri
intenti, soggiogando quindi l’intelletto umano. Viene così a concretizzarsi un
nuovo linguaggio con i suoi neologismi e la capacità di sovvertire le regole
grammaticali, morfologiche e sintattiche della lingua che usa. Ma oltre
all’innovativo linguaggio sono fondamentali gli spot pubblicitari che hanno
sempre rappresentato l’immagine paradossale e caricaturale della vita. La
madre sempre perfetta, la famiglia sempre sorridente e amorosa ed i ragazzi
che vanno bene a scuola, giocano e fanno i compiti. Sempre tutto ordinato e
sereno.
Avendo poco tempo per far passare un concetto,
lo spot pubblicitario utilizzerà spesso preconcetti.
Infatti, stereotipi, luoghi comuni e cliché danno
vita ad una donna (bionda) in cucina, l’uomo
(bianco) al lavoro, i bambini (felici) in una casa
confortevole.
La pubblicità cercherà dunque di sedurre attraverso un’immagine
“politicamente corretta”, come il bambino, e più generalmente il “bebè” che
si ritrova adatto sia per l’automobile, sia per il fast food. In questo modo essa
presenta una realtà alternativa che diventa desiderio del consumatore.
Essa si avvale, infatti, dell’uso del correlativo oggettivo ritrasmesso in chiave
moderna. Eliot lo riteneva "una serie di oggetti, una situazione, una catena di
eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare". La
parola “correlativo” sta ad indicare come anche i concetti e i sentimenti più
astratti trovano la loro espressione, collegandosi o meglio “correlandosi” ad
oggetti ben definiti e concreti. Viceversa ad ogni sensazione seppure astratta
corrisponde un determinato oggetto fisico, in questo caso un determinato
prodotto che il consumatore è “costretto” a comprare.
Questa costrizione può ricadere nel pensiero Kantiano. Il filosofo distingue i
principi pratici che regolano la nostra volontà in “massime” e “imperativi”. Il
primo è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida
esclusivamente per l’individuo che la fa propria, mentre l’imperativo è una
prescrizione di valore oggettivo, ossia che vale per chiunque. Esso può
essere ulteriormente diviso in “imperativo ipotetico” e “imperativo
categorico”. L’imperativo ipotetico prescrive dei mezzi in vista di determinati
fini, ed ha la forma del “Se…devi…”. Mentre l’imperativo categorico ordina
invece il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi
scopo, e presenta la forma del “ Devi…”. La pubblicità adotta l’imperativo
ipotetico in quanto porta il consumatore a convincersi che ha bisogno di ciò
che gli si propone, indicandogli successivamente il modo per ottenerlo,
ovvero comprare il prodotto. Un esempio pratico e ricorrente è quello delle
pubblicità dei dentifrici. In genere sono basati sullo slogan “se vuoi avere
denti bianchi e perfetti compra il dentifricio X”.
Come è fatta un’agenzia pubblicitaria?
Le prime agenzie pubblicitarie sono nate negli Stati Uniti alla fine
dell’Ottocento. In Italia, invece, sono sorte nel secondo dopoguerra col boom
economico, stimolate dall’arrivo di agenzie pubblicitarie inglesi e americane.
Numerose sono le funzioni che vengono svolte al suo interno:
1. Si analizzano le tecniche di vendita dei prodotti;
2. Si individuano i mezzi più adatti per presentarli ai consumatori;
3. Si formula un piano pubblicitario adeguato;
4. Si produce il materiale per la campagna pubblicitaria;
5. Si avvia la campagna sugli spazi e coi mezzi più idonei.
Tutto ciò viene regolato da un solido apparato formato da:
La direzione che gestisce le scelte generali e coordina i settori ed è
formata dal direttore generale e dai capiservizio;
La divisione clienti che opera per trovare nuovi clienti;
Il settore organizzativo che mantiene i contatti coi clienti durante lo
svolgimento del piano pubblicitario grazie al contributo dell’account,
l’intermediario tra il cliente e l’agenzia;
Il settore mezzi che valuta e sceglie i mezzi e gli spazi più idonei