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Sintesi
Letteratura Greca - Poeti dell'età arcaica
Letteratura Italiana - Dante Alighieri; Decadentismo; Gabriele D'annunzio; Alda Merini
Letteratura Inglese - Sylvia Plath; Anne Sexton; Virginia Wolf
Filosofia - Karl Jaspers
Estratto del documento

"Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando,

desiderare di diventare madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel

giorno ella si troverà ad esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista,

vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come è perché, a un certo momento,

uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia, per divenire anch'esso una creatura viva in un

piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana".

Scaturisce proprio da qui, proprio da questo passo tratto dalla prefazione di Sei personaggi in cerca

d'autore di Luigi Pirandello, una domanda di carattere fondamentale per il panorama artistico e

letterario di tutti i tempi: come si verifica ed attraverso quali canali passa l'ispirazione poetica? A

questo interrogativo sono state date innumerevoli risposte, diverse ovviamente per epoca e luogo;

risposte comunque costantemente oscillanti all'interno di una tipica dicotomia: percezione, contro

calcolo logico; intuizione, contro razionalità.

Il primo a fornirci una risposta completa ed una spiegazione esauriente in proposito è, come spesso

accade, Dante.

Le stelle da cui veniamo, alle quali desideriamo costantemente ed incessantemente tornare (l'etimologia

stessa della parola de - siderare ne è una prova chiara ed evidente. Il verbo assume infatti il senso di

fissare attentamente le stelle [lat. sidera], fissare cupidamente lo sguardo ad una cosa che attrae),

forniscono il "correlativo oggettivo" di quella tanto bramata ispirazione che, nel primo canto del

Paradiso, il poeta chiede ad Apollo con un'emblematica terzina: "entra nel petto mio, e spira tue/ sì

come quando Marsia traesti/ da la vagina delle membra sue". Terzina chiave che, proprio grazie alla

scelta infinitamente moderna di capovolgere la metafora - non è dunque la pelle ad essere tolta a

Marsia, ma il vero, intimo Marsia ad essere liberato dalla stretta costrittiva e razionale della sua stessa

pelle - evoca una concezione della creatività almeno bipolare: con l'aiuto del dio della poesia e

dell'ispirazione profetica, essendosi finalmente liberato dalle limitazioni fisiche e avendo quindi

raggiunto l'apice dell'estro, Dante farà uso delle proprie potenzialità umane (memoria, fantasia, arte

della parola), portate certamente al massimo livello, per riconsegnare agli uomini un prodotto che

conservi, tramite quella stessa creatività e tecnica, l'impronta delle "regioni sovrannaturali" in cui è

stato concepito. 2

Per i Greci dell'età arcaica, la poesia è, per l'appunto, misterioso dono divino.

Alle origini del canto poetico, nel passaggio da mito a realtà storica, i Greci pongono figure mitiche di

poeti straordinari: Orfeo, in grado di ammaliare, con il suo canto, la natura in tutte le sue forme; Museo,

abile nel curare i malati con il balsamo della sua musica; ed Omero, nel quale peraltro, musica e poesia

condividono lo statuto di misteriosi doni divini. Da questi presupposti, nasce (VII secolo a.C.) la prima

scena di iniziazione poetica della letteratura occidentale e, nel proemio della Teogonia, le Muse

"insegnano una volta a Esiodo un canto bello".

Nello Ione platonico poi, Socrate ne costruisce il primo progetto esplicativo. Qui, egli sostiene che la

poesia giunga a noi tramite l'ispirazione divina ed introduce il celebre paragone della calamita. Come

una calamita, che ha la proprietà e la capacità di attrarre a sé il ferro, trasmettendo questa forza agli

anelli dell'intera catena, allo stesso modo, la Musa ha il potere di rendere divini i poeti, i quali, a loro

volta, "contagiano" chiunque si accosti alla loro poesia. E in questo caso, si può parlare di vero e

proprio "contagio". "La musa stessa" infatti "rende ispirati", indirizzando al poeta una sorta di morbo,

una follia divina, un entusìasmòs che costituirà l'ispirazione. Insomma, secondo la concezione

1

socratica, il dio "toglie la mente" all'artista, per servirsi di lui come strumento.

Si può dunque parlare di "furore divino"; quello che Platone definisce "possessione da parte delle

Muse" e che dichiara indispensabile per la creazione della vera poesia. Una prima prova di questo

rapporto fra poeti e Muse risale ovviamente alla tradizione epica: fu una Musa che tolse a Demodoco la

vista corporea, conferendogli qualcosa di meglio, il dono del canto, perché innamorata di lui.

Per grazia delle Muse, diceva Esiodo, alcuni uomini sono poeti, come altri sono re, per grazia di Zeus.

E il senso, fino ad un certo punto, è chiaro: come tutte le imprese che non dipendono unicamente dalla

volontà umana, allo stesso modo, la creazione poetica contiene un elemento che non è stato scelto, ma

concesso; e, per la religiosità arcaica greca, “concesso” significa “dato dagli dei”. Nonostante non sia

possibile comprendere la vera natura di questo elemento "concesso", vedremo che si tratta di una

"concessione" assolutamente contenutistica e mai formale. Il poeta domanda sempre alle Muse che

cosa deve dire, ma non come deve dirlo, facendo sì che l'oggetto della sua richiesta sia un dato di fatto.

Modus operandi applicato anche, ad esempio, dal poeta dell'Iliade, il quale, invocando per sé l'aiuto

delle Muse, chiede notizie a proposito di battaglie importanti. In un famoso passo, "giacché voi siete

1 Platone, Ione, Torino, Paravia, 1980, p. 14. Del resto, il concetto era già stato espresso in un passo dell'Apologia, in cui Socrate

sosteneva che la composizione poetica avvenisse non per razionale conoscenza, ma per ispirazione propriamente divina, affiancando i

poeti ai profeti e ai vati. 3

dee, presenti dovunque, e tutto sapete, mentre noi non udiamo che la fama e niente sappiamo", egli

domanda che gli sia comunicato per ispirazione il catalogo delle truppe. Questa frase ha l'impronta

della sincerità e chiunque la utilizzasse per la prima volta sapeva quanto fosse fallace la tradizione e se

ne preoccupava, desiderando solo testimonianze di prima mano. Ma in un'epoca priva di documenti

scritti, dove si potevano trovare testimonianze pure e incontaminate? I poeti risultavano essere i "luoghi

giusti", in cui cercare: "insidiati" dalla grazia divina, essi godevano di un sapere negato agli altri,

garante di una verità superiore ed indiscussa.

Il dono delle Muse dunque, o meglio, uno dei loro doni, è la capacità di parlare secondo verità. Fu

questo che le Muse dichiararono ad Esiodo, quando egli ascoltò la loro voce sull'Elicona, per quanto

esse ammettessero che poteva anche capitar loro, talvolta, di raccontare bugie e falsità. Non possiamo

renderci conto a quali bugie intendessero riferirsi; forse volevano lasciar intendere che la vera

ispirazione della leggenda eroica si risolveva nella pura invenzione. A ogni modo, Esiodo chiedeva loro

una particolareggiata verità di fatti, che avrebbe dovuto dargli la possibilità di ricomporre le tradizioni

sulle varie divinità, completando la narrazione con tutti i nomi e le parentele necessarie. Esiodo aveva

infatti, una grande passione per i nomi e, quando ne pensava uno nuovo, non lo considerava inventato

da lui, ma lo sentiva come una cosa donatagli dalla Musa, sperando che fosse "vero". In realtà, Esiodo

interpretava un'impressione condivisa da molti scrittori posteriori, ossia l'idea che il pensiero creativo

non fosse opera dell'Io. Anche Pindaro domandava alla sua Musa la verità, un oracolo. Egli si serve dei

termini "tecnici" di Delfi, che richiamano implicitamente l'antica analogia tra divinazione e poesia. La

"parte" della Pizia, però, è sostenuta dalla Musa e non dal poeta, il quale non domanda di essere

posseduto egli stesso, ma soltanto di lavorare come interprete della Musa caduta in uno stato di estasi.

Il poeta faceva derivare dalle Muse il suo sapere straordinario, senza essere però avvolto da sonni

ipnotici, o essere posseduto dalle divinità: era appunto questo il rapporto che originariamente vigeva tra

Musa e poeta.

La concezione di un poeta "frenetico", che compone in uno stato di estasi, non si incontra prima del V

secolo. Il primo autore che abbia parlato di estasi poetica è Democrito. Egli riteneva che le poesie più

belle fossero quelle composte grazie all'ispirazione e all'esalazione sacra e negava che si potesse essere

un grande artista sine furore. Spetta così a Democrito, l'onore di aver introdotto nella teorica letteraria

l'immagine di un poeta separato dall'umanità comune, lontano da essa per le straordinarie esperienze

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interiori, nonché l'idea di una poesia superiore alla ragione, sinonimo di rivelazione estranea.

2 Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Milano, BUR, 2009, p. 125 – 127.

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E' dunque questa la prima spiegazione data al concetto di ispirazione, in quanto fenomeno irrazionale

ed assolutamente alogico. Spiegazione che, malgrado periodi in cui si preferirà credere alla poesia

esclusivamente come prodotto di tecnica e raziocinio (si prendano, ad esempio, in considerazione i

poeti della Scuola Siciliana e la loro scelta di costruire una forma, quella del sonetto, che fosse

estremamente fissa e caratterizzata da rapporti numerici invariati ed invariabili), interesserà la storia

della cultura occidentale, rimanendo costantemente presente e rintracciabile. Non a caso, verrà a lungo

ripresa - già con il Romanticismo, ci si era mossi nella direzione della valorizzazione del sentimento, ai

danni della ragione - ma il "ripescaggio" principale avverrà in epoca Decadente.

Il Decadentismo affonda le sue radici in un irrazionalismo misticheggiante, basato, in un certo senso,

sul radicale rifiuto della visione positivistica della realtà; ovvero la convinzione che la realtà sia un

complesso di fenomeni materiali regolati da leggi ferree e meccaniche e che la scienza, una volta

individuate tali leggi, possa garantirne una conoscenza oggettiva e totale, determinando il dominio

dell'uomo sul mondo, il progresso indefinito e la sconfitta dei mali dell'uomo. Il Decadente ritiene, al

contrario, che la ragione e la scienza non possano garantire la vera conoscenza del reale. L'essenza di

questa si situa al di là delle cose; si può dunque attingere all'ignoto solo rinunciando all'ambito

razionale, assimilando il pensiero ad una continua ricerca dell'inconoscibile. Contrariamente alla

sensibilità comune, secondo cui ogni cosa ha una sua oggettiva e isolante individualità, per questa

visione profondamente mistica, tutti gli aspetti dell'essere sono legati da arcane analogie e

corrispondenze che fuggono alla ragione. Ogni forma visibile, perciò, non è che un simbolo di qualcosa

di più profondo che va ad unirsi, in una rete segreta, ad infinite altre realtà. A questo punto, entra in

gioco l'inconscio, la cui scoperta risulta il dato fondamentale della cultura decadente, dimostrandosi

una costante necessaria per comprenderne ed apprenderne le principali concezioni.

Freud inizierà a sistemare scientificamente questa conoscenza, cercando di portare alla luce della

coscienza l'inconscio, sottoponendolo al dominio dell'Io. Dominio totalmente rinnegato dai Decadenti, i

quali, invece, si lasciano inghiottire da vortici tenebrosi e distruggono ogni legame razionale, forti della

convinzione che solo questo abbandono totale, molto vicino all'esperienza dell' annullamento, possa

garantire un'esperienza ineffabile, la scoperta di una realtà più vera. Il decadente cerca di penetrare il

mistero mediante mezzi che non siano ragione e scienza. E gli stati abnormi ed anomali dell'esistere,

quali malattia, nevrosi, delirio, follia, sogno, incubo ed allucinazione, sono finalmente indicati come

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strumenti del conoscere.

Gli stati di alterazione, sottraendo al costrittivo controllo dell'intelletto, offrono allo sguardo interiore

prospettive, orizzonti ignoti, rendendo conoscibile il mistero delle cose.

Se io e mondo non sono distinti, l'essere individuale può annullarsi nelle vita del mondo stesso,

potenziando la propria esistenza e rendendola quasi divina. Siamo di fronte al noto atteggiamento del

Panismo.

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