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Premessa
Nel passato la vita degli uomini e delle società fu spesso condizionata da grandi paure
collettive: carestie, epidemie e invasioni barbariche, che nell’ambito della civiltà occidentale
sono andate via via scomparendo; gli ultimi decenni ci hanno riservato un miglioramento
delle condizioni di vita. Ma la scomparsa o almeno la marginalizzazione di alcune delle
grandi paure del passato non ha significato la liberazione dell’uomo dall’angoscia di una
possibile catastrofe. Dagli anni 50 fin quasi ai giorni nostri c’era la tragica consapevolezza
che l’umanità potesse scomparire per gli effetti terminali e devastanti di un conflitto
nucleare: per la prima volta si affacciava l’idea che gli strumenti di distruzione messi
appunto dalla scienza erano in grado di distruggere il pianeta, di produrre effetti irreversibili
tali da cancellare o modificare strutturalmente la stessa natura. A partire dagli anni 70
un’altra paura si sovrappone a quella della bomba, quella del disastro ecologico. Si tratta
certamente di una angoscia diversa, che non prevede scenari di sconvolgimenti repentini,
ma inquietante e dirompente per la coscienza collettiva. La consapevolezza che la
modificazione della stratosfera e dello stesso equilibrio ecologico è il risultato di uno
sconsiderato uso delle risorse, di uno sviluppo dell’industria presupposto come illimitato,
senza tener conto delle contro partite negative dell’aver indirizzato la ricerca scientifica
soprattutto in direzione di un più vantaggioso e massiccio sfruttamento delle risorse naturali.
Il senso della catastrofe non è più legato al verificarsi di eventi straordinari, ma si insinua
nella quotidianità delle masse che vivono nelle metropoli del nostro tempo, le più ricche,
sazie e libere da problemi materiali, ma nevrotizzate dall’irrespirabilità dell’aria, dal
degrado ambientale, dall’incubo di dover rinunciare almeno in parte al proprio benessere per
salvaguardare un livello decente di sopravvivenza per le generazioni future.
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Il petrolio
Il petrolio fa parte delle rocce organogene: particolari rocce sedimentarie, che derivano dall’accumulo di
sostanze legate ad una attività biologica. Generalmente, si formano per deposizione di scheletri di coralli, di
gusci di molluschi, di resti vegetali. La trasformazione dei sedimenti in rocce sedimentarie prende il nome di
diagenesi e avviene in seguito a una serie di fenomeni di cui il più importante è la litificazione
(pietrificazione), che avviene per compattazione e cementazione. Infatti, all'inizio i sedimenti sono sciolti e si
dicono "rocce incoerenti". La compattazione avviene per sovrapposizione di sedimenti formati da granuli
finissimi come le argille che comprimono i sedimenti sottostanti e riducono lo spazio tra i vari frammenti.
Con il trascorrere del tempo (centinaia di migliaia e/o milioni di anni) la tipologia degli strati può cambiare;
si accumulano così uno sopra l'altro numerosi strati di materiale diverso. Gli strati più profondi vengono
compressi dal peso di quelli soprastanti e tale pressione fa sì che quei sedimenti diventino rocce compatte.
Le rocce organogene si dividono in: rocce carbonatiche, rocce silicee, carboni fossili, idrocarburi. Tra le
rocce carbonatiche troviamo i calcari organogeni, dovuti sia all’accumulo di gusci calcarei, spesso immersi
in una matrice fine, sia costruiti da organismi che impiegano la calcite per rivestirsi di parti scheletriche.
Associate ai calcari anche se meno abbondanti, si trovano spesso le dolomie, formate da carbonato doppio di
calcio e magnesio, cioè da dolomite. Tali rocce sono formate per un processo di diagenesi in rocce calcaree
che vengono interessate da circolazione di soluzioni acquose ricche di magnesio. Le rocce silicee sono
formate dall’accumulo di gusci di organismi che utilizzano la silice invece della calcite, tra queste quella più
diffusa è la selce. I carboni fossili derivano dalla fossilizzazione di grandi masse di vegetali (alberi, piante
acquatiche, alghe); secondo alcuni studiosi gli alberi sarebbero stati sepolti nel luogo in cui vivevano,
secondo altri sarebbero stati accumulati dal trasporto fluviale in bacini acquei. Gli idrocarburi sono miscele
di composti del carbonio e dell’idrogeno, a cui si aggiungono piccole quantità di composti ossigenati, azotati
e fosforiti. In natura si trovano idrocarburi solidi: asfalti, bitumi; gassosi, tra i quali predomina il metano; e
liquidi: petrolio e fazioni più leggere. Tutti i tipi di petrolio sono costituiti principalmente da una miscela di
idrocarburi (sostanze chimiche organiche, le cui molecole sono formate esclusivamente da atomi di carbonio
in quantità variabile
e di idrogeno, variamente legati fra loro), anche se solitamente contengono anche zolfo,
dallo 0,1% al 5% circa, e ossigeno. I costituenti del petrolio sono
liquidi e solidi, in varia percentuale: la consistenza dei derivati è
dunque molto variabile, e va da liquidi fluidi, come la benzina, a liquidi
spesso di difficile manipolazione. Nel petrolio si
densi, come il bitume,
trovano disciolte anche quantità rilevanti di particelle gassose,
specialmente quando il giacimento petrolifero è associato a un
giacimento di gas naturale. Ruolo fondamentale nella formazione del
petrolio lo occupa il carbonio, infatti una piccolissima parte di esso
(circa lo 0,01-0,1%) sfugge all'ossidazione. Il carbonio organico quindi
non deve entrare in contatto con la geosfera, in particolare deve essere
protetto dall'ossigeno. Per questo si preserva solamente nei sedimenti
deposti in ambiente acquatico dove il tenore di ossigeno è basso ed è
per questo che il petrolio si ritrova praticamente solo nelle rocce
sedimentarie. Il principale produttore di carbonio organico è il
fitoplancton (diatomee, dinoflagellati, nonnoplancton,..) mentre il
contributo degli organismi più grandi, come i pesci e gli animali
terrestri, è praticamente trascurabile. Una quantità rilevante viene
fornita anche dai vegetali che sono più resistenti all'alterazione e quindi
hanno più tempo a disposizione per trovare un ambiente di deposizione
favorevole al loro preservamento, ma in genere questi danno vita a dei
depositi di carbone. Se le condizioni sono favorevoli si può formare
una "roccia madre", ossia una roccia che contiene concentrazioni di carbonio organico tali da poter produrre
successivamente del petrolio in quantità apprezzabili (almeno lo 0,5% per le rocce detritiche, e lo 0,3 % per
quelle carbonatiche). Gli ambienti di sedimentazione più favorevoli perchè una roccia possa diventare
"madre" sono quelli vicino alle coste, dove l'apporto di sostanze organiche è maggiore, e quelli dove le acque
sono tranquille così da permettere la sedimentazione di particelle fini come lagune, estuari e scarpate
continentali. La trasformazione della sostanza organica in petrolio è una conseguenza della subsidenza
attraverso la quale i sedimenti carichi di sostanza organica, subiscono uno sprofondamento verso condizioni
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di temperature e pressioni crescenti. Condizioni che già a circa 1 Km di profondità e ad una temperatura di
almeno 60 C° avviano il processo di diagenesi attraverso il quale i sedimenti diventano roccia e in questo
caso roccia madre. Il processo di sprofondamento continua passando alla catagenesi, continuando nella
metagenesi. Durante la diagenesi il sedimento e la materia organica, subiscono una compattazione a causa
dalla pressione ed un aumento di temperatura che favorisce i batteri presenti nel terreno a "fermentare" la
sostanza organica producendo CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano); quest'ultimo a volte può formare i
famosi gas di palude, detto metano biogenico. Al termine della diagenesi la sostanza organica è in parte
ossidata, in parte riciclata dai microrganismi, in parte è stata fermentata e ha formato il metano biogenico e
in parte infine si è trasformata in Kerogene, geopolimero complesso progenitore del petrolio. Tra i prodotti
finali della diagenesi si può trovare anche il carbone che è formato da materiale vegetale. Con l'incremento
della temperatura si passa alla fase di catagenesi dove il kerogene passa allo stato amorfo in macromolecole
formate principalmente da carbonio ed idrogeno, con una piccola
percentuale di ossigeno, zolfo e azoto. Aumenta ancora la
temperatura e il kerogene continua a trasformarsi eliminando
dalla macromolecola le molecole più leggere, e relativamente
ricche di O e H, assumendo una struttura via via più ordinata e
stabile. La fase finale della catagenesi è quella dove il kerogene
completa la sua maturazione (a circa 150°C e diversi Km di
profondità con pressioni di circa 1000 Atm. ). Qui avviene infatti
il processo di cracking, indotto dal solo aumento di temperatura.
Durante questa fase il kerogene subisce la rottura della
macromolecola originale formando molecole di bitume (petrolio)
e di gas che, essendo molto meno dense della macromolecola di
partenza, tenderanno a migrare verso l'alto e ad accumularsi
laddove troveranno delle barriere rocciose impermeabili
(trappole). Il kerogene rimanente si arricchirà sempre più in
carbonio, con un numero sempre minore di atomi suscettibili di
rottura. Quindi ad un certo punto non sarà più in grado di
produrre petrolio anche se potrà produrre discrete quantità di
metano e condensati (composti leggeri in forma gassosa nel sottosuolo e liquidi alle condizioni ambientali).
Come vediamo la produzione di petrolio avviene tra due temperature: una minima di circa 60° in cui inizia la
fase di diagenesi al cui termine si genera il kerogene, ed una massima tra i 100°-150° in cui il kerogene
subisce il fenomeno di cracking. Queste sono due soglie termiche che delimitano la cosidetta finestra
dell'olio, ossia l'intervallo di profondità e temperatura (calcolate con un gradiente geotermico medio) in cui la
roccia madre produce la massima quantità di petrolio. Alla soglia del metamorfismo (circa 5-6 Km di
profondità e temp di circa 200°) il kerogene diventa un residuo carbonioso grafitico. Va da sè che nelle
condizioni di metamorfismo non esiste possiblità alcuna di generare petrolio. Come abbiamo detto, una volta
generato, il petrolio, tende per minor densità a salire verso l'alto. Questo processo, chiamato migrazione,
trova maggiore impulso quando fra pori è presente ancora acqua, attraverso una vera e propria spinta di
galleggiamento. Il tipo di roccia dove il petrolio tende ad accumularsi in maniera definitiva è generalmente
diverso da quello della roccia madre; questa infatti generalmente è un'argilla, una marna, o un calcare a grana
finissima, ricchi di materia organica e scarsamente permeabili; mentre la roccia, ove il petrolio si accumula e
viene estratto, è quasi sempre un'arenaria o una roccia carbonatica con porosità e permeabilità elevate e con
contenuto organico originario praticamente nullo. La migrazione è distinta in due fasi: la migrazione
primaria, che avviene all'interno della roccia madre cioè dalla roccia madre fino all'interfaccia con una roccia
diversa; e la migrazione secondaria, in cui il petrolio, attraverso sistemi di fratture o porosità di un'altra
formazione rocciosa, raggiunge un punto di accumulo (detto reservoir). Possiamo anche avere dei fenomeni
di migrazione terziaria, cioè quando il petrolio migra da un reservoir ad un altro. La migrazione primaria è
innescata da un aumento della pressione causata dal craking che crea una rete di micro fratture all'interno
della roccia madre nelle quali il petrolio tende a spostarsi verso zone dove vi sono condizioni di minor
pressione, e quindi normalmente verso l'alto. Una volta arrivato all'interfaccia con un'altra formazione
geologica inizierà la sua migrazione secondaria, se la roccia è sufficientemente porosa, grazie alla sua
leggerezza e tenderà a risalire verso l'alto fino ad arrivare in superficie. Ma se durante la risalita trova sulla
strada una roccia meno porosa, che ne impedirà il movimento, o una discontinuità chiamata tecnicamente