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Il passato che
vive nel presente.
Circa un mese fa, mentre facevo ordine nella mia vasta videoteca,
mi sono ritrovata tra le mani la videocassetta de “Il re leone”. Salita
subito la nostalgia del passato (ero solo una bambina quando il film
uscì nelle sale, nel 1994), mi sono decisa a riguardare quelle scene
che tanto mi avevano fatto ridere durante la mia infanzia e che
tuttora continuano a divertirmi. Il film narra delle avventure di
Simba, cucciolo di leone della valle africana, figlio del re Mufasa,
destinato a succedere il padre nel regnare la Rupe dei Re nelle Terre
del Branco. Sua inseparabile compagna di avventure è Nala, altra
coetanea e già promessa sposa. I due cuccioli giocano spesso
insieme, ignorando i rischi che corrono e causando danni a cui
Mufasa pone sempre rimedio. Ma il malvagio zio Scar, fratello di
Mufasa, trama nell’ ombra per poter uccidere il piccolo e
impossessarsi del trono, finchè un suo diabolico tentativo si
concluderà con la morte del fratello (travolto da una mandria di
gnu, spaventati dalle tre iene al servizio di Scar )e la fuga di Simba,
al quale il perfido zio fa credere di essere il responsabile dell’
incidente. Scar s’ insedia quindi con la forza come dominatore delle
Terre del Branco. Simba, nella sua fuga, incontra il suricata Timon
ed il facocero Pumbaa, che lo educano a godersi la vita senza
preoccupazioni, attraverso la filosofia dell‘ Hakuna Matata (“senza
pensieri”). Egli cresce sino a diventare un leone adulto, ignaro della
sorte della sua famiglia, fino a quando un giorno ritrova Nala per
caso. La leonessa, come la altre sue coetanee del branco, è stata
costretta ad allargare il proprio territorio di caccia poiché il
dissennato governo di Scar ha causato una terribile carestia. Il
branco è alla fame e Simba non sa quale sia il suo destino.
Convinto infine dallo stregone- babbuino Rafiki, Simba affronta Scar,
che rivela di essere lui l ‘artefice della morte di Mufasa. Simba
scoperto l’ inganno reagisce e il crudele zio, vistosi in pericolo,
rinnega la sua alleanza con le iene cercando di ingannare
nuovamente Simba, senza però accorgersi che un manipolo di
queste è in ascolto. Simba sconfigge Scar, che viene ucciso dalle
vendicative iene. Simba riporta così la pace e la serenità nella valle,
diventando il re e dando alla luce un cucciolo con la compagna
Nala.
La tragica morte del padre e la triste consapevolezza (o almeno così
lui crede) di esserne responsabile, portano Simba a fuggire. Quando
Rafiki si presenta a Simba, egli è terribilmente scosso e confuso,
tanto che confessa di non sapere più chi è realmente. Rafiki spinge
il leone a guardare dentro il proprio animo, a cercare la propria
identità perduta. E per farlo adotta un piccolo stratagemma :
colpisce Simba alla testa con un bastone e, davanti ai lamenti del
malcapitato, la scimmia ribatte che ormai l’azione è passata. Simba
ribatte che il colpo continua a far male e a quel punto il saggio
babbuino risponde che il passato può far male, ma che da esso si
può scappare oppure imparare qualcosa. Simba allora si rende
conto di esser scappato troppe volte da quello che è il suo destino,
e decide di tornare a casa. Questa scena, che è quella che più mi ha
colpito, mi ha fatto riflettere molto e mi ha portato a pormi una
domanda: fino a che punto il passato di una persona può
condizionare il suo essere, la sua vita stessa? L’uomo si fa
condizionare spesso da un passato che fa male, segnato da eventi
negativi che inibiscono le nostre azioni anche nel presente, primo
fra tutti la morte di una persona cara. A questo proposito il trauma
di Simba mi ha ricordato quello vissuto da Giovanni Pascoli, uno dei
rappresentanti più significativi del decadentismo italiano, la cui
fanciullezza agiata fu turbata dalla morte del padre Ruggero, evento
che segnerà il resto della vita del Pascoli e , di conseguenza, la sua
produzione poetica. Egli rimane, per così dire, bloccato in una
condizione tra infantile e adolescenziale, quindi in quella fascia d’
età in cui è avvenuta la perdita del genitore. Persa anche la madre,
egli diventa morbosamente attaccato alle due sorelle Ada e Maria, e
ossessivamente geloso nei confronti di quest’ ultima quando l’altra
si sposa. Costruisce attorno a sé una sorta di nido familiare, che lo
isola dal mondo al di fuori del quale egli stesso non vuole andare.
Ancora a distanza di quasi trent’anni dalla morte del padre , Pascoli
pubblica una poesia, il “X agosto”, poi raccolta in Myricae, che
rievoca quella giornata in tutta la sua drammaticità. Pascoli collega
la morte del padre a quella di una rondine, uccisa anch’ essa senza
motivo mentre torna al nido dove l’attendono i suoi piccoli; il cielo,
dall’alto della sua infinita e serena distanza, assiste alle due morti
con un lacrimare di stelle cadenti (particolarmente fitte la notte del
10 agosto). L’uomo e la rondine sono simboli del dolore universale e
della malvagia ingiustizia che regola la vita sulla Terra; e la
lontananza del cielo esprime la lontananza incolmabile del bene e
della giustizia dalla sofferenza umana. L’ uomo ucciso
è,chiaramente, il padre del poeta; tuttavia la sua identità non è
esplicitata; in questo modo la morte, con il dolore che ne deriva,
non è solo la morte di un singolo, ma si trasforma in un simbolo
della sofferenza umana universale. Questo è un esempio di come
spesso il concetto di passato sia strettamente legato a quello di
sofferenza . Secondo Marcel Proust, uno degli scrittori più importanti
del Novecento, c’è una sola cosa che ci spaventa più dell’aver perso
una persona, ed è l’idea che ad un certo momento diventiamo
indifferenti al fatto di averla perduta. Ma questo è un passaggio
necessario per far sì che nella nostra esistenza un nuovo io prenda
il posto di quello vecchio. In noi c’ è un succedersi di io distinti
destinati a morire uno dopo l’altro. L’ io di ricambio espianta quello
vecchio senza che noi ce ne rendiamo conto e ciò è possibile solo
attraverso l’ oblìo. Ed è proprio di ricordi, di rievocazione
malinconica del passato perduto che Proust parla nella sua opera
più importante “Alla ricerca del tempo perduto” (1909-1922),
articolata in sette romanzi. Tutti i personaggi sono sostanzialmente
dei vinti, a ognuno il tempo ha tolto qualcosa. Nelle prime pagine
Marcel ripensa alla propria infanzia. Il ricordo più vivo è quello in
cui, durante le vacanze in campagna a Combray, sua madre gli
negava il bacio della buonanotte, per trattenersi con un ospite,
Charles Swann. La realtà di quel mondo gli sembra perduta. Ma un
giorno, assaggiando per caso un biscotto inzuppato nel tè, esso
risorge: quel sapore, che da piccolo gli era familiare,gli restituisce le
sensazioni, i ricordi, i racconti legati a Combray. E’ un chiaro
esempio di come la ricerca volontaria del passato sia inutile: esso
non può tornare per opera dell’ intelligenza, ma quando il cuore, per
caso, sia scosso da una rivelazione. Sensazioni e cose sono
immerse nel flusso della transitorietà e dell’effimero, sottoposte al
tempo che le disintegra e le travolge: si tratta di impegnare una
strenua lotta contro il tempo, che può essere riportato indietro
attraverso un semplice ricordo. Per Proust, però, il recupero del
passato non è sempre possibile. Egli distingue due tecniche o gradi
di recupero: memoria volontaria e memoria spontanea. La memoria
volontaria richiama alla nostra intelligenza tutti i dati del passato
ma in termini logici, senza restituirci l’insieme di sensazioni e
sentimenti che contrassegnano questo momento come irripetibile;
la memoria spontanea è invece quella che permette di “sentire” con
contemporaneità quel passato: è l’intermittenza del cuore la tecnica
da seguire per il recupero memoriale del presente e ciò che è
sepolto nel tempo perduto. La memoria involontaria cattura con
un’impressione o una sensazione l’essenza preziosa della vita, che
è l’io e serve a spiegare il valore assoluto di un ricordo abbandonato
dall’infanzia, risvegliato attraverso il sapore di un dolce o un sorso
di tè. A volte i ricordi che conserviamo nel nostro cuore sono
talmente belli che vorremmo tornare indietro per riviverli. Ma poiché
questo non si può fare, spesso immortaliamo scene di eventi
particolari con un “click”, e grazie alle fotografie possiamo riportare
in vita i ricordi più profondi nascosti nel nostro cuore. L’ invenzione
della fotografia, nel 1827, costituisce la realizzazione di un sogno
antico che era stato invano perseguitato dagli artisti di tutti i tempi
e mostra da subito uno stretto legame con la pittura .Grazie alla
fotografia,infatti, la pittura cessa di essere documentaria e si
concentra maggiormente sull’analisi psicologica dei personaggi o
sulle emozioni che l’artista desidera trasmetterci. La fotografia, dal
canto suo, deriva dalla pittura molte delle regole di composizione,
prima fra tutte la grande attenzione posta al bilanciamento di luci e
ombre. Ciò è reso possibile dal fatto che i fotografi lavorano
inizialmente in atelier del tutto simili a quelli dei pittori.
L’invenzione della fotografia, inoltre, ha contribuito non poco alla
formazione del movimento artistico dell’ Impressionismo. L’
impressionismo si sviluppa in modo completamente diverso rispetto
a tutti i movimenti artistici precedenti. Nato il 15 aprile 1874, esso
inizia con l’abolire tutti e tre i canoni accademici. Tutti gli
impressionisti imprimono alle proprie opere qualcosa di
profondamente personale e soggettivo, servendosi di molti
materiali fotografici, poiché tale metodo di riproduzione meccanica
della realtà li aiutava a cogliere dettagli e aspetti che l’occhio
umano poteva non essere sempre in grado di percepire. La loro
pittura, venuto definitivamente meno l’obbligo di riprodurre la
realtà, poteva partire da dove la fotografia si
fermava,testimoniando impressioni e stati d’animo che anche il più
perfetto obiettivo di una fotocamera non avrebbe comunque mai
potuto percepire. Un esempio di dipinto dal taglio fotografico è dato
da “Lezione di ballo” (1873) del francese Degas. Questo è il primo
dei grandi dipinti appartenente alla serie delle ballerine, in cui è
rappresentato il momento in cui una ballerina sta provando dei
passi di danza sotto l’occhio vigile del maestro, mentre le altre
ragazze,disposte in semicircolo,osservano la scena. Il dipinto
sembra una fotografia perché,proprio come in un‘istantanea, alcune
figure risultano fuoriuscire dall’ inquadratura. Ciò suggerirebbe una
pittura di getto,atta a cogliere l’impressione di un momento, ma in
realtà l’opera è il risultato di un difficile e meditato lavoro in atelier,
condotto su decine di schizzi preparatori. I gesti delle ballerine sono
indagati con attenzione quasi ossessiva: quella con il fiocco giallo si
gratta la schiena, quella col nastro rosso tra i capelli si sta facendo
aria col ventaglio e, tra le altre, c’è quella che si accomoda
l’orecchino , quella che si sistema l’acconciatura, quella che ride e
scherza con la compagna. Cogliere questi aspetti marginali ma
significativi del quotidiano è una scelta precisa dell’artista. Tutto è
rappresentato come se si guardasse “dal buco della serratura”. Dal
punto di vista tecnico, in opposizione alle teorie impressioniste,
Degas non rifiuta né il disegno né l’uso del bianco e del nero
(bianchi sono infatti i tutù delle fanciulle e neri i nastrini di raso al
collo). La vecchia tradizione continua a influenzarlo e a vivere nelle
sue opere e in quelle di tutti gli impressionisti che faranno ritorno ai
canoni accademici. Il passato, dunque, sia che lo fuggiamo, sia che
lo combattiamo, sia che lo soffriamo,fa parte del nostro presente
più di quanto ce ne rendiamo conto. Può riaffiorare mentre siamo
felici,anzi spesso è proprio stimolata da emozioni forti. La nostalgia
torna a galla per ricordarci che abbiamo un passato che ha avuto
senso per noi. Secondo il professor Constantine Sedikides, direttore
del Centro di ricerca sull’identità personale dell’Università di