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In seguito all’emergere di una tale concezione, successivamente al 1824, Leopardi abbandona
la poesia civile ed il titanismo, assumendo un atteggiamento contemplativo, ironico,
distaccato e rassegnato. Nei suoi ideali non sarà più l’eroe antico, ma il saggio antico, stoico,
la cui caratteristica è l’atarassia, ovvero il distacco imperturbabile della vita. Questo
atteggiamento sarà presente nelle Operette Morali.
In momenti successivi tornerà comunque l’atteggiamento di protesta, di sfida al fato e alla
natura.
Al termine della vita, nella Ginestra, Leopardi arriverà a costruire tutta una sua concezione
della vita sociale e del progresso.
Leopardi e la potenza sublime della natura
Leopardi può essere considerato il più grande scrittore dell’ottocento italiano che ha messo in
luce il rapporto tra l’uomo e la natura in tutta la sua potenza.
“Dialogo della Natura e di un Islandese”
Tra le Operette Morali leopardiane, una delle più famose è certamente il "Dialogo della
Natura e di un Islandese". L’operetta fu scritta nel 1824, e l’idea di assumere un islandese
come protagonista del dialogo proviene dalla convinzione che gli islandesi, più di ogni altra
popolazione, erano afflitti dalla “malignità" della natura e provavano sulla loro pelle ogni
giorno la potenza dell’elemento naturale che si rivolgeva contro di loro, viste le condizioni
climatiche della loro isola.
Lo spunto fu comunque offerto a Leopardi dalla "Storia di Jenni” di Voltaire , che nel
contesto di un discorso sui flagelli da cui sono tormentati gli uomini si rifaceva alle terribili
condizioni degli Islandesi, minacciati dal gelo e dal vulcano Hekla.
L’operetta segna una fondamentale svolta nel pensiero leopardiano: il passaggio da un
pessimismo sensistico-esistenziale a un pessimismo materialistico e cosmico, dalla
concezione di una natura benefica e provvidente a quella di una natura nemica e persecutrice.
“…né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio…"
In tutte le operette precedenti la radice dell’infelicità dell’uomo appariva di tipo psicologico-
esistenziale, l’aspirazione ad un piacere infinito e l’impossibilità di raggiungerlo; qui invece
l’infelicità è fatta dipendere materialisticamente dai mali esterni, fisici, a cui l’uomo non
è in grado di sfuggire.
Afferma l’Islandese, il quale è chiaramente il portavoce di Leopardi: “…io non potea
mantenermi senza patimento:perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore
stremo della state…mi travagliavano di continuo…io non mi ricordo aver passato un giorno
solo della vita senza qualche pena…”
L’operetta narra di un Islandese che, dopo aver "soggiornato in diversissime terre",
attraversando la parte più interna dell’Africa (dove, dice la personificazione della Natura nel
Dialogo,”si dimostra più che altrove la mia potenza") e oltrepassando l’equatore, vide da
lontano un busto grandissimo, che inizialmente ritenne essere di pietra, successivamente trovò
essere una forma smisurata di donna seduta in terra, appoggiata ad una montagna, con un
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volto "tra bello e terribile", "di occhi e capelli nerissimi". Dialogando con questa figura,
l’Islandese scopre di essere al cospetto della personificazione della Natura stessa, dalla quale
fuggiva.
L’Islandese, nel dialogo, fa un elenco puntiglioso, ossessivo, dei mali che la Natura causa
all’uomo, con un tono di tragica terribilità: climi avversi, le tempeste, i cataclismi, le bestie
feroci, le malattie e, tra i più terribili, la decadenza fisica e la vecchiaia.
“…nè anche potea conservare quella tranquillità della vita…perché le tempeste spaventevoli
di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla…non intermittevano mai di
turbarmi…”
Da qui traiamo l’idea di una natura nemica, che mette al mondo le sue creature per
perseguitarle.
In questa fase del pensiero Leopardiano l’autore attribuisce alla natura quelle qualità di
crudeltà e di indifferenza che aveva in precedenza riservato agli dei e al fato.
"…ci è tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza
miseria:e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri
animali; e di tutte le opere tue…e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che sei carnefice della
tua propria famiglia, dè tuoi figlioli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere…”
In questa operetta abbiamo la scoperta folgorante, traumatica, che cambierà tutto il corso della
riflessione e della poesia leopardiana successiva dell’indifferenza della Natura nei confronti
dell’uomo. Leopardi approda così a un materialismo assoluto e a un pessimismo cosmico,
che abbraccia tutti gli esseri.
Afferma la Natura nel Dialogo:”…sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt'altro, che alla felicità
degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo,
io non me n'avveggo, se non rarissime volte…”
Il dolore, la distruzione, la morte, lungi dall’essere errori accidentali nel piano della natura,
sono elementi essenziali del suo stesso ordine.
Ancora la Natura:"…se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne
avvedrei..."
Il mondo è un eterno ciclo di “produzione e di distruzione", e quest’ultima è indispensabile
alla conservazione del mondo.
La sofferenza è la legge stessa dell’universo, e niente ne é immune. Inoltre questa vita
infelicissima dell’uomo sembra non avere uno scopo.
“…a chi piace o a chi giova cotesta vita in felicissima dell’universo, conservata con danno e
con morte di tutte le cose che lo compongono?...”
Lo stile dell’operetta prevede una requisitoria incalzante, appassionata, simile a quella
riscontrabile ne “La Ginestra”. 6
“La Ginestra o fiore del deserto”
"La Ginestra" è un ampio poemetto di ben 317 versi, in cui convergono i temi e i toni più
diversi, in una vasta orchestrazione sinfonica, composto nel 1836.
Le strofe in cui Leopardi dà maggior rilievo alla natura nella sua potenza sono la prima e la
quinta.
Nella prima strofa il poeta fa riferimento al Vesuvio e al suo pendio arido sul quale é possibile
scorgere un fiore profumato ed unico, la ginestra.
Il paesaggio è composto dal “formidabil monte", in cui si concreta sensibilmente l’immagine
della potenza distruttiva della natura; dalle "erme contrade" intorno a Roma, immagine di
delusione ed abbandono, che richiama l’azione corrosiva del tempo; le "ceneri infeconde”,
immagine di morte.
La ginestra assume un denso valore simbolico: essa rappresenta essenzialmente la pietà verso
la sofferenza degli esseri, perseguitati dalla natura.
La ginestra rappresenta inoltre la vita che resiste ad ogni costo al deserto, alla potenza
devastante della natura.
La natura nella strofa appare nelle immagini del monte distruttore e dei deserti di
cenere e di lava impietrita, che tendono ad una sublimità grandiosa ed orrida.
La prima strofa recita:
”Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra…
…Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde,e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona…”
Il motivo della potenza distruttiva della natura della prima strofa è ripreso nella quinta.
In essa Leopardi esprime la certezza che la natura non si curi affatto dell’uomo e dei suoi
bisogni.
“…Non ha natura al seme
Dell’uomo più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che ne1l’altra é 1a strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde…”
La natura per Leopardi non si cura dell’uomo più di quanto si curi delle formiche. Come un
pomo cadendo da un albero schiaccia un formicaio, così il vulcano con la sua eruzione
distrusse nel primo secolo dopo Cristo le prospere città di Pompei ed Ercolano. 7
La descrizione del cataclisma è tutta vibrante di interna energia e Leopardi si cura di rendere
la rapidità delle sue fasi.
Grande rilievo ha la metafora dell’ "utero tonante", immagine che concretizza l’idea di
una natura "madre di parto e di voler matrigna" (terza strofa), dal cui grembo esce la
vita, ma può indifferentemente uscire la morte.
"…così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scaglita al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina,infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti…”
Ne "la Ginestra" l’ideologia leopardiana giunge a completa maturazione approdando al
pessimismo eroico: appello alla solidarietà fra gli uomini per ergersi contro la Natura su
di una base di impegno etico-civile e di aperto confronto con le ideologie dominanti. La
ginestra indica proprio la resistenza all’avversità della natura: nonostante i campi sono
cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti dell’impietrita lava, la ginestra continua a
spargere il suo profumo ed a mostrarsi in tutta la sua bellezza. La natura di cui trattano
gli ultimi versi di Leopardi è dunque metafora della sua ideologia: combattere la sua
natura matrigna. 8
Quando l’uomo si trova di fronte alla potenza della natura prova il sentimento del sublime.
Una delle prime personalità, insieme a E. Burke, che teorizzò il sublime fu il filosofo
Immanuel Kant nel XVIII secolo.
La “ Critica del Giudizio” di Immanuel Kant
Nella “Critica del Giudizio”, Kant studia il sentimento, come nella “Critica della Ragion
Pura” analizza la conoscenza e nella “ Critica della ragion Pratica” la morale.
Kant fa del sentimento un campo di attività autonomo. Esso configura il mondo fisico in
termini di finalità e di libertà e rappresenta unicamente un’esigenza umana che, come tale,
non ha alcun valore di tipo conoscitivo o teoretico.
Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, in
contrapposizione a quello dei giudizi determinanti.
Questi ultimi sono i giudizi conoscitivi e scientifici, che determinano gli oggetti fenomenici
mediante forme a priori universali (i giudizi esaminati nella “Critica della Ragion Pura”).
I giudizi riflettenti sono invece i giudizi sentimentali, i quali si limitano a riflettere su di una
natura già costituita mediante i giudizi determinanti e ad apprenderla attraverso le nostre
esigenze universali di finalità e di armonia.
La parola “giudizio”assume il significato di organo dei giudizi riflettenti, di una facoltà che
Kant ritiene intermedia tra intelletto e ragione, fra conoscenza e morale.
I due tipi fondamentali di giudizio sono: quello estetico, che verte sulla bellezza, e quello
teleologico, che riguarda il discorso sugli scopi della natura.
Entrambi sono giudizi sentimentali puri (a priori), ma si distinguono per un differente
rimando al finalismo.
Nel giudizio estetico noi viviamo immediatamente la finalità della natura, mentre nel giudizio
teleologico pensiamo concettualmente tale finalità mediante la nozione di scopo.
L’analisi del bello
Premettendo che il “bello” è ciò che piace nel giudizio di gusto, Kant si propone di chiarire la
natura specifica del giudizio estetico.
Kant offre ben quattro definizioni di bellezza, secondo le categorie:
1. Secondo la categoria della qualità, il bello è l’oggetto di un piacere “senza alcun
interesse”. Infatti i giudizi estetici sono caratterizzati dall’essere contemplativi e
disinteressati, in quanto si curano solo dell’immagine o rappresentazione degli oggetti.
2. Per la categoria della quantità il bello è “ciò che piace universalmente”.
Il giudizio estetico si presenta con una pretesa di universalità senza sottomettersi ad
alcuna conoscenza o concetto.
Il giudizio di gusto si presenta, dunque, come qualcosa di sentimentale o di extralogico.