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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2008

Titolo: Tesina multidisciplinare

Autore: Sabrina Turdo

Descrizione: tesina multidisciplinare sulle materie dell'itc corso programmatori

Materie trattate: italiano,storia,diritto,sc.delle finanze, ec.aziendale, matematica, informatica, inglese

Area: umanistica

Sommario: PRIMO LEVI Vita e opere Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una famiglia ebrea piemontese di solide tradizioni intellettuali. Laureato in chimica e chimico di professione, diventa scrittore in seguito alla traumatica esperienza della deportazione ad Auschwitz. E' questo l'evento centrale della sua vita, che fa scattare in lui la molla della scrittura, sentita come un'impellente necessità  di confessione, di analisi e come un ineludibile dovere morale e civile. Il ricordo mai estinto di Auschwitz è anche probabilmente alla base dell'inatteso ed enigmatico suicidio con il quale lo scrittore pone termine alla sua esistenza, nel 1987. Fino al 1938 Primo Levi è un normale studente di agiata famiglia con la passione della chimica, dalla quale spera di ricavare "la chiave dell'universo…il perché delle cose"; le leggi razziali rappresentano per lui una svolta che gli apre gli occhi sulla natura del fascismo e lo orienta verso l'azione politica. Alla fine del 1942 entra nel Partito d'Azione clandestino e dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 si unisce a un gruppo partigiano di "Giustizia e libertà " operante nella Valle d'Aosta. Catturato dalla milizia fascista il 13 dicembre 1943, viene internato nel campo di concentramento di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz (febbraio 1944). Nel Lager, dove rimane circa un anno, Primo Levi riesce a sopravvivere grazie a circostanze fortunate, sulle quali torna per tutta la vita a mettere l'accento: "Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per avere incontrato un muratore che mi dava da mangiare, per avere superato le difficoltà  del linguaggio…; mi sono ammalato una volta sola, alla fine, e anche questa è stata una fortuna, perchè ho evitato l'evacuazione dal lager: gli altri, i sani, sono morti tutti, perchè sono stati deportati verso Buchenwald e Mauthausen, in pieno inverno". Il Lager incide profondamente sulle sue convinzioni: gli dà  la coscienza di essere diverso in quanto ebreo e lo spinge verso lo scetticismo religioso. "Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata imposta." "L'esperienza di Auschwitz è stata per me tale da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa….C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio". A testimonianza di questa tragica esperienza, Primo Levi scrive di getto nel 1946 e pubblica nel 1947 Se questo è un uomo, il libro che solo dieci anni più tardi sarà  riconosciuto come il capolavoro della letteratura concentrazionaria, sul quale la nostra classe ha svolto uno studio approfondito. Dal momento in cui le truppe russe entrano nel Lager di Auschwitz, abbandonato dai tedeschi in ritirata, prende avvio La tregua, il secondo libro di memoria di Levi, pubblicato nel 1963 e considerato da alcuni la sua opera più

Estratto del documento

Il primo capitolo narra l'antefatto dell'arresto e il periodo trascorso tra il gennaio e il febbraio nel campo di

Fossoli, da cui parte il convoglio dei seicentocinquanta ebrei italiani diretti ad Auschwitz. All'arrivo avviene la

selezione dei deportati destinati al lavoro, fra cui Levi. Un “Caronte” chiede loro se hanno denaro o orologi. Già

in questo capitolo, “Il viaggio”, Levi propone un' attenta analisi psicologica dei personaggi, che rivela la

condizione di estremo disagio del Lager. In essa il motivo dominante è quello dell'infelicità, unita allo spirito di

rassegnazione: “... Tutti scoprono, più o meno tardi nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma

pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche un'infelicità perfetta. I momenti che

si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra

condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del

futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell'altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza

della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali,

che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che

ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza. Sono stati proprio i disagi, le

percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il

viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, nè una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di

questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità.”

SECONDO CAPITOLO

Nel secondo capitolo, “Sul fondo”, viene descritto l'arrivo al campo vero e proprio; qui un deportato, Flesch, fa

da interprete tra le SS e i deportati italiani, che vengono, poi, denudati e indirizzati verso le docce. In questo

clima di ordine apparente, giunge un medico ungherese, un criminale, che parla un italiano stentato e spiega loro

il meccanismo incomprensibile di funzionamento del campo. Poi segue la doccia calda e con essa anche l'identità

personale scompare: “... Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le

sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a

sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di

perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni

senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il

duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con

questa frase: giacere sul fondo”. Adesso i deportati sono degli “Haftlinge”, prigionieri; a Levi è stato assegnato

il numero 174 517, tatuato sul braccio. Ai deportati viene spiegata la topografia del Lager, la disposizione, la

numerazione dei “block” e la distribuzione della popolazione dei deportati. La narrazione si sofferma con

straordinaria puntualità, quasi con occhio scientifico, sull'abbigliamento e sui riti del campo, tra cui quello delle

scarpe, indumento decisivo, per la sopravvivenza, in quell'ambiente malsano del campo. E con altrettanta

precisione Levi spiega anche la gerarchia, indica i nomi e le funzioni dei “kommandos”. Il capitolo si conclude con

due brevi brani: uno sull'impossibilità di pensare altra realtà al di là del campo, e l'altro rappresenta la chiusa,

dedicata al sonno e al sogno, all'assottigliarsi progressivo del numero degli italiani ancora vivi: “... Avevamo

deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era

troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare

quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.”

TERZO CAPITOLO

Il terzo capitolo, “Iniziazione”, contiene una riflessione sulla babele linguistica e presenta la figura di Steinlauf,

il cinquantenne sergente della Prima guerra mondiale, e la sua tecnica di sopravvivenza attraverso l'igiene

costante: “... Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente

Steinlauf dell'esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra 15-18. Me ne duole, perché dovrò tradurre

il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne

era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie,

noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler

sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare

almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni

offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore

perché è l'ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza

sapone, nell'acqua sporca, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo

camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi,

per non cominciare a morire.”

QUARTO CAPITOLO

“Ka-be” è un capitolo dedicato alla descrizione dell'infermeria del Lager dove Levi si reca dopo un incidente sul

lavoro. Il ferimento del piede dà a Levi l'occasione per raccontare come funziona il “Krankenbau”, l'infermeria,

narrando nel contempo la propria iniziazione al luogo. Il Ka-be è un limbo nell'Inferno di Monowitz: “... Ka-be è

abbreviazione di Krankebau, l'infermeria. Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del campo, ma separate

da un reticolato. Contengono permanentemente un decimo della popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano

più di due settimane e nessuno più di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha la

tendenza alla guarigione, in ka-be viene curato; chi ha la tendenza ad aggravarsi, dal ka-be viene mandato alle

camere a gas”. In questo ambiente desolato il “dolore della casa”, che la condizione di iniziazione del Ka-be

suscita e acuisce nell'animo dei deportati, consente all'autore di meditare e di riflettere sulla sua esperienza

nel Lager: “... Il ka-be è il Lager a meno del disagio fisico. Perciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende

coscienza; perciò, nelle lunghissime giornate vuote, vi si parla di altro che di fame e di lavoro, e ci accade di

considerare che cosa ci hanno fatto diventare, quanto ci è stato tolto, che cosa è questa vita. In questo ka-be,

parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la

nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci “ricordati che devi morire”, meglio avrebbero fatto a ricordarci

questo maggior pericolo che ci minaccia. Se dall'interno del Lager un messaggio avrebbe potuto trapelare agli

uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui.”

QUINTO CAPITOLO

“Le nostre notti” è dedicato alle notti invernali; tutto il capitolo è come il racconto di una sola lunga notte, la

“notte esemplare” trascorsa nel campo, cui succede il “Wstawàc” del risveglio. Levi sottolinea, inoltre, l'

importanza di condividere con un amico, in una situazione di analogo disagio, anche l'angusto spazio di una

cuccetta: “... Non sono riuscito a ottenere di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito,

quantunque nel Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. E' peccato, perché avere un compagno di letto di

cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno, e le

notti sono lunghe, e dal momento che siamo costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la

stessa coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico.”

SESTO CAPITOLO

L’autore descrive una giornata-tipo del suo lavoro: trasportare, insieme ad un altro compagno, con molta fatica e

difficoltà, delle traversine.

SETTIMO CAPITOLO

“Una buona giornata” è insieme una riflessione sulla natura umana e la narrazione del “successo” di Templer, un

uomo del kommando, che riesce a procurare per sè e per i compagni una marmitta di cinquanta litri di zuppa. Le

giornate nel campo si susseguivano non tanto con un obiettivo “ideale”, ma piuttosto con l'esigenza, tutta

contingente, di sopravvivere e di giungere a primavera: “ La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in

ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi e sulla

sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice.

Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro ora non ci curiamo. Fra due mesi, fra un mese, il

freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.”

OTTAVO CAPITOLO

“Al di qua del bene e del male” illustra le diverse attività illegali del campo, il furto e le altre strategie per

accaparrarsi cibo e posate. I prigionieri del campo di sterminio, spesso, giungono a vendere indumenti personali e

indispensabili pur di sedare il proprio violento e contingente impulso alla fame. Le SS, inoltre, inducono gli

Haftlinge a compiere furti e altri atti illegali, con il preciso intento di annientarli nella loro dimensione di uomini,

di ridurli a un primitivo stato di “bestializzazione”, in cui valga la “legge del più forte”: “Il furto in Buna, punito

dalla Direzione civile, è autorizzato e incoraggiato dalle SS; il furto in campo, represso severamente dalle SS, è

considerato dai civili una normale operazione di scambio; il furto fra Haftlinge viene generalmente punito, ma la

punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato. Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere che cosa

potessero significare in Lager le nostre parole “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”; giudichi ognuno, in base al

quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse

sussistere al di qua del filo spinato.”

NONO CAPITOLO

“I sommersi e i salvati” è il capitolo centrale, nel quale il Lager è presentato come “una gigantesca esperienza

biologica e sociale”. Due sono le categorie di uomini: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari, come, ad

esempio, i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati, sono assai meno nette,

sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse: “... Nella

storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a

quello sarà tolto”. Nel Lager, dove l'uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la

legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti.”

DECIMO CAPITOLO

“Esame di chimica” ci riporta invece alla storia di Levi e alla vicenda che avrà un ruolo decisivo nella sua salvezza,

quella dell'esame per entrare a far parte del kommando chimico. Proprio in questo momento, di estrema

precarietà, Levi deve far ricorso alla sua specializzazione: “...Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum

laude, -e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso,

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