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il male se messa in pratica. La conoscenza e l’osservanza delle leggi del
Signore conducono automaticamente ad un agire corretto dal punto di vista
morale.
In effetti questa dottrina rispecchia notevolmente L'INTELLETTUALISMO ETICO di
Socrate. Il filosofo ateniese, a difesa davanti al tribunale che lo condannerà a
morte, replicava in questo modo:
«E dunque, davanti ai mali che so essere mali, non accadrà
che io tema e fugga quelli che io non so se per avventura
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non siano beni».
Secondo Socrate una volta conosciuto ciò che è bene è impossibile non agire
moralmente bene. Si è spinti naturalmente alla rettitudine, e il filosofo più di
altri, si interroga su ciò che è bene da cui poi fa derivare la sua azione
morale esemplare. C'è una proporzionalità quindi tra intelligenza e rettitudine.
Parimenti nella religione ebraica Dio ci indica ciò che è bene e l’osservanza
delle sue leggi, la cieca obbedienza al suo volere, conducono naturalmente ad
un'azione morale corretta, sintomo di saggezza quindi di intelligenza.
In Palestina come ad Atene, l’intelligenza sta nella rettitudine, tanto che i
due concetti si eguagliano.
ULISSE
E' ben noto il brano in cui Ulisse, intrappolato nella grotta del Ciclope, tenta
il tutto e per tutto per salvare i suoi compagni condannati ogni giorno a morire
tra atroci sofferenze, sbranati dal mostro antropofago. Astutamente l’eroe
dichiara di chiamarsi Nessuno, e fatto ubriacare il mostro, lo acceca privandolo
del suo unico occhio. Non potendole più portare al pascolo, il Ciclope le fa
uscire le sue pecore socchiudendo appena l’uscio della dimora, tastandole una
per una. Così evita anche che il re di Itaca fugga via. Ma Ulisse, uomo dal
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«multiforme ingegno» , lega i suoi compagni ognuno sotto la pancia di tre pecore
e lui per ultimo si aggrappa al ventre di un montone. In questo modo riesce a
sgattaiolare dalla tana del ciclope, e grazie alla sua astuzia, a salvare la
sua pelle e quella della sua ciurma.
Questo è uno degli episodi simbolo dell'arguzia e della genialità di Ulisse,
episodi che ci hanno permesso di consacrare l’eroe omerico quasi come «l’astuto»
per antonomasia. Queste sue capacità geniali si possono ritrovare tali e quali
nei brani che riportano la fantastica strategia del cavallo di legno, ciò che
permise la definitiva sconfitta di Troia. E’ particolare in effetti come la
genialità di Ulisse il più delle volte stia proprio nel travestimento.
Ciclope: «[…]Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell’occhio spegnerìami Ulisse.
Se non ch’io sempre uom gigantesco e bello
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m’aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto 11
Greco e imbelle, che col vin mi vinse»
[traduzione di Ippolito Pindemonte LIBRO IX-656-664]
Dalla descrizione da parte del Ciclope emerge un eroe totalmente antitetico
rispetto a quello dell'Iliade: un Ulisse «piccolo e senza forza», però astuto.
Ed è proprio grazie alla sua astuzia e, come diremo oggi, grazie alla sua
capacità di essere smart, che riesce a cavarsi dall'impaccio di queste e di
molte altre situazioni.
Ma in realtà, come fa notare Diego Lanza, questi due episodi sono unici nel loro
genere e se ci si sofferma un po’, si scopre un Ulisse del tutto nuovo, un «Uom»
il cui «Multiforme ingegno» non era poi così tanto multiforme. Infatti:
9 Platone, Apologia di Socrate, Traduzione di Manara Valgimigli, LATERZA 1996, XXVII
10 Omero, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte, 1805 - LIBRO I , v.1
11 Ibidem, Libro IX, v.v. 656-664
- quando i compagni vengono trasformati in maiali e lui no, segue il
consiglio di Hermes
- nell’episodio delle sirene, nel quale si fa legare all’albero maestro e
ascolta il canto di quest’ultime, segue il consiglio datogli da Circe
Entrambi i casi sono universalmente noti. In essi Ulisse si affida completamente
ai consigli degli dei o comunque a chi sta più in alto a livello spirituale
rispetto a lui (soprattutto Circe). Solo in questo modo riesce a salvarsi da una
fine atroce. Per una maggiore comprensione del concetto, si prenda in esame
l’episodio dell’Isola del Sole:
Ulisse e il suo equipaggio si trovano in mare. L’equipaggio è stanco, ma
Ulisse, obbedendo al consiglio di Circe, cerca di dissuadere i compagni
dallo scendere a terra. I suoi uomini però non ne possono più e il re di
Itaca concede una breve discesa a terra a patto che la ciurma mai e poi
mai avrebbe toccato gli animali presenti nell’isola. Per un po’ tutto fila
liscio, ma un giorno mentre Ulisse si ritira per pregare, gli dei lo fanno
addormentare e una volta sveglio, sul sentiero di ritorno, sente un
profumino niente male proveniente all’accampamento. L’equipaggio stava
arrostendo e mangiando le bestie dell’isola contravvenendo all’ordine del
capitano. Ripreso il mare, una tempesta affonda la nave e fa scempio
dell’equipaggio. Ulisse miracolosamente si salva naufragando sull’isola di
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Calipso.
A salvare Ulisse non è stata la sua astuzia, ma bensì la sua cieca obbedienza a
consigli trascendenti. Quindi un’«Intelligenza come inganno e stratagemma» da un
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lato, e «intelligenza come esecuzione di insegnamenti divini» dall’altro. La
vera astuzia di Ulisse in realtà altro non è che l’osservanza scrupolosa della
volontà degli dèi. Il suo essere smart, sta nell’obbedienza agli ordini
provenienti dall’alto. Ed è solo grazie a quest’ atteggiamento che riesce a
cavarsela da situazioni in cui sicuramente avrebbe perso la vita.
Analogamente alla concezione biblica e socratica anche per il mondo aedico
Intelligenza voleva significare osservanza e rettitudine, una cosa piuttosto
comprensibile se si pensa ai poemi come uno dei pochi strumenti di allora per la
diffusione dei valori sociali.
Al contrario, i marinai hanno avuto poco senno e questo loro stesso
atteggiamento li ha condotti alla rovina, perché non sono riusciti ad adeguarsi
alla volontà divina. Così allo stesso modo, durante l’episodio del banchetto dei
Proci, questi ultimi vengono colpiti da risate folli perché non hanno saputo
avere rispetto dei beni della casa del re, benché questi fosse disperso, e
soprattutto dell’ospitalità, valore sacro nella tradizione ellenica. Sacro
equivale a legge divina. Quindi stolti i marinai perché non ligi, folli i proci
perché irrispettosi, e nel contempo astuto Ulisse perché retto nelle sue azioni.
L’eroe quindi è Intelligente perché pio, ma anche conscio del fatto che la
massima astuzia sia saper cogliere la legge divina e saper conformare il proprio
comportamento ad essa.
INTELLIGENZA ROMANA
La concezione di intelligenza che abbiamo oggi ci viene per larga parte
direttamente dal latino, come si può notare dal termine stesso,
Intellegentia,ae. Essa a sua volta è una parola composta, formata da inter e
lego, quindi può considerarsi come la capacità di «saper discernere».
I pareri su come si possa arrivare a questa facoltà sono discordanti e dipendono
il più delle volte della dottrina filosofica abbracciata dallo scrittore, sia
esso stoico, epicureo, neoplatonico etc. Tutte queste hanno però tra di loro un
punto in comune: l’esperienza. L’esperienza, come nei casi precedenti, è
determinante per una scelta corretta, per la capacità di saper cogliere cosa è
bene e cosa è male, quindi per elevare l’intelletto. Ancora una volta abbiamo
alla base del concetto il moralismo, esattamente come per l’ebraismo e la
cultura greca. Ma come è possibile accrescere le proprie facoltà intellettive?
«Utile in primis, et multi praecipiunt, vel ex Greco in Latinum vel ex
12 Odissea, tratto liberamente dal libro XII
13 Diego Lanza, Lo Stolto, EINAUDI, pag 13
Latino vertere in Graecum. Quo genere exercitationis proprietas
splendorque verborum, copia figurarum, vis explicandi, praeterea
imitatione optimorum similia inveniendi facultas paratur […].
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Intelligentia ex hoc et iudicium acquiritur»
Come fa notare Plinio, cosa che causerà sicuramente una smorfia sul viso di
tutti gli studenti, l’intelligenza si acquisisce con la traduzione, quindi con
l’esercizio della parola. Lo studio e la cultura della retorica sono il
fondamento dei processi intellettivi, anche perché permettono di fare il massimo
dell’esperienza. La retorica infatti si coltiva principalmente con l’attività
politica, in questo modo è possibile migliorarsi di continuo se si pensa al
foro come al terreno di confronto per eccellenza. Similmente al concetto di
Platone, che poneva la dialettica come via privilegiata per risalire all’idea,
quindi il solo vero strumento di conoscenza, la parola assume un ruolo
preponderante per i romani:
«[…] istius modi autem res dicere ornate velle puerile est, plane autem
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et perspicue expedire posse docti et intellegentis viri» [Cicerone, De
finibus bonorum et malorum, liber tertius, 19]
L’intelligente a Roma è un buon oratore. D’altronde, come sottolinea Cicerone
nel De Oratore la retorica stessa consta di tre parti fondamentali che
manifestano l’ingegno di chi parla: Inventio, Dispositio ed Elocutio.
L’inventio è l’abilità caratteristica di saper trovare gli argomenti che
prescindono una conoscenza enciclopedica; la dispositio è l’arte di collocare
ciascuno degli elementi che andranno a formare il discorso, creare degli schemi;
l’elocutio interviene una volta che si sono trovati i temi, la loro disposizione
e tutto deve essere trasformato in parole. Le suddette caratteristiche sono
indicative del grado di abilità retorica e sono caratteristiche che con nomi
diversi - conoscenza, competenza logica e abilità linguistica – saranno poi le
basi delle teorie psicometriche sviluppatesi duemila anni dopo. E’ per questo
motivo che all’inizio sostenevo il fatto che la nostra concezione odierna
rispecchiasse in parte quella romana: i moderni test di intelligenza cercano di
misurare gli equivalenti di inventio, dispositio e elocutio.
CONCEZIONE CRISTIANA: DANTE E BOCCACCIO
«O insensata cura de' mortali,
Quanto son difettivi sillogismi
Quel che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura e chi ad aforismi
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
E chi regnar per forza e per sofismi,
E chi rubare, e chi civil negozio,
Chi nel diletto della carne involto 16
S'affaticava, e chi si dava all'ozio»
Con l'avvento della cristianità il concetto di intelligenza da un lato viene
completamente stravolto, dall'altro rimane essenzialmente intatto rispetto ai
precedenti. La parola intelligenza infatti viene estesa a tutti gli esseri
dotati di intelletto, non solo uomini quindi ma anche Dio, intelligenza suprema.
Qui si parla anche di razionalità, ordine, giudizio etc. ma non solo. Come si
può notare dal brano, l'intelligenza in sé non ha senso se presa singolarmente,
è necessario infatti che cammini di pari passo con la fede. La ragione non
arriva dove arriva invece la fede. Questa però non è una denigrazione della
ragione, che è necessaria comunque alla redenzione - si pensi all'allegoria del
personaggio di Virgilio - ma piuttosto una complementarietà, e intelligente è
colui che riesce a capire questo superamento.
C'è quindi una profonda critica a tutte le precedenti considerazioni:
l'intelligenza romana ossia il «civil negozio» è messo alla pari del furto
14 Plinio il Giovane, Epistolario, VII libro, 9
15 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, libro III, 19
16 Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto XI, vv. 1 -9
davanti alla Provvidenza, così come l'otium e la vita contemplativa spesa per la
ricerca della verità (si pensi a Seneca). I discorsi razionali, i ragionamenti e
tutto ciò che era manifestazione dell'ingegno non solo non è per nulla
edificante, anzi fa «in basso batter l'ali», senza che ci sia l'altra metà a
sostenerli, la Fede. Anche per questo motivo Dante colloca Ulisse nell'Inferno:
egli è colpevole per il fatto di aver voluto spingersi oltre con la sola
razionalità, senza l'ausilio della suddetta virtù teologale.
Ecco perché vi è una negazione delle teorie precedenti. Allo stesso tempo però