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Arthur Schopenhauer la sapienza
e
indiana
Un immagine decisamente rilevante dell’India, e forse
dell’oriente più in generale, la possiamo avere tramite
lo studio fatto da un importante filosofo europeo
vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo: Arthur
Schopenhauer.
Figlio di un ricco mercante, fin da giovanissimo gli fu
permesso di accompagnare il padre nei suoi viaggi
d’affari, e cosi venne in contatto con alcuni degli
ambienti più stimolanti d’Europa, sul piano umano e culturale. Queste
esperienze eccezionali, però, non lo indirizzarono, come era prevedibile, a
seguire il lavoro del padre, ma servirono solo ad aggravare la sua tendenza a
chiudersi in se stesso ed a nutrire una visione pessimistica della vita molto
simile a quella di Leopardi. A differenza di quest’ultimo, che nonostante tutto,
nutriva una certa simpatia degli altri uomini, accomunati dalla stessa cattiva
sorte, Schopenhauer nutriva un totale rifiuto della vita.
Ed è proprio grazie a questo senso di distacco dalla società che egli comincia
ad avvicinarsi alla filosofia, spinto dal bisogno di far chiarezza sul suo senso di
“insoddisfazione esistenziale”. Intraprese lo studio dei testi platonici, che in un
certo modo rispondevano alle esigenze del suo animo, in particolare nel
desiderio di evadere dal mondo dei sensi, elevandosi in quello delle idee; ma si
avvicino anche a Kant, attirato da una lucida critica al realismo, e in particolare
dall’affermazione che la mente dell’uomo avverte la necessità di raggiungere la
“cosa in se”, o Noumeno, vale a dire l’essenza profonda delle cose.
Oltre che a questi filosofi egli nutri un grande interesse verso le filosofie
orientali, attratto dalla consapevolezza che esse avevano del carattere effimero
e fragile dell’esistenza dell’individui, e cosi si dedico allo studio delle
Upanishad, antichi testi induisti, da cui rimase fortemente impressionato, tanto
che era solito rivolgere un invito a chi si voleva avvicinare alle suo opere,
ritenendo che la sua filosofia fosse comprensibile soltanto tramite riferimenti
alla spiritualità orientale:
“Legga, ora, anche i meravigliosi scritti della sapienza indiana, che le
raccomando caldamente, e così lei avrà conosciuto tutto quello che il
lettore dovrebbe sapere per capire appieno le mie opere”
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Colloquio con C. G. Beck,
(A. Schopenhauer, marzo 1857)
Le Upanishad sono scritture sacre nelle quali vengono insegnate sia la
meditazione che la filosofia e fanno parte delle scritture post-vediche.
Contengono diversi argomenti spirituali, e, dei 123 libri, solo 12 sono accettati
come più importanti.
Schopenhauer definì la lettura delle Upanishad
“conforto della mia vita” e “consolazione della mia morte”
Successivamente incomincio a mettere in discussione l’allora diffusa tesi del
“miracolo” Greco, ovvero la convinzione che la Grecia fosse la culla del
pensiero umano, tanto che addirittura derise i messaggeri della cultura
occidentale, recatisi in oriente con l’intento di insegnare e convertire, ma
surclassati dalla superiorità della spiritualità orientale, di cui scrive:
Voi andaste colà come maestri
E ne ritornaste come discepoli
Dell'ascoso senso
Là caddero per voi i veli»
(Sull'etica, Parerga e paralipomena,
in VIII, 115)
Il filosofo, infatti, andava scoprendo che l’oriente sapeva pensare e sollevare le
stesse problematiche tipiche dell’uomo dell’occidente, rispondendo a esse con
soluzioni altrettanto ingegnose, ma tuttavia derivanti da un'altra concezione
filosofica della vita.
Da questa diversa concezione filosofica Schopenhauer trasse un concetto che
diventò uno dei pilastri fondamentali della sua rielaborazione della relazione tra
fenomeno (ciò che una cosa appare) e noumeno (ciò che realmente una cosa è)
propria di Kant; ma, mentre quest’ultimo asserì che il fenomeno è l’unica realtà
raggiungibile dalla mente umana, sottolineando quindi l’irraggiungibilità
dell’”essenza vera delle cose”; secondo Schopenhauer il fenomeno è illusione,
sogno e parvenza, ed è separato dal Noumeno da quello che nella filosofia
indiana è chiamato “Velo di Maya” ossia l’illusione che racchiude la realtà delle
cose nella loro essenza autentica, di cui scrive nel suo libro “il mondo come
volontà e rappresentazione”:
“E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli
occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del
quale non può dirsi né che esista, né che non
esista; perché ella rassomiglia al sogno ,
rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia , che il
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pellegrino da lontano scambia per acqua; o che rassomiglia alla corda
gettata a terra che egli prende per un serpente.”
Si tratta di un «velo» illusorio che impedisce gli esseri di ottenere la liberazione
spirituale, tenendoli così imprigionati nel samsara, il continuo ciclo delle morti e
delle rinascite.
In seguito a queste considerazioni il filosofo capisce che il compito della
filosofia è proprio quello di “squarciare” questo velo, cosa che i saggi Indù,
consapevoli della natura umana di questo velo, avevano da tempo imparato a
fare, tramite la meditazione e quindi una volontaria immersione nel profondo di
se stessi, tramite la quale l’uomo può arrivare a percepire la volontà di vivere
tanto ricercata da Schopenhauer. Una volta che l’uomo riesce a percepire
questa volontà, li parte il suo percorso per arrivare alla negazione della stessa
(noluntas), poiché solamente cessando di volere la vita l’uomo può liberarsi dal
dolore. Il percorso per giungere alla noluntas, secondo Schopenhauer, è
scandito in tre “passi”: il primo è quello della giustizia, che gli fa riconoscere se
stesso e gli altri uomini come rappresentazione di un'unica volontà, il secondo
è quello della compassione, tramite cui l’individuo comprende il proprio dolore
come simile a quello degli altri esseri, il terzo è quello dell’ascesi, in cui l’uomo
deve abbandonare i piaceri terreni e dedicarsi alle virtù tipiche degli asceti:
umiltà, digiuno, rassegnazione e sacrificio. Anche se questa via per la
liberazione può apparire molto simile a quella derivante dalla religione
cristiana, in realtà l’ascesi di Schopenhauer è molto diversa: mentre nel
cristianesimo lo stadio finale di questo processo è l’incontro con Dio, secondo il
filosofo la liberazione finale dell’uomo non è altro che la conquista del nirvana,
elemento proprio delle filosofie induista e buddhista, ovvero l’esperienza del
nulla, della negazione del mondo.
Il filosofo, giunto a questo punto, era quindi riuscito a coniugare il sapere
filosofico occidentale con quello derivatogli dallo studio degli antichi testi sacri
indù, consapevole che non esistono un uomo occidentale e un uno orientale,
bensì esiste l'uomo in quanto tale, uguale in tutto il mondo e capace di porsi le
stesse domande indistintamente dal luogo in cui si è trovato a nascere.
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Joseph Rudyard Kipling Edward
e
Morgan Forster
Confronto d’immagine
Joseph Rudyard Kipling was born in Mumbai (India) in 1865, but
educated in England at the United Service College.
After he return to India where he work for an Anglo-
Indian newspaper. He travel across the world and he
visit so many state, like China, Japan and USA, and he
takes home in first time in England, after in USA, with
his wife. At the time of the First World War, he joined
the English army like a war correspondent. After the
years of war, with the growing popularity of the cars in
the world, he travel across the Europe and he write
some interesting article; then he became the
headmaster of the University of Toronto, and there he
remain till the years 1925. He died in January of 1936 in London, at the age of
71.
There is a heavy contrast about the images that this author gives from India.
He was born in India, and he loves the mystery of this country, his cities and
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his people, but he also supported the England’s colonial power and duty; so he
was considered as the writer of the British imperialism, a figure that exalted the
patriotic spirit apply in some way at the injustices perpetrated by the English
colonizer. His famous poem (that it is rightly considered the “manifesto of the
English imperialism”, even if Kipling wrote it after the invasion of the
Philippines by the USA) that explain this idea of Justices of Imperialism was:
The white man’s burden
“ ” and this is the first stanza, that contain the
most exemplificative concepts about imperialism:
“Take up the White Man’s Burden
Send forth the best ye breed
Go bind your sons to exile
To serve your captive’s need
To wait in heavy harness
On fluttered folk and wild
You new-caught, sullen peoples
Half devil and half child”
Kipling describes the natives population as ignorant and underdeveloped,
then, according to him, the British white man (that can also be any Europe
man, generally), have the difficult duty (burden), to civilize the population of
the colonised countries, teaching them new culture and new behaviours, that in
this case are the same of the British ones. Than, he also says, the white man
had also to be patient because it could be difficult to reach this target without
explaining in a careful way what he wants to teach.
Edward Morgan Forster was born in London
in 1879, and soon, his life was shocked by the dead
of father. He studied at king’s college of Cambridge
and he gained the degree in story and classic’s
subjects. After university, he travelled across the
world, sometimes with his mother to Greece and
Italy, and sometimes alone, to Germany, Egypt and
India; and these journeys were the source of his
whole inspiration that bring him to write some of
his best novel. An example can be “A room with a
view”, a novel about the contrast between the
respectability and the passion, that was influenced
by his travel to Italy, in particular by the
characteristic Mediterranean way of life and
thought. Foster lays a lot of interest on the theme of the personal relationships,
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as the only way to connect the people, to find harmony in the face of the
increasing disintegration of the world.
In his whole life he did so many travel in India, in one of them he had also the
privilege to be a guest of the Marajah of Dewas; and after all this travels, he
wrote his last novel:
“A passage to India” that puts the focus on the theme of Anglo-Indian
relationship.
The novel is set in the Indian town of Chandrapore, which is divided into the old
Indian quarter and a British Civil station. The City Magistrate, Ronny Heaslop, is
engaged by Miss Adela Quested, who decides to visit India with the Ronny’s
mother, Mrs Moore. One night Mrs Moore meets a Muslim doctor, Aziz, at the
Mosque. They soon became friends, and he invites Mrs Moore and Adela to visit
the Marabar Caves, which are about 20 miles from the
town. At the enter of the caves, Mrs Moore suffer a
nervous crisis, then she suggest that Aziz and Adela
should continue the exploration of the cave without her.
During the visit a not well define incident happens, and
when Adela comes out from the caves, she accuse Aziz
to raped her. This accusation against Aziz, who is very
well considered by his countrymen, creates great
antagonism between the two races, and on the English
party, only Mr Fielding, the headmaster of the local
college, an old friend of Aziz, believe in his innocence;
and Adela is surrounded by the formal concern of the
British community. At the trial she is near to a state of
nervous collapse; finally she declares that she has made a mistake. Aziz is
acquitted and released, but he lose
Hare Krishna
any kind of faith in English justice. Then, Aziz, go to live in an isolated village,
bringing up his family far away from the English influence. Here, Aziz, is visited
by his old friend Fielding and they speak about the broken of their friendship
caused by the intolerable presence of England in India.
With this novel, Forster express his clear opinion about the British dominion
over India; using the racial contrast as a pretext, he study the deep and
complex relations between the two different cultures. Forest shared the idea of