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Kierkegaard
Kierkegaard affronta il problema dell'ironia nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1841 con il titolo “Il concetto di
ironia in costante riferimento a Socrate”. Si tratta di un'opera ricca di riferimenti al dibattito letterario e filosofico,
poiché l'ironia - a partire dall'età del romanticismo - era diventata un tema particolarmente vivo.
Ironia dal punto di vista descrittivo
Kierkegaard analizza dapprima la natura descrittiva dell’ironia, indicando quali sono le differenze strutturali che ci
permettono di distinguerla da altri atteggiamenti della soggettività. Parlare significa dare al pensiero un’apparenza
sensibile, in questo modo il pensiero è l’essenza e la parola è l’apparenza. L’ironia si rivela come quella forma del
discorso la cui caratteristica è di dire l’opposto di ciò che si pensa, e la parola cessa di essere la manifestazione sensibile
del pensiero. Il fenomeno della parola non ci conduce più alla sostanza del pensiero ma ci vincola apparentemente ad un
pensiero che per noi è privo di sostanza. Il fenomeno, quindi nell’ironia, diviene un’apparenza ingannevole che allude
ad una realtà che deve essere comunque negata. L’ironia sembra così essere una particolare forma di ipocrisia ma non è
così. L’ipocrisia si riconduce all’ambito della morale, l’ipocrita si sforza di sembrare buono pur essendo cattivo, invece
l’ironia si situa in un ambito metafisico infatti per l’ironico si tratta solo di sembrare diverso da come realmente è,
nascondendo nella serietà il suo scherzo e nello scherzo la sua serietà. L’ipocrita non vuole che il suo pensiero sia colto
e lo nasconde interamente, invece chi fa dell’ironia lascia apparire nel riso la sua vera opinione. L’ipocrita, dunque, non
dice ciò che pensa perché non vuole essere giudicato e non si vuole confrontare con la realtà che lo circonda. L’ironia e
la battuta ironica, invece, permettono al soggetto di prendere le distanze da ciò che ha detto negando l’adesione del
soggetto al mondo dato, pur fingendo di confermarla, in questo modo l’io si libera da una realtà in cui non crede. Anche
il dubbio ci dispone in un atteggiamento di natura negativa rispetto alla realtà e ci libera dalle convinzioni cui eravamo
precedentemente legati. Ma nel dubbio il soggetto vuole penetrare nell'oggetto, vuole appunto conoscerlo, ma l'oggetto
gli sfugge, proprio perché il dubbio non permette mai alla soggettività di stare ben salda sulle sue acquisizioni
conoscitive. Nell'ironia invece il soggetto non vuole affatto cogliere l'oggetto, non intende penetrare nella sua intima
essenza: intende piuttosto prenderne le distanze. Chi dubita, crede di non conoscere la realtà, ma è certo che valga
egualmente la pena di comprenderla. Chi fa dell'ironia, invece, crede di conoscere la realtà, ma è certo che non valga la
pena di soffermarvisi, e attraverso il sorriso ironico fugge da un mondo che gli appare privo di valore.
Funzione dell’ironia
Ma qual è la funzione dell’ironia? È possibile cogliere la funzione dell’ironia se si concepisce non come gesto
occasionale ma come atteggiamento generale verso il mondo. L’ironia si rivolge verso tutta la realtà data, in un preciso
tempo e sotto determinati rapporti. Per il soggetto ironico la realtà data ha perso ogni valore, ma, di fronte ad una realtà
che non riconosce, il soggetto ironico non contrappone una protesta determinata ma anzi con il suo atteggiamento
ironico libera il soggetto nel presente, permettendogli di negare quell'adesione al mondo che pure a parole tributa. Il
sorriso ironico ci permette così di estraniarci dal mondo, di non riconoscergli alcun valore. Malgrado ciò, nell'ironia il
soggetto guadagna una libertà soltanto negativa poiché la realtà suscettibile di dargli contenuto è assente, e il soggetto è
libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realtà data, ma è libero in negativo e come tale fluttuante, poiché non vi
è nulla che lo tenga.
Rivalutazione dell’ironia
Dalle ultime pagine della sua tesi di laurea, Kierkegaard si allontana dal concetto di ironia come negatività infinita e
assoluta e ne suggerisce una considerazione più positiva. L’ironia può essere dominata e questo atteggiamento negativo
della soggettività può essere preso con ironia. L'ironia smette così di essere la lama tagliente che rescinde una volta per
tutte il nesso dell'io con il mondo e diviene la coscienza critica che ci impedisce di restare chiusi nei dati di fatto della
vita, cui occorre certo dare peso, ma solo alla luce della consapevolezza della loro insufficienza. L'ironia come stato
d'animo sconfina così in una superiore forma di saggezza che ci insegna a vivere nel mondo senza tuttavia rimanervi
impaniati.
Marziale
Marziale nacque a Bilbilis, a sud della Spagna, intorno al 40 d.C. e morì intorno il 104 d.C.
Proveniva da una famiglia plebea ma non priva di mezzi, infatti poco più che ventenne si trasferì a Roma per cercare
fortuna, poiché aveva una buona formazione culturale ma non un patrimonio consistente, quindi non riuscendo
nemmeno ad entrare in contatto con le famiglie più influenti non trovò nessun protettore e dovette adattarsi a svolgere la
professione del cliens. Donava ai potenti amicizia, omaggi, compagnia e ne riceveva in cambio la sportula, un dono in
denaro o in cibo.
Marziale non riuscì ad entrare nella corte imperiale fin quando nell’ 80 d.C. Tito inaugurò l’Anfiteatro Flavio facendo
organizzare giochi e spettacoli. Marziale scrisse la sua prima opera per l’occasione, il “Liber de spectaculis”, formata
da 12 libri di epigrammi, che dedicò al Principe e che gli procurò abbastanza successo e notorietà, tanto che Tito gli
concesse lo “ius trium liberorum”, il diritto, accordato solo ai padri di almeno tre figli, di godere di qualche privilegio,
l’eccezione era data dal fatto che Marziale non fosse sposato e ne avesse figli.
Successivamente Marziale compose altri epigrammi per un totale di 12 libri e 1200 epigrammi tra i quali sono comprese
delle raccolte tematiche intitolate “Xenia” e “Apophoreta” che significano rispettivamente doni per gli ospiti e piccoli
componimenti attaccati a regali durante i banchetti e venivano entrambi usati durante le feste, soprattutto durante i
Saturnali.
Tutta la raccolta di Epigrammi è caratterizzata dalla varietà dei temi e dei metri utilizzati, i libri hanno prefazioni, sia in
prosa sia in versi, nelle quali l’autore dà conto del suo stato d’animo, e dei motivi ispiratori. Marziale sente la necessità
di produrre una poesia profondamente radicata nella quotidianità e imperniata sull’essere umano, trattando quindi la
realtà. La poesia di Marziale si avvale di innumerevoli argomenti, la politica di tipo adulatorio come nel libro I egli
prega Domiziano affinché sia benigno con le sue opere, oppure all’ampollosità della poesia mitologica, oppure
descrivendo una quadretto di vita agreste.
Ma Marziale si prefigge lo scopo di procurare al lettore un piacevole intrattenimento, e non di fare una discussione sulla
morale. Egli stesso ammette di ricorrere con disinvoltura ai contenuti licenziosi e volgari escludendo ogni attacco
personale e i nomi. Marziale si esprime in modo schietto e ricorrendo a espressioni volgari secondo la tradizione che
assegnava all’epigramma grande libertà; troviamo ambiguità, giochi di parole, doppi sensi; Marziale usa una grande
varietà di metri per rendere vivaci i suoi epigrammi perché si pensa dovessero essere recitati nelle sale di declamazione.
Marziale ha l’usanza di concentrare l’elemento comico nella parte finale concludendo con una battuta inaspettata; in
essa si concentra tutto il senso del componimento. Si tratta di battute incisive, paradossali, iperboliche, con l’effetto a
sorpresa, chiamata Aprosdoketon.
Giovenale
Si chiamava Decimo Giovenale, della sua vita abbiamo poche notizie attendibili, ma probabilmente nacque ad Aquino,
in Campania, fra il 50 e il 60 d.C.,era di origini modeste e quando giunse a Roma dovette subito cercare appoggi e
protezioni e condusse la vita del cliens. Fece anche il retore e il declamatore e forse anche il maestro, ma non riuscì a
migliorare di molto le proprie condizioni. Da questo deriva il suo stato d’animo perennemente amareggiato e a volte
astioso. La satira fu il genere che si adattò meglio ad esprimere il suo stato d’animo.
Nel periodo degli imperatori della dinastia Giulio - Claudia e dei Flavi, si verificò la rinascita della satira intesa come
genere realistico spesso sarcastico, che si rivolge però alla critica dei costumi e dei vizi della società romana spesso
sfociando nel surreale.
La satira di Giovenale è rivolta contro le situazioni sociali e i fenomeni dei costumi romani, egli scrisse 16 satire divise
in 5 libri e passa in rassegna la vita nella capitale descrivendola come un ambiente caotico, corrotto, dove non c’è
nessun rispetto per la morale. I ricchi sono immorali, le donne adultere, tutti i valori sovvertiti, ma era pericoloso per lui
esporre la propria rabbia così pubblicamente, quindi Giovenale decise di prendersela solo contro i morti.
Si può notare che in Giovenale c’è un atteggiamento di rivolta contro le ingiustizie ma anche contro il sovvertimento
dell’ordine tradizionale per cui Roma è in mano a questi ricchi, in gran parte stranieri, che egli detesta, come greci o
orientali, che ostentano il loro lusso e al contempo sono avari con gli schiavi e i clientes. Il suo atteggiamento è il segno
di una profonda crisi sociale, che ormai ha intaccato i costumi dell’impero.
Nelle satire di Giovenale sembra che la società sia spaccata nettamente in due parti, da un lato le umiliazioni subite
dalla gente povera costretti a tollerare le ingiustizie dei ricchi, dall’altro lato la società di ricchi privi di umanità. Anche
nei giudizi morali usano due misure, perché per i poveri i vizi e l’adulterio sono cose turpi mentre per i ricchi sono
prove di virilità e dimostrazione di grande spirito perché sotto il manto della ricchezza tutto diventa rispettabile.
Altro tema presente è quello della metropoli, Giovenale mostra una ripugnanza per la vita cittadina, lo spettacolo di
spreco e corruzione e per le ingiustizie delle differenze sociali. La soluzione sarebbe quella di ritirarsi alla vita agreste,
in campagna, simbolo della sanità morale e della serenità, è tuttavia solamente una forma di fuga dalla realtà poiché la
situazione è senza rimedio, quindi Giovenale resta di stampo pessimista.
La sua poesia nasce da una reale indignazione e si concentra su un argomento usando immagini originali e procedendo
con un ritmo tumultuoso e incalzante, usa per esempio il procedimento delle domande retoriche non con il tono della
declamazione scolastica bensì per esprimere la sua indignatio.
Giovenale per le sue satire utilizza un linguaggio “alto”, il suo stile rivela una chiara predilezione per le immagini
iperboliche, espressioni poco frequenti, e vocaboli poco comuni, ma sa usare il linguaggio crudo, popolare e, talvolta,
osceno per suoi momenti di massima indignazione.
La famiglia di Carlo IV
La famiglia di Carlo IV è un dipinto in olio su tela di 280x336 cm realizzato, tra il 1800 e il 1801, dopo la nomina a
primo Pittore di Camera. É il più grande ritratto di gruppo di Goya, e fu commissionato dalla famiglia reale spagnola.
Tuttavia non si tratta di una celebrazione cortigiana del sovrano spagnolo: ad un’analisi più attenta ci si rende conto di
come, pur trattandosi di un ritratto ufficiale, gli elementi della famiglia reale vengano dipinti con una sferzante ironia.
Infatti, Goya dipinge minuziosamente e con ricchezza di dettagli gli abiti e i gioielli dei personaggi rappresentati, in
modo da fare risaltare l’espressione vacua dei volti di tutti i personaggi, infatti addirittura due donne, nel quadro, non
guardano neanche verso lo spettatore; inoltre, i figli di Carlo IV, al centro, hanno un’espressione che ha ben poco della