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Sintesi
Estratto del documento

nel movimento spartachista, trasformatosi poi nel partito comunista tedesco. Il

culmine dello scontro tra la socialdemocrazia e la sinistra comunista fu raggiunto nel

gennaio del 1919, quando una grande manifestazione operaia a Berlino si trasformò in

un tentativo rivoluzionario che fu stroncato nel sangue dal governo socialdemocratico.

Al tempo stesso, si riorganizzarono nel Paese i gruppi più conservatori, legati alle alte

gerarchie dell’esercito, e forze paramilitari di destra, i cosiddetti corpi franchi, che si

resero responsabili di assassini nei confronti di militanti della sinistra ma anche di

esponenti della classe politica di governo accusati di avere accettato le durissime

condizioni di pace di Versailles. La crisi della Germania ebbe il suo apice l’11 gennaio

1923 quando la Francia invase la Ruhr, come indennizzo per il mancato pagamento dei

debiti di guerra, impossessandosi delle miniere di carbone. In conseguenza della

tensione internazionale e della crisi economica, il valore del marco precipitò. In questo

frangente gruppi reazionari e militaristi erano pronti alla prova di forza. Nel 1923 a

Monaco il Partito nazionalsocialista, capeggiato da Adolf Hitler, tentò un colpo di stato

per fare cadere il governo socialdemocratico. Il putsch fallì e Hitler fu arrestato, ma

l’episodio si manifestò come chiaro sintomo di una situazione politica ormai

deteriorata. Anche in Austria e Ungheria la transizione postbellica fu molto complessa.

In Austria, come in Germania, la fase di avvio dell’esperienza repubblicana fu diretta

dalla socialdemocrazia, che non riuscì, però, a estendere il proprio consenso alle

campagne, egemonizzate dalle forze moderate cattoliche. In un paese diviso in due,

dove alla “Vienna rossa” si contrapponevano le “campagne bianche”, la

stabilizzazione democratica si rivelò nel giro di pochi anni estremamente precaria. In

Ungheria gli eventi presero una piega più drammatica, che era stata costituita

immediatamente dopo la guerra, si trasformò in repubblica sovietica sotto la guida di

Bela Kun. Del tutto isolata sul piano internazionale (perché né in Germania, né in

Austria si era realizzata la “rivoluzione europea” prevista dai comunisti) la giovane

repubblica fu stroncata, dopo pochi mesi dalle truppe dell’ammiraglio Miklòs Horthy,

che instaurò nel paese un duro regime autoritario. I costi umani ed economici della

guerra furono per l’Italia molto alti: 680.000 caduti e 450.000 invalidi a fronte degli

esigui vantaggi territoriali ottenuti. La situazione economica era grave: il debito

pubblico era cresciuto tra il 1914 e il 1919 di quattro volte, la svalutazione della lira

giunse fino al 40%, il costo della vita crebbe di tre volte nello stesso periodo. Tutto ciò

mentre l’apparato industriale, che aveva conosciuto negli anni della guerra un forte

sviluppo, pativa le difficoltà della riconversione dalla produzione bellica a quella di

pace e la disoccupazione cresceva. I più colpiti dalla crisi economica furono i ceti più

deboli. Si aprì perciò una fase di acute lotte sociali che videro come protagonisti, tra il

1919 ed il 1920, contadini e operai organizzati dai sindacati di ispirazione socialista e

cattolica. Le lotte sindacali di questi anni ottennero risultati importanti, come per

esempio una parziale redistribuzione delle terre incolte, il miglioramento dei patti

agrari, la giornata lavorativa di otto ore per gli operai delle grandi industrie. Anche i

ceti medi impiegatizi e la piccola borghesia furono pesantemente segnati dalla crisi:

l’inflazione erodeva il loro potere d’acquisto; l’avanzata dei nuovi partiti di massa,

socialisti e popolari, metteva in pericolo la loro posizione sociale; le difficoltà del

reinserimento nella vita civile venivano acuite dalla sensazione di non aver ottenuto

un riconoscimento adeguato allo sforzo bellico sostenuto. L’insieme di questi fattori

portò i ceti medi ad avvicinarsi alle parole d’ordine del nazionalismo, alla sua polemica

antisocialista, antiparlamentare e antidemocratica, ad iniziative aggressive e

avventurose come l’occupazione di Fiume. L’impresa di Fiume mise a nudo la

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debolezza delle istituzioni liberali, che non sembravano più in grado di governare la

situazione politica. Nelle elezioni del novembre del 1919, furono il partito popolare,

fondato da Luigi Sturzo, e quello socialista, forti dei risultati delle lotte contadine e

operaie di quegli anni, a ottenere una significativa affermazione elettorale. Il Partito

liberale, nonostante la nuova discesa in campo di Giolitti, ottenne solamente 251

seggi contro i 257 che si ottenevano sommando i voti dei socialisti e dei popolari. Nel

corso del 1920 l’aggravarsi della crisi economica portò l’occupazione delle fabbriche, il

momento culminante e conclusivo del ciclo di lotte (“biennio rosso”) che aveva

caratterizzato l’immediato dopoguerra. Il governo Giolitti riuscì a risolvere la nuova

crisi attraverso concessioni salariali e normative e ad evitare così un possibile sbocco

rivoluzionario ma lo stallo politico della classe dirigente liberale permaneva. Anche nel

partito socialista italiano, dopo l’episodio dell’occupazione delle fabbriche, si aprì una

grave crisi: essa portò a due scissioni, quella che diede vita al Partito comunista

italiano nel gennaio 1921 e quella operata nel 1922 dalla corrente riformista, con la

nascita del Partito socialista unitario di Giacomo Matteotti. Fu in questo clima che tra i

liberali guadagnò terreno l’ipotesi di una alleanza elettorale che comprendesse i

nazionalisti ed il movimento fascista. I Fasci italiani di combattimento erano stati

fondati nel marzo 1919 dall’ex socialista massimalista Benito Mussolini. Il movimento

fascista occupò per alcuni mesi posizione marginale nella vita politica italiana, ma a

partire dall’autunno del 1920 assunse un carattere più aggressivo: incominciarono,

infatti, le spedizioni delle squadre di azione fasciste contro le sedi dei sindacati e del

movimento socialista. Inizialmente, il fascismo trovò appoggi soprattutto tra i

proprietari terrieri, gli agrari, che utilizzarono le “camicie nere” per reprimere il

movimento contadino: si trattò di una reazione violenta, innescata dalle conquiste

sociali ottenute da braccianti e mezzadri e dal successo del Psi nelle elezioni

amministrative dell’autunno del 1920, che lo avevano portato a controllare molte

amministrazioni locali. Le squadre fasciste intensificarono la loro attività nel corso del

1921, anche grazie alla tolleranza mostrata nei loro confronti dalle forze dell’ordine.

Militanti sindacali e politici della sinistra, case del popolo, circoli, cooperative e

tipografie erano i loro principali obiettivi. Progressivamente anche la borghesia

imprenditoriale e i ceti medi si convinsero che solo un regime “forte”avrebbe potuto

riportare l’ordine sociale. Dal 1921 la situazione italiana precipitò verso una soluzione

autoritaria della crisi politica, perché la classe dirigente del paese si andò orientando

verso l’ipotesi di utilizzare i fascisti per riacquistare il controllo sociale e politico.

Nell’ottobre 1922 Mussolini, organizzò la marcia su Roma, convinto che la situazione

fosse matura per la presa del potere. Di fronte a questa iniziativa insurrezionale, le

strutture dello stato liberale opposero scarsa resistenza e il re affidò a Mussolini, il

responsabile del colpo di stato, il compito di formare il nuovo governo. Nel giro di

pochi anni, tra il 1922 e il 1925 si attuò la transizione verso il regime fascista. Il

processo di fascistizzazione dello stato e l’eliminazione delle istituzioni democratiche

fu condotto da Mussolini, che guidava un governo di coalizione che comprendeva molti

elementi non fascisti, attraverso un drastico ridimensionamento del parlamento e un

rapido accentramento delle leve di comando nella figura del capo del governo.

Superata la crisi generata dall’assassinio di Giacomo Matteotti, fra il 1925 e il 1926

Mussolini consolidò la sua dittatura e venne delineando le strutture del regime.

Vennero promulgate le cosiddette leggi fascistissime, ispirate dal giurista Alfredo

Rocco, che furono presentate come provvedimenti per dare forza all’esecutivo contro

le degenerazioni del parlamentarismo. Vennero dichiarati illegali i partiti antifascisti e

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instaurato il tribunale speciale per la difesa dello stato (novembre 1926), uno

strumento giuridico specificamente costruito per perseguire l’opposizione. Venne,

inoltre, smantellato il sistema della libera rappresentanza degli interessi attraverso lo

scioglimento dei sindacati e il divieto del diritto di sciopero. In campo economico, dopo

una fase iniziale di impronta liberista, per far fronte alla ripresa dell’inflazione,

l’operazione “quota 90” (1926) inaugurò un nuovo corso, teso ad affermare l’autorità

del regime sulla vita produttiva.

La grande depressione e il New Deal

La fase di crescita economica degli anni venti si interruppe bruscamente nel 1929 e

una crisi gravissima si abbatté sui paesi industrializzati: tutti i principali indicatori

economici (produzione, prezzi, investimenti, occupazione) continuarono a cadere fino

al 1932. L’innesco della grande depressione fu, provocato dal crollo improvviso della

Borsa di New York il 24 ottobre 1929. Perché questa crisi? La discussione tra gli

economisti è ancora aperta, tuttavia si può affermare che si sia trattato di una crisi di

sovrapproduzione amplificata dalla speculazione sui titoli azionari. Nei dieci anni

precedenti, infatti, la crescita della produzione era stata superiore a quella dei salari

(30 per cento); il potere d’acquisto della popolazione era dunque aumentato meno del

valore della produzione. Ciò provocò, alla lunga, un indebolimento della domanda: il

mercato era ormai saturo. Alla sovrapproduzione si sommarono la crisi agricola,

causata dalla rinnovata competitività dell’agricoltura europea, e gli effetti della

speculazione finanziaria. Per porre rimedio alla crisi si rivelò vincente la politica

economica proposta dal candidato democratico alla presidenza nelle elezioni del 1932,

Franklin Delano Roosevelt: il New Deal. Essa si fondava su due principi: il rilancio della

domanda interna e un forte intervento economico dello stato, finalizzato a

regolamentare il mercato. Lo stato sostenne la domanda interna intervenendo

massicciamente nel sistema economico: i salari furono aumentati, vennero favoriti i

consumi e fu lanciato un grande programma di opere pubbliche per lenire la piaga

della disoccupazione; inoltre, furono introdotte misure severe contro la speculazione.

Tra il 1929 e il 1932, dagli Stati Uniti la crisi colpì, a macchia d’olio, tutti i paesi del

mondo e dilagò in Europa, assestando un colpo terribile a economie che erano appena

riemerse dalla crisi postbellica e che spesso si basavano sugli aiuti americani per

finanziare gli investimenti. Il New Deal fu, però, un fenomeno solo americano; in molti

stati d’Europa fu invece il totalitarismo a fornire la risposta alla crisi.

L’Europa dei totalitarismi: il caso tedesco

La situazione politica ed economica della Germania si era stabilizzata a partire dalla

seconda metà degli anni venti, soprattutto grazie all’aiuto americano. Il crollo di Wall

Street e il conseguente affievolirsi degli aiuti statunitensi ebbe effetti molto gravi: nel

giro di pochi anni la produzione industriale si dimezzò e i disoccupati raggiunsero nel

1932 i sei milioni. Ripresero a quel punto, con grande intensità, i conflitti sociali,

perché una nuova ondata inflazionistica fece decrescere il potere d’acquisto dei salari:

in questa situazione che si colloca l’ascesa al potere di Hitler. Dopo il fallito colpo di

stato del 1923, Hitler aveva dedicato gli anni venti a consolidare la sua ancora piccola

organizzazione e a mettere a punto le teorie autoritarie e razziste (il Mein Kampf è del

1925) che avrebbero costituito la base ideologica del nazismo. Il movimento politico

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