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IL XX SECOLO: LA DONNA E LA LOTTA PER I DIRITTI
Con l'inizio del nuovo secolo la borghesia accrebbe il suo potere industriale e finanziario a
partire dalla seconda rivoluzione industriale. Si ricorre ad una razionalizzazione e
meccanizzazione del lavoro, che toglie spazio alle maestranze più qualificate e facilita
l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro operaio.
Il primo fenomeno d'inserimento in massa delle donne nel lavoro si ebbe durante la prima
guerra mondiale tra il 1914 e il 1918. I primi mesi del conflitto furono segnati dalla chiusura di
molte fabbriche e officine per l'abbandono dei posti di lavoro da parte degli uomini mobilitati al
fronte. Col protrarsi della guerra, i governi fecero appello alle donne perché occupassero quei
posti che erano stati prima degli uomini. Il fatto accelerò l'integrazione femminile nella
produzione agricola e industriale. Tuttavia alla fine della guerra, i governi fecero pressione sulle
donne affinché lasciassero le attività e tornassero alle loro mansioni naturali, la cura della
famiglia e del focolare. Molte accolsero l'invito, liete di liberarsi di una duplice fatica, prima in
fabbrica e poi a casa; altre, però, lottarono per conservare le posizioni conquistate. Il numero
delle donne iscritte ai sindacati aumentò in modo considerevole, così come la loro
partecipazione alle riunioni e ai congressi operai.
Vennero, inoltre, costituite nuove associazioni sindacali specificamente femminili, poiché in
determinati settori i lavoratori persistevano nell'osteggiare l'inserimento delle donne.
Il dopoguerra vide il riaffermarsi di ideologie maschiliste, militariste, intolleranti e violente.
Basti pensare all'esaltazione del futurismo della guerra, dello schiaffo e del pugno, e il suo
dichiarato odio per il femminismo.
Anche il fascismo sostenne una legislazione che asserviva le donne agli uomini e che ne
limitava l'ingresso nel mondo del lavoro, e promosse un ampio numero di organizzazioni
femminili fasciste, che avevano come obiettivo quello del controllo sulla popolazione piuttosto
che far partecipare le donne alla vita pubblica.
In occasione della seconda guerra mondiale, i paesi europei fecero nuovamente ricorso alla
manodopera femminile: milioni di donne furono reclutate nell'industria, nei servizi ausiliari,
nella difesa civile. La struttura interna del lavoro femminile conobbe grossi cambiamenti grazie
al diffondersi di una nuova concezione del lavoro stesso, visto ora come realtà necessaria che
dava dignità alla donna. Diminuì così sensibilmente il numero di donne impegnate nel servizio
domestico e come nutrici e molte domestiche si avviarono al lavoro in fabbrica. La seconda
guerra mondiale vide una ridefinizione della divisione dei lavori tra uomini e donne. Le donne si
orientarono verso quei settori riconosciuti socialmente compatibili con la loro condizione e che
riproducevano le caratteristiche del lavoro domestico: tessile, confezioni, alimentari,
insegnamento e così via.
Tutto questo apportò notevoli cambiamenti nella vita familiare.
La famiglia moderna aveva alla base della sua organizzazione il lavoro casalingo della donna,
non retribuito, inteso come occupazione naturale femminile. Inoltre col venir meno del servizio
domestico e delle nutrici si consolidò la figura della sposa madre idealizzata dai moralisti
borghesi. La crescita e la cura della prole era una delle responsabilità di esclusiva competenza
delle donne che dovevano, inoltre, dedicarsi al marito.
È nella metà del XIX secolo che ebbero inizio le prime battaglie per i diritti della donna. I
movimenti femminili avevano come principale obiettivo la rivendicazione dell'uguaglianza delle
donne di fronte alla legge e la possibilità di accedere al voto.
Nel 1848 si tenne, a New York, la prima convenzione sui diritti della donna, che chiedeva parità
di trattamento in diversi campi: matrimonio, lavoro salariato, proprietà e custodia dei figli.
Questi obiettivi non furono raggiunti che molti anni più tardi.
Quanto ai diritti politici, lo stato dello Wyoming fu il primo a concedere il voto alle donne nel
1869 che, nel 1920, verrà esteso a tutte le donne statunitensi.
In Europa la lotta per perseguire questi diritti cominciò solo nei primi anni del XX secolo.
Tuttavia vi erano stati alcuni precedenti da parte di alcune personalità come il filosofo e politico
John Stuart Mill, che perse il suo seggio parlamentare nel 1868, per aver sostenuto il suffragio
femminile, e che pubblicò un anno più tardi il saggio " La schiavitù della donna" che costituirà
la base teorica del movimento suffragista. Questo si sviluppa in Inghilterra a partire dal 1903,
quando Emmeline Pankhurst creò "L'unione sociale e politica delle donne" (WSPU),
un'organizzazione specifica femminile interna al partito laburista, finalizzata alla conquista del
diritto di voto. Il movimento fece ricorso sia a mezzi pacifici e politici, sia alla lotta violenta,
arrivando persino allo scontro fisico con le forze dell'ordine.
In occasione della prima guerra mondiale, il movimento suffragista si scisse in due correnti:
riformista e socialista.
La battaglia delle suffragette continuò anche dopo la guerra e nel 1928 l'Inghilterra concesse il
diritto di voto a tutte le donne maggiorenni.
In altri paesi il voto fu concesso anteriormente: in Finlandia (1906), in Danimarca (1915), in
Olanda (1917), in Germania (1918), in Spagna (1931) e in Francia (1945).
In Italia le lotte per l'emancipazione femminile furono guidate dalla socialista Anna Maria
Mazzoni e Anna Kuliscioff.
Nel 1919, le donne italiane ottennero l'emancipazione giuridica e nel 1923 il diritto di voto alle
amministrative, che non fu tuttavia applicato a causa della riforma fascista degli enti. Solo nel
1946, con la fine del fascismo, tale diritto fu finalmente applicato.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando pareva che il femminismo fosse oramai scomparso,
si ebbe una rivitalizzazione del movimento femminista come conseguenza della crisi di valori
della società borghese.
Il risorgimento femminista fu accompagnato dalla pubblicazione di numerosi scritti teorici: " Il
secondo sesso" (1949) di Simone de Beauvoir analizzava le cause storiche che avevano reso la
donna " l'altro" rispetto al mondo maschile e rivendicava la "differenza" all'interno
dell'uguaglianza tra soggetti liberi.
Il movimento femminista raggiunse il suo culmine a metà degli anni settanta.
Una delle prime rivendicazioni femministe riguardava un'istruzione migliore per le donne: le
femministe chiedevano l'apertura delle scuole superiori, università e delle professioni alle
donne.
Inoltre, sul piano giuridico contestavano il diritto del marito di prendere le decisioni sulla vita
coniugale, chiedevano che la donna mantenesse la possibilità di amministrare personalmente il
proprio patrimonio; contestavano la legislazione punitiva nei confronti delle madri nubili.
Chiedevano leggi che regolamentassero la prostituzione, rivendicavano un salario uguale a
quello degli uomini.
Una delle richieste più osteggiate era quella della libertà di gestire il proprio corpo e la propria
sessualità e ciò presupponeva la possibilità dell'uso di metodi contraccettivi (tema sul quale la
morale tradizionale e la chiesa cattolica mostravano accanite resistenze).
Le lotte femministe sfidavano anche le convenzioni sui vestiti, in particolare sull'uso di busti e
vesti, e acconciature complicate e scomode; molte femministe rivendicavano anche il diritto
delle donne di praticare liberamente lo sport. Gli anni '80 sono stati caratterizzati da una
disgregazione del movimento femminista in molteplici gruppi e associazioni. Obiettivi nuovi
sono stati perseguiti come la depenalizzazione dell'aborto. Anche le istituzioni europee hanno
deciso di impegnarsi in una politica non discriminatoria nei confronti delle donne.
Il Decennio Internazionale delle Nazioni Unite per la Donna, iniziato nel 1795, e la Conferenza di
Nairobi (1785), che ne chiuse i lavori, servirono per stilare un programma di uguaglianza di
opportunità.
Nonostante l'evidente progresso in senso egualitario, nonostante il raggiungimento della quasi
totale parità giuridica, la condizione femminile è ancora ben lontana dalla piena
emancipazione.
Lo dimostrano i dati forniti recentemente dall'UNICEF sulle violenze fisiche contro le donne sia
dentro che fuori le famiglie (130 milioni di donne nei paesi sottosviluppati subiscono mutilazioni
genitali, più della metà delle violenze in famiglia sono rivolti alle donne), il fortissimo squilibrio
a svantaggio delle donne nella divisione del lavoro familiare, dell'educazione dei figli e
dell'assistenza, l'esiguo numero di donne che occupano posizioni di prestigio; le donne elette
nelle assemblee rappresentative dei vari paesi sono pochissime (secondo i dati del 1987 sono il
3% in USA e Giappone, dal 4% al 9% in Europa).
Se poi lo sguardo si sposta su paesi meno democratici e benestanti, le condizioni di
oppressione e sfruttamento delle donne appaiono sconvolgenti: basti pensare all'uso dello
stupro come arma da guerra, alle forme più diffuse e tollerate di violenza contro la donna…
PARITÀ DEI DIRITTI E DIRITTI DELLE DONNE
Nel 1945 venne riconosciuto il diritto al voto alle donne, ma non ottennero però il diritto ad
essere elette.
L’anno successivo, con un decreto, si affiancò al cosiddetto elettorato attivo, quello passivo: al
Referendum partecipò l’89% dell’elettorato femminile e all’Assemblea Costituente venne
candidato il 7% di donne e ne venne eletto circa la metà.
La strada che la donna ha percorso per raggiungere l’attuale traguardo di parità (o quasi
parità) è stata lunga e tortuosa, ma per arrivare ad una parità totale ed effettiva tra gli individui
di sesso differenti restano ancora dei passi da fare.
Infatti, non basta che la parità sia voluta dalla legge, per realizzarsi deve essere accettata e
vissuta spontaneamente da tutti.
Dal punto di vista giuridico, con l’entrata in vigore del Codice del 1° gennaio 1866, la legge
riconobbe alla donna la possibilità di venire adulta a 21 anni ed essere titolare di patria potestà
sui figli.
La donna era ancora però obbligata a seguire il marito, risultandone sottomessa.
Però nello Statuto Albertino non troviamo riferimenti alla donna.
Gli articoli 24 e 32 enunciano i diritti e i doveri dei cittadini, ma in nessuno di essi si pronuncia
la parola donna.
La Costituzione Repubblicana segue il punto di svolta.
Quando parla dei “diritti dell’uomo” (art.2), si riferisce ovviamente ai diritti dell’uomo e della
donna, ossia della persona umana. Nella lingua italiana, infatti, si usa il genere maschile,
quando si vogliono indicare, con una sola parola, persone di entrambi i sessi.
Quest’uso linguistico non è però del tutto innocente. Esso rivela un tradizionale atteggiamento
sessista, che discrimina il genere femminile e lo considera come una pura appendice del
genere maschile.
Dal 1948 la donna è un cittadino a pieno titolo, infatti, acquistò i diritti politici, cioè potette
eleggere i propri rappresentanti e, a sua volta, potette essere eletta.
La Costituzione confermò la sua posizione di uguaglianza, nell’art. 48 viene affermato che
“sono elettori i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”, invece il diritto
uguale a quello degli uomini, di occupare tutti i posti pubblici e di esercitare tutte le funzioni
pubbliche è sancito dall’art. 37.
La prima garanzia è quella dell’uguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di sesso dettata
dall’art. 3. Inoltre l’art. 29, dove si afferma che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza
morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”,
tende a vietare ogni disuguaglianza all’interno del gruppo familiare.
In contrasto con tale principio stavano molte norme del codice civile, oggi abrogate dal nuovo
diritto di famiglia: l’art. 144 cod. civ., che conferiva al marito la posizione di “capo famiglia”, la