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Tesina su Dio nel panorama scientifico e filosofico. Materie incluse: filosofia, storia, matematica, fisica, geografia astronomica, italiano (Dante).
Indice:
1. L’esistenza di Dio e la sua visione
2. Dio come ordine geometrico
3. Dio come perfezione matematica
4. Dio come risposta scientifica
5. Dio come postulato
6. L’ateismo
7. La Chiesa e lo Stato italiano nel Novecento
Dante Alighieri: il Canto XXXIII e l’ineffabilità
Nell’opera “Essere e tempo” del 1927, il filosofo tedesco Marteen Heidegger sosteneva che l’uomo
ha una sorta di primato ontologico, essendo l’unico ente a porsi il problema dell’Essere. Secondo
questa definizione si vuole dare maggiore importanza all’uomo, perché è in grado di porsi quelle
famose domande esistenziali che lo contraddistinguono dai semplici animali. Anche Arthur
Schopenhauer pensava l’uomo come un “animale metafisico”; per lui questa superiorità porta
inevitabilmente al dolore.
Il concetto di “primato metafisico” dell’uomo può essere facilmente trasferito al problema
dell’esistenza di Dio, di fatti ogni civiltà e ogni grande filosofo si è sempre posto la domanda che
tutti, almeno una volta nella vita ci poniamo: esiste Dio? Che cosa si intende con la parola Dio?
L’idea di Dio è innata oppure a posteriori?
Anche se i tentativi di dimostrazione dell’esistenza di Dio sono invalidi, l’uomo continua a crederci
e testimonianze di questa fede intramontabile sono insite nell’arte. Il sommo poeta , “padre” della
letteratura italiana, Dante Alighieri si assume una responsabilità ancora più pesante di provare Dio;
racconterà all’umanità il suo viaggio nel Regno dei Cieli.
Il dilemma che affligge Dante nel Paradiso, è l’impossibilità di descrivere Dio, perché questa
visione è talmente intensa da perdersi nell’immensa luce divina. Ciò che vede il poeta va troppo al
di là delle possibilità umane e l’impossibilità di rappresentare almeno una pallida immagine di Dio
apre il tema dell’ineffabilità, la difficoltà di tradurre in poesia la smisurata apparizione della trinità
cristiana. Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer `poco'. 123
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi! 126
Nel Canto XXXIII del Paradiso dopo aver tentato di rappresentare il mistero dell’unità e della
trinità divina, Dante esce nell’esclamazione sull’insufficienza del proprio dire, che è corto e fioco,
addirittura bisognerebbe dire “nulla”. Nella seconda terzina vuole celebrare la trinità divina; infatti
la luce eterna, che risiede in se stessa ( perché non può essere contenuta in nulla), da sola si
comprende (come Padre), è compresa (come Figlio) e comprendendosi, arde di amore (nello
Spirito Santo). 4
Dante Alighieri: il Canto XXXIII e la visione di Dio
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza; 117
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri. 120
Pur essendo impossibilitato nel trattare di Dio, Dante vive un rapimento mistico, con la realtà
intorno a lui che sembra scomparire, per lasciare solo il poeta a contemplare la luce di Dio; resta pur
sempre un’estasi dell’intelligenza e della volontà. Come per tutto il Paradiso Dante ricorre ancora
alla luce nel suo duplice significato di splendore e di conoscenza, per riferire della meravigliosa
esperienza della contemplazione di Dio. Dio è un punto straordinariamente luminoso, una luce pura
della sua essenza, una luce che non disegna nulla perché è essa stessa la verità di Dio; tuttavia con
uno sforzo intellettualistico , con il chiaro proposito di offrire un’allusione al mistero della Trinità,
Dante propone l’immagine dei tre cerchi sovrapposti e identici, in uno dei quali balena l’effige
umana di Gesù Cristo. Il mistero dell’incarnazione diventa quindi il fondamento di ogni cosa,
proprio perché da esso dipende il destino dell’umanità, un mistero che resta ovviamente
impenetrabile dalla mente umana.
Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna: 87
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume. 90
Dante ritiene che, se i suoi occhi di distogliessero improvvisamente dal raggio divino, egli si
sentirebbe smarrito: è proprio per tale motivo che ha portato alla massima tensione la sua vista,
immergendola nella luce eterna. Poi il poeta, nella profondità di quella luce , vede legato in un
comune vincolo d’amore , come quaderni in un volume, tutto ciò che è sparso nell’universo (infatti:
nella profondità dell’essenza divina vidi che tutto ciò che nell’universo è sparso e diviso, si trova
raccolto, legato con amore tutto insieme). L’immagine vigorosa viene utilizzata da Dante per
indicare l’unità divina in cui si conciliano e si unificano tutte le antinomie nell’universo.
Sostanze (ciò che per sé sussiste) ed accidenti (le qualità di una cosa non pertinenti alla sua essenza)
sono fusi insieme e Dante crede di vedere l’essenza stessa di quell’unione poiché avverte nel suo
animo una gioia maggiore. In conclusione Dante ci ha dato uno squarcio di ciò che lui si è
immaginato di Dio raggiungendo le vette più alte dal punto di vista poetico.
Dal punto di vista propriamente filosofico l’idea di Dio è ancora più complessa e innumerevoli
studiosi si occuparono di essa. Dopo questo breve assaggio della difficoltà incontrata da Dante nel
descrivere Dio, il discorso si sposterà su un livello oggettivo e quindi più impraticabile: le prove
dell’esistenza e il suo rapporto con la scienza. 5
Anselmo d’Aosta: la prova ontologica
Possiamo dire che nella filosofia scolastica, Anselmo d’Aosta fu il primo a porsi il problema
dell’esistenza di Dio. In un periodo in cui la libera ricerca scientifica e filosofica non era ai massimi
livelli, l’obiettivo della Chiesa era di difendere qualsiasi tentativo di minare la verità religiosa,
anche attraverso la scolastica.
Anselmo partì da un concetto fondamentale: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore (in
latino: Id quo maius cogitari equit). E’ stato definito argomento ontologico o a priori perché
essendo una prova astratta, presuppone in un certo senso già l’esistenza di Dio. Nel “Proslogion”,
quando l’insipiens (il non credente, colui che non sa) nega l’esistenza di Dio, a sua volta nega il
concetto di “Id quo maius cogitari equit”, ma negandolo deve avere per forza quella nozione
nell’intelletto. Questo concetto non può esistere solo nell’intelletto perché altrimenti sarebbe
possibile qualcosa di più grande, quindi si scade in una contraddizione. Di conseguenza se questo
concetto esistesse solo nella mente o nella realtà non sarebbe più valido. Da questo si ricava che Dio
esiste necessariamente.
In poche parole essendo Dio un essere perfetto (ovvero non manca di nulla), deve per forza esistere,
perché non può mancare dell’esistenza. Il suo stesso discepolo il monaco Gaunilone obiettò che non
è sufficiente pensare una cosa perché esista, anche se rappresenta la perfezione. Disse infatti che,
nonostante si potesse immaginare un'isola piena di delizie, ciò non dimostrava la sua esistenza.
Rifiutò insomma il passaggio obbligato dal mondo ideale a quello reale. Critica che operò anche
Immanuel Kant, trattata in seguito.
Tommaso d’Aquino: le cinque viae
Il filosofo cristiano pensava che l’essenza di Dio e la certezza inoppugnabile della sua esistenza
fosse data dalla fede, ma attraverso la ragione si prepara l’adesione libera dell’intelletto e della
volontà umana rendendo plausibile Dio. Sulla base di questo sfondo di pensiero Tommaso espose le
sue prove dell'esistenza di Dio, non a caso chiamate in latino viae, cioè "percorsi", "cammini" presi
come esempi di largo respiro. Tommaso si discostò dalla prova a priori di Sant Anselmo,
elaborandone cinque viae a posteriori edificate su alcuni principi:
constatazione di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria;
analisi metafisica di quel dato iniziale esperienziale alla luce del principio metafisisco di
causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto ciò che si muove è mosso da un altro";
"E' impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa");
impossibilità di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non quantitativo,
perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il dato di fatto di partenza
esistente;
conclusione deduttiva strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che
identifica il “conosciuto” sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano
Dio", o espressioni simili.
Da ciò si nota come Tommaso è una grande studioso ed estimatore di Aristotele, che venne
concordato con il Cristianesimo. Le cinque viae sono più precisamente:
1) Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò che si muove esige un movente primo
perché, come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare all'infinito
nella ricerca di un primo motore");
2) Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa efficiente", intesa in senso
subordinato, non in senso coordinato nel tempo. Tommaso non è, per sola
ragione, in grado di escludere la durata indefinita nel tempo di un mondo creato
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da Dio, la cosiddetta creatio ab aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende
nell' essere da un altro detto causa; necessità di una causa prima incausata);
3) Ex rerum contingentia (cioè "dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso
la generabilità e corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di
essere e non essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di
"contingenza", ben diverso dall' uso più comune, legato ad una terminologia
avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio;
4) Ex variis gradibus perfectionis (le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese
in senso trascendentale, come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato
un 'banale' esempio fisico legato al fuoco ed al calore; ma solo un grado massimo
di perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi);
5) Ex rerum gubernatione (cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non
intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo
in loro quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così).
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2. Dio come ordine geometrico
Cartesio: “la scienza mirabile”
Renee Descartes si inserisce tra i filosofi che hanno provato a dimostrare l’esistenza di Dio.
L’intento del matematico era di creare le nuove basi della scienza moderna, criticando il sapere a lui
contemporaneo come troppo proiettato verso l’antichità. Egli sognava una scienza mirabile
( soprattutto una “matesis universale”, ovvero la possibilità di ricavare dalla matematica le regole
applicabili a tutto lo scibile umano).
La conoscenza doveva basarsi sulla chiarezza, sull’evidenza, sull’intuizione e sulla certezza; al
contrario e forse in modo retrogrado credeva che il fondamento di tutte le scienze fosse la
metafisica. Per cui l’albero della conoscenza aveva come radici la metafisica, come tronco la fisica
e come rami le altre discipline. Pur fondando il “soggettivismo moderno” e considerando la
certezza metafisica non come sostanza ma come “res cogitans”, Cartesio è stato costretto a parlare
di Dio come garante di verità e di tutto ciò che l’uomo concepisce in modo chiaro ed evidente.
Cimentandosi nel “cogito” il francese è stato in grado di avvalorare la tesi per cui l’uomo esiste
come oggetto pensante, ma ancora non come corpo. Per dimostrare la realtà degli enti, Cartesio ha
trattato del contenuto del pensiero umano, ovvero delle “idee”, divise in tre tipologie: avventizie,
fattizie e innate.
Cartesio: il Dio matematico
Per estirpare il “genio maligno” , che fa si che la ragione non sia sempre certa (dubbio iperbolico),
il filosofo cercò di dimostrare le idee innate come contenuto a priori della conoscenza. Il
matematico, naturalmente, non poteva dare per scontato l’esistenza delle idee innate e quindi di
Dio, per questo predispose tre prove (due a posteriori e una a priori):