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Sintesi
Introduzione Tesina sul Debito pubblico italiano


Non è la politica, non sono i sentimenti, non è la forza di volontà che governano il mondo che conosciamo, ma è l’economia. A ben pensarci questa incarna i desideri e l’egocentricità, la solidarietà o perfino il menefreghismo di ognuno di noi.
L’economia, intersezione tra le scienze umane, inesatte, e le scienze naturali, per loro natura esatte, è presente anche nelle società più semplici e meno evolute: ognuno mangia solo quello che caccia? Pseudo liberismo. Si caccia e si spartisce con gli altri il bottino? Simil socialismo.
Come si può notare l’economia è alla base di quasi ogni decisione anche minimamente razionale. Io personalmente ho cominciato a seguire con più attenzione questo fenomeno soltanto da pochi anni a questa parte, seguendo maggiormente la vita istituzionale italiana, e soprattutto dopo due incontri chiave relativi all’argomento: il primo a Rimini, nell’ottobre
scorso, dove ho assistito a interventi di alcuni degli economisti più famosi del mondo: Grossman, Kostoris, Galli; il secondo durante la giornata di autogestione della scuola, con il professore di Storia del Pensiero Economico Giorgio Gattei, dell’Università di Bologna. Grazie a questi incontri ho deciso di svolgere la mia tesina sul debito pubblico italiano
Le argomentazioni di tutti questi personaggi di spicco nel mondo economico italiano e mondiale mi hanno decisamente incuriosito e interessato all’argomento, che è tra l’altro oggetto frequente di discussioni tra i piani alti del Paese.
È per questo che ora parlerò del debito pubblico italiano nella mia tesina di maturità, delle sue cause, dei suoi effetti, e delle sue possibili soluzioni, ammesso che questo possa realmente essere considerato un problema.

Collegamenti

Tesina sul Debito pubblico italiano


Economia delle finanze - Il debito pubblico, finanza pubblica, spesa ed entrate pubbliche.
Matematica - I problemi di scelta, la ricerca operativa.
Estratto del documento

 

Il Debito.

Siamo nel periodo che va dal Medioevo fino al XIX secolo.

I sovrani fanno richiesta e usufruiscono di un’ingente quantità di denaro

preso in prestito per una migliore gestione del loro Impero. Quando

l’ammontare dei debiti diventa insostenibile, i Sovrani svalutano ai danni

del popolo il valore reale del denaro in circolazione, impoverendo di

metalli preziosi le monete per poi riconiarle lasciando immutato il loro

valore nominale, e ottenendo al contempo nuove ricchezze con cui

risanare le casse del Regno. Questa è la storia, raccontata dal giornalista

Tonino Perna de “Il Manifesto”, del “debito del sovrano”.

Oggi di Sovrani non ne sono rimasti, i Monarchi sono in via di estinzione

e hanno comunque un potere puramente rappresentativo: tutto è stato

sostituito dallo Stato che ha continuato a contrarre debiti e chiedere un

sacrificio ai propri cittadini, anche se con modalità del tutto differenti. Per

questo si parla ora di debito pubblico, dove il settore pubblico di uno

Stato contrae debiti attraverso l’emissione di titoli, con lo scopo di

reperire unicamente risorse finanziarie.

I Titoli di Stato italiani sono composti principalmente di BTP per il 65% e BOT per il 9%.

Dipartimento del Tesoro, dati aggiornati al 31 maggio 2013.

Le obbligazioni vengono sottoscritte da famiglie, imprese o istituzioni

finanziarie, che prestano il loro denaro allo Stato in cambio di un

interesse, denaro che lo Stato userà a copertura del deficit pubblico,

naturale sintomo di un eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate.

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In Italia.

Probabilmente il più grosso problema della finanza pubblica italiana da

alcuni anni a questa parte è l’eccessivo livello di debito pubblico che si è

andato formando nel tempo.

Fino al 1970 circa, il debito pubblico italiano mantenne un profilo

piuttosto basso, nei primi anni anche grazie alle politiche finanziarie

liberiste avute nel dopoguerra con Luigi Einaudi (prima governatore della

Banca d’Italia, poi Presidente della Repubblica).

L’anno spartiacque è identificato con il 1963, anno in cui si raggiunse il

livello minimo di debito pubblico dal dopoguerra, e anno dopo il quale il

debito cominciò la sua progressiva espansione fino ad arrivare al livello

attuale.

In questi anni in Italia si assistette a un notevole aumento della spesa

pubblica finalizzata all’istituzione di un migliore welfare state e

all’attuazione di politiche keynesiane a sostegno della domanda globale.

Contemporaneamente però lo Stato non si assicurò un aumento dal lato

delle entrate con una maggiore imposizione fiscale, e finì inevitabilmente

col dover far fronte a un notevole incremento del deficit di bilancio.

Nel decennio ’70 – ’80 la situazione si fece particolare: l’economia italiana

era gravata da una forte inflazione, inasprita dall’emissione di moneta da

parte della Banca d’Italia (finalizzata all’acquisto dei titoli di stato non

collocati sul mercato) ma che ebbe dei lati positivi dal punto di vista della

svalutazione del debito, che rientrò in limiti accettabili.

I problemi arrivarono nel 1981 quando la diminuzione dell’inflazione

unita al fatto che la Banca d’Italia, separatasi dal Ministero del Tesoro,

non era più obbligata ad emettere moneta per coprire il debito, fecero

entrare quest’ultimo in una fase di incremento continuo ed incontrollato.

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La situazione migliorò soltanto quando ci si pose l’obiettivo di entrare

nell’Unione Monetaria Europea, possibile solo nel rispetto delle regole

imposte dal Trattato di Maastricht.

Il Trattato di Maastricht prevedeva i cosiddetti criteri di convergenza, tra cui i rapporti:

debito/PIL inferiore al 60% e deficit/PIL inferiore al 3%.

Era possibile per l’Italia entrare a far parte dell’UME solo dopo grandi opere di riforma e

contenimento del deficit di bilancio e di conseguenza del debito, attuate dal ’94 in poi

fino al ’98, anno di creazione dell’UME.

Prima e dopo le politiche economiche che avrebbero permesso l’entrata dell’Italia nell’UME

secondo i dati ISTAT.

Debito/PIL Deficit/PIL

1994 120% 9%

1998 108% 2%

Dal 2004, dopo un drastico calo, il rapporto debito/PIL riprese a

aumentare, a causa sia di un incremento della spesa pubblica atto a

contenere la crisi, sia di una diminuzione sempre maggiore del PIL, che

ad oggi si trova in condizione di recessione.

Con recessione s’intende la situazione in cui vi sia un regresso nell’attività economica

(PIL), possibile preludio di depressione (fase finale del ciclo economico). Secondo il

professor Comito Vincenzo della facoltà di Economia dell’Università di Urbino, il

presupposto per la recessione è un calo del PIL compreso tra lo 0,5% e lo 0,7% per due

trimestri consecutivi.

Attualmente la condizione economica italiana si trova ad avere un debito

pari al 127% e un deficit pari al 2,9% del PIL.   6  

 

Le cause.

Quando uno Stato realizza uscite (spesa pubblica) in quantità maggiore

rispetto alle entrate (gettito fiscale) si parla di deficit, se nella spesa si

escludono le uscite correnti e si considerano solo gli investimenti ecco

che questo diventa deficit spending. La somma dei deficit dei vari anni ha

costituito il debito pubblico, che va a sua volta finanziato tramite

l’emissione di moneta o di obbligazioni.

In matematica il debito pubblico di un Paese è interpretato come un problema di scelta

secondo le metodologie proposte dalla ricerca operativa.

Il problema viene trattato attraverso lo studio di un modello matematico formato da

una funzione obiettivo (funzione che esprime un obiettivo da raggiungere calcolato in

funzione di variabili indipendenti tra loro) ed eventuali vincoli, che in questo caso si

identificano con le regole dettate dall’Unione Europea o dal Parlamento Italiano in

Leggi e Trattati, e dal comportamento in determinate situazioni delle variabili stesse.

Va da sé quindi che ipoteticamente uno Stato con un ingente debito

pubblico, sia uno Stato sociale e attento ai bisogni dei cittadini, sempre

pronto a spendere per migliorare le loro condizioni di vita.

Questa tipologia di Stato di stampo keynesiano è stato largamente

utilizzato nella politica economica italiana sin dagli anni ’60.

In quel periodo in Italia, così come in molti altri Stati, si è avuto infatti un

notevole incremento della spesa pubblica per lo Stato sociale, atta a

garantire istruzione e salute. D’altra parte però, cosa che negli altri Stati

non è avvenuta, in Italia non c’è stata una riforma e adeguamento dal

punto di vista dell’imposizione fiscale in linea con l’aumento della spesa,

unitamente a fattori quali evasione ed elusione fiscale che hanno da

sempre e stanno tutt’ora mettendo in grave difficoltà l’economia italiana.

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La conseguenza è stata che lo Stato ha speso più di quanto abbia

incassato per troppo tempo, e i deficit dei vari esercizi non hanno fatto

altro che accrescere il debito pubblico di anno in anno, fino a quando

prima dell’ultimo governo Andreotti intorno al 1990, per la prima volta si

realizzò un saldo primario in pareggio.

 

Il bilancio dello Stato prevede diversi saldi per le voci di spesa ed entrata. Il saldo

primario si ottiene confrontando spesa pubblica ed entrate prima del pagamento degli

interessi. Col Fiscal Compact è stato costituzionalizzato il pareggio di bilancio, per cui

oggi il continuo aumento del debito dipende unicamente dai crescenti interessi sul

debito stesso, e non più dal deficit spending.

Merita di essere citato il fatto che le politiche keynesiane di

sopportazione di un deficit e diminuzione del gettito fiscale di per sé

giuste in un momento di depressione, vanno assolutamente evitate in

momento di espansione, come lo stesso Keynes sosteneva, a contrario di

come è stato fatto in Italia nel periodo prima considerato. Questa

dinamica ha sicuramente contribuito a un incremento notevole e

ingiustificato del debito pubblico.

Abbiamo visto quindi come una spesa pubblica maggiore al dovuto,

seppur “buona”, possa causare non pochi problemi alla situazione

economica e finanziaria di uno Stato.

Se in aggiunta questa spesa diventa clientelare e ingiustificata,

finanziando una pubblica amministrazione inefficiente e spesso corrotta,

la situazione è ben lungi dal migliorare.

La professoressa Emma Galli de “La Sapienza” di Roma, si è preoccupata

dell’effetto provocato dalla corruzione sulla crescita economica:

normalmente si pensa che un grado di corruzione non troppo elevato dia

in qualche modo impulso alla produzione in quanto eliminerebbe una

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buona quota di burocrazia. In Italia però si parla di una corruzione ben

fuori dagli standard e che superata una certa incidenza (8%) oltre ad

avere un effetto riduttore sulla crescita, riesce in qualche modo a

neutralizzare o limitare l’effetto della spesa produttiva nello sviluppo del

Paese

Questo è in parte il problema che si è avuto con le imprese pubbliche

italiane, che fino agli anni ’90 hanno assorbito ingenti quantità di risorse

dalle casse dello Stato, gravando sul suo bilancio con i cosiddetti oneri

impropri, fino a quando nel ’93, grazie anche alle spinte in questa

direzione delle Direttive Europee, non si decise per la loro progressiva

privatizzazione. Le cause per cui si arrivò a questa situazione

problematica furono molteplici, tra cui: corruzione appunto,

partecipazioni statali usate clientelarmente dalla classe politica e

un’iniziativa pubblica che soffocava quella privata.

Un altro aspetto tenuto molto in considerazione dagli economisti, come

ad esempio il professor Gattei dell’Università di Bologna, è la bilancia

commerciale di un paese.

La bilancia commerciale è data dal rapporto tra importazioni ed esportazioni di merci

di uno stesso Paese. Il saldo della bilancia determina anche il tasso di cambio tra le

rispettive monete.

Da questo punto di vista il nostro è un Paese con scarse risorse naturali,

e quindi tipicamente importatore. Partendo da questo presupposto, è

naturale pensare che esso debba far fronte a notevoli debiti commerciali.

Il problema nasce nel momento in cui questi debiti vanno saldati, la

dinamica è infatti particolare: il Paese esportatore aiuta l’importatore con

una dilazione del pagamento in cambio di interessi.

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Quindi così come lo scarto tra spesa pubblica ed entrate, anche il

disavanzo tra crediti e debiti commerciali viene trasformato in debito

pubblico, che però in questo caso, cosa ben più grave rispetto all’altra

situazione, è in mano a terzi, ovvero ai Paesi esportatori.

Parlando in cifre spicciole, secondo un’analisi dell’economista Giorgio

Arfaras, attualmente il 44% del nostro debito è in mano estera: questo

significa un interesse lucrativo e speculativo non di poco conto che va ad

aggiungersi ad una situazione già di per sé problematica.

Un aspetto particolare che il professor Ciccone dell’Università degli Studi

di Roma fa notare è che il debito derivante dal deficit della bilancia

commerciale è assolutamente scollegato dal deficit di bilancio, ed

esisterebbe anche senza di esso. Ovviamente, essendo direttamente

legato alle importazioni, il debito derivante dal disavanzo della bilancia

commerciale è naturale che sia tutto in mani estere, con tutti i problemi

che questo comporta.   10  

 

Gli effetti.

Tutta la polemica dietro il debito pubblico non avrebbe ragione di

esistere se questo non provocasse effetti a dir poco indesiderati e

dannosi per l’economia e la società di un Paese.

Il più ovvio di questi è sicuramente l’instabilità finanziaria derivante dalla

speculazione dei creditori, di solito esteri, che può far aumentare

spropositatamente il tasso d’interesse sui titoli portando il Paese ad un

elevato rischio di insolvenza, così mentre i cittadini stranieri si godono gli

interessi sui titoli, i residenti del Paese devono sopportare imposte

aggiuntive introdotte per far fronte al debito.

Risparmi e capitali privati, conseguentemente all’innalzamento del tasso

d’interesse sui titoli vengono spiazzati, e anziché nel settore privato

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