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Sintesi
Introduzione Tesina sul Cavallo


Questa tesina descrive il cavallo. Gli argomenti che vengono analizzati nella seguente tesina di maturità sono i seguenti: in Storia la carica di Isbuschenskij, in Italiano Pirandello, Fortuna d'esser cavallo, in Costruzioni rurali la scuderia, in Zootecnia morfologia-allevamento, in Meccanica le macchine per la fienagione, in Industrie agrarie il latte.

Collegamenti

Tesina sul Cavallo


Storia - La carica di Isbuschenskij.
Italiano - Pirandello, Fortuna d'esser cavallo.
Costruzioni rurali - La scuderia.
Zootecnica - Morfologia-Allevamento.
Meccanica - Le macchine per la fienagione.
Industrie agrarie - Il latte.
Estratto del documento

ci trasforma in “morti viventi” come Mattia Pascal, senza più una collocazione nella società.

Nel 1936 durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, a Roma, si ammala di

polmonite e muore. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato, vengono

rispettare le clausole del suo testamento:

"Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il

carro, il callo, il cocchiere e basta".

Fortuna d’esser cavallo (1935)

In questa novella ritroviamo tutto il pensiero di Pirandello, il cui protagonista non è un uomo ma un

cavallo, sul quale Pirandello trasferisce le stesse difficoltà e il disagio della condizione umana. Il

protagonista senza nome di questa novella è stato abbandonato dal suo padrone perché ormai

vecchio e inutile. L’animale, privato della sua “forma” che sino ad allora era la sua vita, fatta di

duro lavoro e di sofferenze, si ritrova improvvisamente libero e senza più una collocazione nella

società (gli abitanti del paese). Questa nuova situazione lo porrebbe nella condizione di poter

godere appieno della libertà, tuttavia esso non sa cosa farne semplicemente perché non ha una

propria idea di libertà … non avendola mai conosciuta.

Scacciato, deriso e respinto dalla società, per la quale non rappresenta altro se non un paradosso, al

protagonista resta la fortuna di esser cavallo e di non avere quindi la capacità di pensare. Non si

tratta di pensiero inteso come intelligenza, il cavallo infatti ha una sua visione , un suo pensiero ben

preciso, ma di coscienza: a differenza dei protagonisti umani delle novelle pirandelliane, il cavallo

non riesce a rendersi conto della sua dolorosa condizione.

La stalla è lì, dietro la porta chiusa, subito dopo l’entrata nel cortile rustico in

pendìo, dall’acciottolato logoro e la cisterna in mezzo.

La porta è imporrita; verde un tempo, ora ha quasi perduto il colore; come la

casa, quello gialligno dell’intonaco, per cui appare la più vecchia e misera del

sobborgo.

Questa mattina all’alba la porta è stata chiusa da fuori col grosso catenaccio

arrugginito; e il cavallo che era nella stalla è stato messo fuori e lasciato lì

davanti, chi sa perché, senza né briglia né sella né bisaccia; senza nemmeno la

capezza.

Vi sta paziente, quasi immobile, da parecchie ore. Sente attraverso la porta

chiusa l’odore della sua stalla lì prossima, l’odore del cortile; e pare che di tanto

in tanto, aspirandolo con le froge dilatate, sospiri.

Risponde curiosamente a ogni sospiro un fremito nervoso del cuojo sulla schiena,

dov’è il segno d’un vecchio guidalesco.

Così libero d’ogni guarnimento, la testa e tutto il corpo, si può vedere come gli

anni l’han ridotto: la testa, quando la rialza, ha ancora un che di nobile ma

triste; il corpo è una pietà: il dosso, tutto nodi: sporgenti le costole; i fianchi,

aguzzi; spessa però ancora la criniera e lunga la coda, appena un po’ spelata.

Un cavallo che non può servire più a nulla, per dir la verità.

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Che cosa aspetta lì davanti alla porta?

Chi, passando, lo vede, e sa che il padrone è già partito dopo essersi portata via

tutta la roba di casa per andare ad abitare in un altro paese, pensa che qualcuno

forse verrà per incarico di lui a ritirarlo; benché, lasciato così sguarnito di tutto,

abbia piuttosto l’aria d’un cavallo abbandonato.

Altri passanti si fermano a guardarlo, e c’è chi dice di sapere che il padrone,

prima di partire, ha cercato in tutti i modi di disfarsene, tentando in principio di

venderlo anche a poco prezzo, poi offrendolo a tanti in dono; anche a lui; ma

nessuno l’ha voluto, nemmeno regalato; neppur lui.

Non mangiasse, un cavallo, ma mangia. E per il servizio che quello può ancora

rendere così vecchio e malandato, siamo giusti, vi par che valga la spesa del fieno

o anche di un po’ di paglia da dargli a mangiare?

Avere un cavallo e non saper che farsene, dev’esser pure un bell’impiccio.

Tanti, per levarselo, ricorrono al mezzo sbrigativo d’ucciderlo. Una palla di

fucile costa poco. Ma non tutti hanno il cuore di farlo.

Resta però da vedere se non è più crudele abbandonarlo così. Certo, a vederlo

ora davanti la porta chiusa d’una casa vuota e deserta, povera bestia, fa una

gran pena. Quasi quasi verrebbe voglia di andargli a dire in un orecchio che non

stia più lì ad aspettare inutilmente.

Gli avesse almeno lasciato una corda al collo per portarlo via in qualche modo;

ma niente. Si vede che i guarnimenti, quelli sì, ha trovato da venderli: servono.

Forse però se li sarebbe venduti lo stesso, chiunque se lo fosse preso, per poi

lasciarlo nudo ugualmente in mezzo a un’altra strada.

Intanto, oh! guardate le mosche. Eh, quelle non si dirà mai che in tanta disdetta

lo vogliano abbandonare. E il povero cavallo, se fa qualche movimento, è

soltanto con la coda, per cacciarsele quando si sente pinzato più forte: cosa che

gli avviene di frequente, ora che non ha più tanto sangue da dar loro a succhiare

facilmente.

Ma già s’è stancato di star ritto su le zampe e si piega con pena sui ginocchi per

riposarsi a terra, sempre con la testa verso la porta.

Non può proprio pensare d’esser libero.

Ma già, un cavallo, anche quando l’abbia davvero, la libertà, gli è forse dato di

farsene un’idea? L’ha, e ne gode senza pensarci. Quando gliela levano, dapprima

per istinto si ribella; poi, addomesticato, si rassegna e adatta.

Forse quello, nato in qualche stalla, libero non è stato mai. Sì, da giovane in

campagna probabilmente, lasciato a pascolare sui prati. Ma libertà per modo di

dire: prati chiusi da staccionate. Se pure c’è stato, che ricordo può più averne?

Sta lì a terra finché la fame non lo spinge a rimettersi con maggiore stento in

piedi; e poiché da quella porta, dopo una così lunga attesa, non spera più ajuto,

volta la testa a guardar di lato, lungo la strada del sobborgo. Nitrisce. Raspa con

uno zoccolo. Più di questo non sa fare. Ma dev’esser convinto che è inutile,

perché poco dopo sbruffa e scuote il capo; poi, incerto, muove qualche passo.

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C’è ormai più d’un curioso che sta a osservarlo.

Pure in campagna, dove sia coltivata, non s’ammette che un cavallo vada libero;

figurarsi poi in mezzo a un abitato dove ci son donne e bambini.

Un cavallo non è come un cane che può restar senza padrone e, se va per via,

nessun ci fa caso. Un cavallo è un cavallo: e se non lo sa, lo sanno gli altri che lo

vedono, il corpo che ha, molto molto più grande di quello d’un cane,

ingombrante; un corpo che non riesce mai a ispirare un’intera confidenza e da

cui tutti ci si guarda perché tutt’a un tratto, non si sa mai, uno sfaglio

imprevedibile; e poi con quegli occhi, con quel bianco che a volte si scopre feroce

e insanguato; occhi così tutti specchianti, con un brio di guizzi e certi baleni, che

nessuno comprende, d’una vita sempre in ansia, che può adombrarsi di nulla.

Non è per ingiustizia. Ma non sono gli occhi d’un cane, umani, che chiedono

scusa o pietà, che sanno anche fingere, con certi sguardi a cui la nostra ipocrisia

non ha più nulla da insegnare.

Gli occhi d’un cavallo, ci vedi tutto, ma non ci puoi legger nulla.

È vero che questo, così mal ridotto com’è, non pare a nessuno che possa esser

pericoloso. Ma, comunque, perché impicciarsene?

Vada pure; se qualcuno sarà molestato, ci penserà lui a scostarlo, a cacciarlo; o

ci penseranno le guardie.

Ragazzi, non tirate sassi. Vedete che non ha più nulla addosso? Così libero e

sciolto, se piglia la fuga, chi lo para?

Stiamo piuttosto a vedere tranquillamente dove va.

Ecco, prima da uno là che fabbrica pasta al tornio e la tiene stesa ad asciugare

all’aperto su certi telaj di rete posati su cavalletti traballanti.

Oh Dio, se s’accosta, li fa cadere.

Ma il pastajo accorre in tempo a pararlo e lo spinge via. Sacr... di chi è questo

cavallo?

I monelli non reggono più, gli corrono dietro, gridando, ridendo.

– Un cavallo scappato?

– No: abbandonato.

– Come, abbandonato?

– Ma così. Lasciato dal padrone. Libero.

– Ah sì? Allora un cavallo che se ne va a spasso per conto suo per le vie del

paese?

Eh via, d’un uomo si vorrebbe sapere se non è pazzo. Ma d’un cavallo che volete

sapere? Un cavallo sa soltanto che ha fame. Ora, più là, allunga il muso verso un

bel cesto d’insalata esposto fra tanti altri davanti alla bottega d’un erbivendolo.

7

È respinto malamente anche da lì.

Alle botte è avvezzo, e se le prenderebbe in pace, se poi con questo lo lasciassero

mangiare. Ma proprio non vogliono che mangi. Più resiste per dimostrare che

non gl’importa delle botte, e più gli storcono il collo per tenergli il muso lontano

da quel bel cesto di insalata. E la sua ostinazione fa ridere. Ma ci vuol tanto a

comprendere che quell’insalata è lì esposta per esser venduta a chi voglia

mangiarsela? È una cosa così semplice. E, perché il cavallo dimostra di non

comprenderla, tutte quelle risa sguajate.

Bestia! non ha neppure un filo di paglia da mangiare, e vorrebbe l’insalata.

Nessuno s’immagina che una bestia, dal canto suo, può vedere in tutt’altro modo,

veramente più semplice, la cosa. Ma nulla da fare.

E il cavallo se ne va, col seguito di tutti quei monelli, i quali, dopo la bella

dimostrazione data, di sapersi pigliar le botte così in pace, chi li tiene più? Gli

fanno attorno una gazzarra d’inferno. Tanto che il cavallo a un certo punto si

ferma stordito, come per cercare il modo di farla finita. Accorre un vecchio ad

ammonire i monelli che coi cavalli non si scherza.

– Ecco, vedete?

La prova giova per un momento. I monelli riprendono a seguire il cavallo

tenendosi a distanza. Dove va?

Avanti. Senza più osare accostarsi ad altre botteghe, attraversa tutta la strada del

sobborgo in cima al colle, e dove questa comincia a discendere, disabitata per un

lungo tratto, si riferma indeciso.

È chiaro che non sa più dove andare.

Spira, in quel tratto di strada, un po’ di vento. E il cavallo alza la testa, come a

berlo, e socchiude gli occhi, forse perché vi sente l’odore dell’erba lontana, dei

campi.

Resta lì fermo a lungo, a lungo, così con gli occhi socchiusi e il ciuffo che, ai soffi

di quel vento, gli si muove lieve sulla fronte dura.

Ma non commoviamoci. Non dimentichiamo la fortuna che ha quel cavallo, come

ogni altro: la fortuna d’esser cavallo.

Se i primi monelli si sono alla fine stancati di starlo a guardare e se ne sono

andati, altri e altri in più gran numero gli fanno allegro codazzo quando sul tardi,

venendo chi sa di dove come nuovo, stranamente esaltato da una ebbra

impazienza per la fame, ecco, a testa alta, si presenta in mezzo al corso

principale del paese e si pianta lì grattando con uno zoccolo il duro lastricato,

come per dire: comando che mi si porti subito da mangiare qua, qua, qua.

Fischi, applausi, risa, gridi d’ogni genere si levano a quel gesto imperioso; la

gente accorre, lasciando i tavolini del Caffè, le botteghe; tutti vogliono sapere di

quel cavallo – scappato – non scappato – abbandonato – finché due guardie si

fanno largo tra la ressa; l’una afferra per la criniera il cavallo e lo trascina via,

mentre l’altra impedisce ai monelli di seguirlo, ributtandoli indietro.

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Condotto fuori dell’abitato, dopo le ultime case e le fabbriche, passato il ponte, il

cavallo, che non s’è reso conto di nulla, una sola cosa avverte: l’odore dell’erba,

questa volta vicina, là sulle prode della strada oltre il ponte, che conduce alla

campagna.

Perché tra le tante disgrazie che gli possono occorrere, capitando sotto gli

uomini, un cavallo ha almeno sempre questa fortuna: che non pensa a nulla.

Nemmeno d’esser libero. Né dove o come andrà a finire. Nulla. Lo cacceranno da

per tutto? Lo butteranno a sfragellarsi in un burrone?

Ora, per il momento, mangia l’erba della proda. La sera è mite. Il cielo è stellato.

Domani sarà quel che sarà.

Non ci pensa.

La capacità di pensare è quindi una maledizione umana. Una volta che viene a mancare l'abitudine

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