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ITIS “Vito Volterra”
Tesina di Italiano Di Bacolini Elvis
GLI AUTORI DELLA MIA VITA
Ero un bambino buono direi.
La mattina di Natale ad esempio, mi alzavo prestissimo, prima di tutti e mi
inginocchiavo davanti al presepe per dire alcune preghiere e per chiedere a
Gesù piccoli favori in cambio di alcune buone azioni che avrei fatto in
mattinata.
Ero proprio affascinato da Gesù, il suo volto buono e serio esposto nella mia
cameretta mi portava a volte ad osservarlo in silenzio, poi gli dedicavo un
sorriso e tornavo a giocare.
Ero molto attratto anche dal suo modo di insegnare.
Non spiegava come i miei noiosi maestri di scuola ma utilizzava un metodo
tutto suo.
Utilizzava le parabole.
Iniziava con il raccontare una piccola storiella, poi su quella costruiva grandi
insegnamenti comprensibili anche da un bambino come me.
Parlava in modo semplice, riferendosi a cose quotidiane.
Il mio parroco era solito raccontarmi storie su di lui, episodi della sua vita
tratta dal vangelo, ma con molti particolari che mi avvicinavano alla
comprensione di questo personaggio misterioso ed interessante.
Mi piaceva come Don Giordano parlava di Gesù, lo descriveva come un uomo
molto saggio ma allo stesso tempo divertente; lo rendeva molto umano direi.
Tra le tante storie raccontate al campetto di pallone, dietro la chiesa dove era
solito scambiare due chiacchiere con noi ragazzi, una in particolare la ricordo
ancora oggi con chiarezza.
Erano i primi periodi della predicazione ed i fatti portarono Gesù sul lago di
Galilea. Era sera e finita la quotidiana predicazione, decise di tornare con i sui
discepoli all’altra riva con la barca su cui si trovavano.
Durante il tragitto però si alzò il vento e si scatenò una tremenda tempesta.
La barca iniziò ad oscillare per via delle onde e l’acqua entrò da tutte le parti;
I discepoli temettero il peggio.
Si guardarono l’un l’altro impauriti ed agitati, cercando un volto che non era
presente.
Dove era Gesù?
Gesù dormiva tranquillamente appoggiato ad un cuscino all’interno della
barca.
“Come può dormire costui in una situazione tanto critica?” pensarono i
discepoli
E così lo svegliarono; “Maestro, siamo in pericolo, affondiamo, non ti importa
nulla? ”
Lui si alzò, sgridò il vento ed il mare e poi disse.
“Perché siete tanto paurosi? Non avete ancora fede?”
Quella frase mi colpì molto.
Erano in mezzo ad una tempesta, terrorizzati, le onde quasi rovesciavano la
barca mentre lui dormiva sotto coperta ed al suo risveglio addirittura li sgridò.
Pensai a quante prove abbiamo bisogno per credere! Forse che non ne
abbiamo mai abbastanza?
Tentai anche io, allora, di fidarmi e di non farmi scoraggiare dalle onde,
ancora molto piccole della mia vita, vista la mia tenera età.
Intorno ai 9 anni decisi di fare il prete perché in tv vidi don Camillo che
parlava continuamente con Gesù in croce.
Credevo che qualsiasi prete ci riuscisse e Don Giordano alla mia domanda non
negò ne confermò la teoria.
In chiesa volevo stare sempre ai primi posti per osservare il prete e tentare di
scorgere quel dialogo tra un uomo comune e Dio.
Si, direi che tutto sommato ero un bambino buono.
Poi arrivò il 26 Novembre 1993 Giorno del mio quattordicesimo compleanno e
fine della mia fanciullezza.
Io abitavo accanto a mio cugino, Sandro, di un anno più grande di me .
L’infanzia l’abbiamo passata praticamente insieme, eravamo due cugini legati
come fratelli.
Ci eravamo distaccati un pochino l’ultimo anno perché lui aveva preso il
motorino e a me mancava ancora un anno.
Ero molto contento quindi di aver raggiunto quella data perché probabilmente
ci saremmo riuniti come una volta.
Ma non andò così.
Infatti quella sera verso le sette ebbe un incidente con il motorino proprio
davanti casa mia.
Fu investito da una macchina e poi subito dopo da un’altra.
Morì nella notte.
La mattina seguente fummo informati della tragedia.
Mi crollò il mondo addosso, sentii improvvisamente la mente riempirsi di
pensieri per poi svuotarsi completamente. Non piansi mai , né nella camera
mortuaria né al funerale . Non saprei ancora oggi dire perché non piansi.
Da quel giorno in poi però tutto cambiò.
Il bravo bambino sparì e subentrò un ragazzo arrabbiato, deluso ed impaurito.
Suo fratello più grande morì circa due anni dopo; sempre in un incidente
stradale.
La sua morte mi segnò ancora di più.
Mi sentivo il prossimo. Riflettendoci, arrivavo sempre alla stessa conclusione.
Sarei stato io il prossimo a morire. Mi sentivo parte di una famiglia il cui
destino era la rovina.
In quel periodo mi avvicinai però alla lettura.
Ero sedotto dagli eccessi, infatti lessi: Charles Bukowski con “Compagni di
sbronze” e di Charles Baudelaire lessi alcune poesie tra cui Spleen, L’albatros
e Correspondances.
Mi ero identificato nell’albatro di Baudelaire.
Volavo tranquillamente, in alto, nel cielo fino al momento in cui venni
catturato dalla realtà. Quel tragico incidente mi aveva fatto precipitare in una
visione del mondo, così differente dalla vecchia, in cui mi trovavo a disagio; i
miei movimenti in essa erano impacciati ed in più sentivo la mia anima tanto
sporca e pesante da permettere alla vita di mettermi in difficoltà con molta più
efficacia e facilità.
“…Com’è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco addietro così
bello, com’è brutto e ridicolo. Qualcuno irrita il suo becco con una pipa
mentre un altro, zoppicando, mima l’infermo che prima volava...” L’ALBATROS
Charles Baudelaire
Iniziai allora a scrivere poesie per tornare a volare e per curarmi le ferite.
“…E il poeta che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia in
tutto al principe delle nubi: esiliato a terra, fra gli scherni,…” L’ALBATROS
Charles Baudelaire
La vita piano piano mi sfuggiva di mano.
Tutto stava perdendo valore e non me ne rendevo conto.
La scuola era diventata un tormento, le amicizie non avevano più valore ed
interesse, persi la ragazza e una volta fuggii anche di casa.
Mi rendevo conto che il problema non si sarebbe risolto facendo pazzie o
prendendomela con gli altri. Stavo passando un periodo di grande confusione
e non avevo idea di come uscirne.
La vita intanto passava alternando giorni di collera a lunghi periodi trascorsi
in camera da letto a dormire.
Continuavo ancora ad osservare in silenzio il quadro di Gesù ma di certo i
pensieri non erano quelli di un tempo, provavo rabbia e nessun pentimento
per essa.
Un giorno di grandi domande e di completo sconforto, cercai nella nostra
piccola biblioteca di famiglia il vangelo.
Cercavo quel testo perché, mesi prima, mia sorella mi aveva raccontato che
in diverse situazioni di difficoltà, aprendolo a caso ne aveva trovato risposta.
Ci avevo già provato altre volte proprio dietro suo consiglio ma non ebbi mai
successo; anzi le pagine aperte da me parlavano sempre di possessione e
demonio, motivo ulteriore di perplessità.
Visto i vari insuccessi e la momentanea indisponibilità del testo sacro ripiegai
su un piccolo libricino che nella ricerca mi passò più volte sotto mano.
Era un libro di poesie di Giacomo leopardi intitolato “Canti”.
Ne aprii casualmente una pagina e mi trovai sotto gli occhi:
“CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA”
Il mio primo pensiero fu “titolo lungo, poesia lunga”, infatti girai pagina , per
trovarne la fine; ne dovetti girare ancora un'altra. Non mi andava ma decisi di
leggerla ugualmente.
A metà poesia scoppiai a piangere: era la prima volta che qualcuno era
riuscito a descrivere il mio stato d’animo in modo così perfetto e la prima volta
che piansi dopo la morte di mio cugino.
Ricordo che mi sentii subito meglio: qualcuno aveva provato prima di me le
mie stesse identiche sensazioni e questa idea mi diede una leggera
consolazione.
Le mie domande erano tutte lì, in quelle pagine in cui il pastore le rivolgeva
alla luna.
Ne assaporavo tutta la tristezza ma scorgevo in esse tutta la ricerca di senso
che ogni uomo, prima o poi, è spinto a compiere nella sua vita. Quel momento
mi elevò lo spirito.
“…Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?....”
“….Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?....”
“…Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?...”
“….Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo
e non ho fino a qui cagion di pianto….”
“…Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?...”
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA
Giacomo Leopardi
Nonostante questo episodio isolato, nessuna domanda aveva ancora ricevuto
per me una risposta compiuta.
Mi resi conto, però, che ero sempre più deciso e sempre più teso al
raggiungimento delle risposte. Almeno, ora, ci credevo a questa possibilità.
Ero all’inizio di un cammino; non sapevo dove sarei arrivato ma il solo
riprendere a camminare era fonte di piccola gioia.
Analizzai più volte il mio passato e ben compresi come le idee ed i desideri
cambino nel tempo.
In passato ad esempio, la notte di san Lorenzo ero solito passarla con i miei
genitori a guardare le stelle cadenti e ad esprimere i desideri più svariati e
fantasiosi. Spesso i desideri si riferivano a regali che avrei voluto.
Negli ultimi anni invece il desiderio era sempre lo stesso. “Voglio essere
felice”.