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Se almeno una parte del pensiero filosofico antico supporta la pratica del suicidio ritenendolo dunque un nobile atto finalizzato ad una nobile causa, quella della libertà dalle costrizioni terrene, con la diffusione del Cristianesimo la valutazione di quest’atto autodistruttivo muta necessariamente: la Chiesa lo considera peccato mortale e non ammette in nessun caso che esso sia giustificato; il suicidio è proibito dall’autorità divina. Per comprendere perché il cristianesimo si opponga al suicidio, bisogna ricordare che la Chiesa persegue l’imitatio Christi per sé e per tutti i suoi membri. Tale tentativo implica una trasformazione radicale dell’atteggiamento umano naturale: per natura l’essere umano ha orrore della sofferenza e cerca la felicità, dunque secondo la dottrina se l’uomo si uccide è quasi sempre per sfuggire alla sofferenza nel tentativo di acquisire un benessere fisico e psichico altrimenti sconosciuto. E su questo si concentra la sfida apparentemente paradossale del Cristianesimo: vivere ed accettare serenamente di soffrire. Se la felicità immanente fosse il senso della vita terrena, l’accettazione del dolore non avrebbe senso. Ma tutto cambia se la vita è a ritenersi una purificazione, se è il cammino verso una meta più grande, e se il suo senso si manifesta proprio nella sofferenza e si realizza attraverso di essa. La felicità cristiana, a differenza di quella stoica immanente, è “altrove”.
Il duro giudizio sul suicidio espresso dalla religione monoteista più diffusa in Occidente e le sue motivazioni non sono stati condivisi molto spesso dagli intellettuali europei moderni, i quali talora hanno elaborato sistemi “filosofici” e comportamentali diversi e alternativi a quello cristiano. Si vedano i giudizi sul suicidio di Leopardi e Schopenhauer, pur nelle posizioni opposte, talora hanno affrontato il tema in modo “divertito” e provocatorio (Rigaut). Leopardi pur giudicando irrazionale il rassegnarsi alla vita e ragionevole il suicidio, inteso come liberazione della sofferenza, tuttavia ritiene che l’uccidersi sia atto inumano, poiché non tiene conto del dolore altrui. Il suicidio è un atto d’egoismo, poiché il suicida cerca solo la propria utilità, disprezzando l’intero genere umano ed agisce come un disertore, che abbandona i compagni impegnati in una lotta impari contro la natura nemica. A differenza di Leopardi, secondo Schopenhauer l’obiettivo per liberarsi dal dolore dell’esistenza è superare la volontà di vivere, ma non attraverso il suicidio, il quale non è una soluzione ma una delle massime manifestazioni della volontà di vivere. Schopenhauer sostiene che proprio perché si ama troppo la vita e non la si vuole vivere in una condizione sgradevole ci si libera con il suicidio. Il tema del suicidio è stato poi affrontato in modo provocatorio da Jacques Rigaut, scrittore per nausea: lascia scritti disordinati, in parte leggendari e in parte ottimi per creare una leggenda. Pubblicati su riviste oppure scarabocchiati su carta d’hotel, ritagli, block notes. Però, all’alba del 5 Novembre 1929, lui che si considerava il principe degli inconcludenti, porta a compimento il progetto a cui pensava da quando aveva cominciato a pensare. Si chiude in camera, riordina le proprie cose, si stende sul letto indossando cravatta e completo impeccabili, si spara una revolverata al cuore. A tenerlo in vita fino alla trentina furono la noia e il disgusto: “ Certo che ho pensato ad ammazzarmi. Ma lo farei con la stessa scarsa convinzione con cui vivo!”.
“Il solo modo che abbiamo per testimoniare il nostro disdegno per la vita è accettarla.
La vita non vale abbastanza perché ci si affanni a lasciarla!” (Jacques Rigaut)
“Il solo modo che abbiamo per testimoniare il nostro disdegno per la vita è accettarla.
La vita non vale abbastanza perché ci si affanni a lasciarla!” (Jacques Rigaut)
Inglese: suicidio
moderno-> Virginia
Woolf, Mrs. Dalloway Greco: Plutarco, Vite
parallele (dalla Vita
di Antonio, la morte
Italiano: Leopardi di Cleopatra).
Arte: Il dadaismo,
Jacques Rigaut “Agenzia
generale del suicidio”.
Suicidio stoico: Suicidio classico:
“Il dialogo di Plotino e Porfirio” “Ultimo canto di Saffo”
Latino: suicidio classico ->
Orazio, Odi 1,39 “Nunc
est bibendum”.
Filosofia: Arthur Suicidio stoico -> Tacito,
Schopenhauer,”Il mondo Annales (exitus Petronio,
come volontà e Lucano e Seneca).
rappresentazione”
(opposizione al suicidio). Introduzione: Il Suicidio.
Il suicidio è un'azione che implica un rapporto profondo se pur conflittuale con la vita. Riflettere
sul significato della morte e quindi affrontarla volontariamente, infatti, è una scelta estrema che
è stata interpretata diversamente nei secoli e nei differenti contesti sociali e culturali: il
suicidio è stato visto ora come il disperato superamento del terrore per il nulla oltre l’esistenza,
pur di liberarsi della vita, ora come il desiderio di una possibile rinascita in un contesto migliore.
Secondo quest’ultima lettura, il suicida fa proprio il desiderio di non-esistenza come momento
catartico e di riaffermazione del proprio sè: quest’ atto viene ritenuto l’unica via di liberazione;
non esisterebbe dunque l'equazione suicidio = desiderio di morte perché il suicida rifiuta di vivere
la sua vita, ma desidera viverne una diversa. Se valutiamo il suicidio relativamente
all'autodistruzione, uccidersi è senz'ombra di dubbio un gesto disperato e irrazionale: è l’azione
di chi non ha ormai più nulla da perdere, se non il proprio corpo, ritenuto ormai ingombrante. Se
invece consideriamo il suicidio come riaffermazione del proprio sè, allora ci troviamo davanti al
tentativo angoscioso di sopravvivere in modo diverso. Un atteggiamento di comprensione secondo il
quale il suicidio è visto come unica via di liberazione, si può trovare nel pensiero stoico ellenistico
ereditato a Roma in età imperiale. Il suicidio era ritenuto dagli stoici un atto di coraggio e non di
viltà: la saggezza stoica non implica necessariamente il suicidio, ma afferma la libertà
dell’individuo che è giudice del proprio “vivere o morire” seguendo la ragione. Non è l’atto
esteriore del suicidio a essere celebrato,ma una certa libertà interiore che lo permette e lo
impone in determinate circostanze.
Se almeno una parte del pensiero filosofico antico supporta la pratica del suicidio ritenendolo
dunque un nobile atto finalizzato ad una nobile causa, quella della libertà dalle costrizioni terrene,
con la diffusione del Cristianesimo la valutazione di quest’atto autodistruttivo muta
necessariamente: la Chiesa lo considera peccato mortale e non ammette in nessun caso che esso
sia giustificato; il suicidio è proibito dall’autorità divina. Per comprendere perché il cristianesimo
imitatio Christi
si opponga al suicidio, bisogna ricordare che la Chiesa persegue l’ per sé e per
tutti i suoi membri. Tale tentativo implica una trasformazione radicale dell’atteggiamento umano
naturale: per natura l’essere umano ha orrore della sofferenza e cerca la felicità, dunque secondo
la dottrina se l’uomo si uccide è quasi sempre per sfuggire alla sofferenza nel tentativo di
acquisire un benessere fisico e psichico altrimenti sconosciuto. E su questo si concentra la sfida
apparentemente paradossale del Cristianesimo: vivere ed accettare serenamente di soffrire. Se la
felicità immanente fosse il senso della vita terrena, l’accettazione del dolore non avrebbe senso.
Ma tutto cambia se la vita è a ritenersi una purificazione, se è il cammino verso una meta più
grande, e se il suo senso si manifesta proprio nella sofferenza e si realizza attraverso di essa.
La felicità cristiana, a differenza di quella stoica immanente, è “altrove”.
Il duro giudizio sul suicidio espresso dalla religione monoteista più diffusa in Occidente e le sue
motivazioni non sono stati condivisi molto spesso dagli intellettuali europei moderni, i quali talora
hanno elaborato sistemi “filosofici” e comportamentali diversi e alternativi a quello cristiano. Si
vedano i giudizi sul suicidio di Leopardi e Schopenhauer, pur nelle posizioni opposte, talora hanno
affrontato il tema in modo “divertito” e provocatorio (Rigaut). Leopardi pur giudicando irrazionale
il rassegnarsi alla vita e ragionevole il suicidio, inteso come liberazione della sofferenza, tuttavia
ritiene che l’uccidersi sia atto inumano, poiché non tiene conto del dolore altrui. Il suicidio è un
atto d’egoismo, poiché il suicida cerca solo la propria utilità, disprezzando l’intero genere umano
ed agisce come un disertore, che abbandona i compagni impegnati in una lotta impari contro la
natura nemica. A differenza di Leopardi, secondo Schopenhauer l’obiettivo per liberarsi dal dolore
dell’esistenza è superare la volontà di vivere, ma non attraverso il suicidio, il quale non è una
soluzione ma una delle massime manifestazioni della volontà di vivere. Schopenhauer sostiene che
proprio perché si ama troppo la vita e non la si vuole vivere in una condizione sgradevole ci si
libera con il suicidio. Il tema del suicidio è stato poi affrontato in modo provocatorio da Jacques
Rigaut, scrittore per nausea: lascia scritti disordinati, in parte leggendari e in parte ottimi per
creare una leggenda. Pubblicati su riviste oppure scarabocchiati su carta d’hotel, ritagli, block
notes. Però, all’alba del 5 Novembre 1929, lui che si considerava il principe degli inconcludenti,
porta a compimento il progetto a cui pensava da quando aveva cominciato a pensare. Si chiude in
camera, riordina le proprie cose, si stende sul letto indossando cravatta e completo impeccabili,
si spara una revolverata al cuore. A tenerlo in vita fino alla trentina furono la noia e il disgusto:
“ Certo che ho pensato ad ammazzarmi. Ma lo farei con la stessa scarsa convinzione con cui
vivo!”. Leopardi ed il suicidio “Dialogo di Plotino e Porfirio”
Leopardi pur giudicando irrazionale il rassegnarsi alla vita e ragionevole il suicidio, inteso come
liberazione dalla sofferenza, tuttavia ritiene che l'uccidersi sia atto inumano, poiché non tiene
conto del dolore altrui e sebbene sia proprio del sapiente non piegarsi al sentimento e non
lasciarsi vincere dalla pietà, tale forza d'animo deve essere usata per sopportare la triste
condizione umana, usarla per rinunciare alla vita ed alla compagnia delle persone care è un abuso,
non soffrire al pensiero di lasciare nel dolore le persone care è indegno del saggio. Il suicidio è
un atto d’egoismo, poiché il suicida cerca solo la propria utilità, disprezzando l'intero genere
umano (dialogo di Plotino e Porfirio) ed agisce come un disertore, che abbandona i compagni
impegnati in una lotta impari contro la natura nemica (La ginestra).
Il problema della legittimità del suicidio, tormenta Leopardi fin dalla crisi esistenziale del 1819,
ed ancora nel 1824 (Ultimo canto di Saffo), egli sostiene la tesi della legittimità del suicidio, ma
già in quello stesso anno si notano nel poeta le prime affermazioni sul dovere di subire il destino
con animo forte, trovando conforto nella bellezza delle creazioni dello spirito umano. Infine nel
1827, Leopardi scrive il dialogo di Plotino e Porfirio. Nel dialogo, Leopardi ripercorre il cammino
spirituale lungo il quale la propria concezione pessimistica della vita è giunta all’affermazione delle
ragioni più alte dell’esistenza Porfirio è il Leopardi del 1821 – 1824, mentre Plotino è il poeta più
maturo. Porfirio difende il suicidio sostenendo che, se la Natura destina gli uomini al dolore, se
tutto ciò che esiste è male, l’uomo ha diritto di sottrarvisi, scegliendo la morte volontaria, anche
se la vita, in quel momento, non è particolarmente sventurata, poiché la vita è tedio, i mali sono
vani, il dolore stesso è vano, quindi l’uomo ha il diritto di sottrarsi al male dell’esistenza. Solo la
noia, poiché nasce dalla coscienza della realtà, non è vana né ingannevole. L’evoluzione spirituale
di Leopardi lo conduce a posizioni più equilibrate (Plotino) e svincolate dalle situazioni contingenti,
infatti, l’uomo è condannato alla sofferenza, ma una legge di natura vuole che egli viva nonostante
tutto. Solamente pochi si rendono conto della realtà, tutti gli altri combattono vanamente contro
la natura. Tale lotta deve affratellare gli uomini, quindi il suicidio è una diserzione inammissibile.
Inoltre la vita è degna di essere vissuta non perché sia felice, ma perché sia spiritualmente
elevata. L’uomo deve prendere coscienza della propria vita interiore.
Leopardi ed il suicidio “Ultimo canto di Saffo”.
Canzone sull’infelicità umana e protesta contro la Natura che ha privato Saffo della bellezza: il
conflitto è tra l’infelice poetessa greca spiritualmente sensibile ma fisicamente brutta, e l’armonia
di una natura che ella può percepire ma alla quale resta estranea. Tanto la bruttezza di Saffo
quanto il suo amore infelice per un giovane di nome Faone appartengono alla leggenda; così come il
suicidio, dalla rupe di Leucade. Viene rilanciato il tema dell’insensatezza della virtù e
dall’indifferenza degli dei al destino umano, sia quello della mancanza di armonia tra la condizione
naturale e l’uomo.
All’inizio è descritta la bellezza commovente dell’alba, di cui si può godere – come degli altri
mirabili spettacoli della Natura – fintanto che non si prende coscienza della nostra condizione
miserevole di mortali. Ma anche in preda “ai disperati affetti”, alla disperazione, l’uomo può
provare piacere (“insueto gaudio”) in una sorta di comunione con la Natura, quando essa si
presenta sconvolta, agitata, distruttrice. Dopo la descrizione di una Natura furiosa e dopo una
pausa, i vv. l9-20 ripropongono in maniera lapidaria una certezza: “Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella / sei tu, rorida terra”.
A questo punto il poeta si pone di fronte a una frattura terribile: la bellezza della natura è
infinita, a me dell’infinita bellezza non è toccato nulla. È la frustrazione assoluta dell’uomo che
aspira all’infinito e scopre di essere destinato al Nulla.
È vano cercare il perché di ciò: “Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor”. Ma progressivamente
una spiegazione prende corpo (vv. 50-54): fra gli uomini regnano le “sembianze”, cioè la bellezza
come aspetto esteriore; in chi ne è privo non è apprezzata nessuna virtú, né la sapienza, né la
poesia. Questa è la sorte che Zeus (il Padre) ha dato agli uomini.
Dopo una nuova pausa, il v. 55 è lapidario come il l9: “Morremo”. Il corpo si dissolverà, sia esso
stato “ammanto disadorno” o “amene sembianze”; ma l’amore sopravviverà nell’amato, e – se è
possibile la felicità in terra (Leopardi, anche in un momento cosí drammatico, non lo esclude in
maniera categorica, anzi sembra ammetterlo e comunque desiderarlo e sperarlo) – l’amato vivrà
felice. La “dotta lira” e “il canto” possono avere la meglio sul Nulla.
Ultimo canto di Saffo
G. Leopardi, (l822) vv. 37-54:
“Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sí torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
in che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme