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Sintesi

introduzione Suicidio - Tesina



Quando non c'è speranza di salvezza in vista, non la più sottile breccia nelle mura che ci circondano,
quando non possiamo levare la mano contro il destino proprio perché è il nostro destino, c'è una sola cosa che ci resta: rivolgere quella mano contro noi stessi.

Da Gustaw Herling-Grudziński, Un mondo a parte, 1951

La mia tesina di maturità descrive il suicidio. Rivolgere la mano contro noi stessi è una sfida contro la vita, un segno della libertà di scegliere che ogni uomo dovrebbe avere. Nel momento in cui il risentimento nei confronti della vita stessa inizia a turbare l’animo degli uomini, i più disparati e profondi sentimenti di disprezzo, disinganno e rabbia verso un mondo troppo meschino per concedere piacere ad ogni persona, prendono forma e con essi l’idea del suicidio. Un gesto di codardia, di egoismo, oppure un atto estremo indotto dalla disperazione e dall’abbandono di qualsiasi speranza di risollevarsi?
Molteplici sono le risposte, ma non è possibile considerare esatta l’una o l’altra; l’atto del suicidio non può essere massificato in quanto ogni caso è isolato e provocato da diverse ragioni, per quanto simili esse possano sembrare.
Al giorno d’oggi sempre più pagine sui giornali nazionali sono dedicate a casi di suicidio dovuto alla disperazione di uomini che non riescono più a vedere un barlume di speranza né per se stessi né per le loro famiglie. Sentendo le critiche di alcune persone che sostengono che il suicidio sia solo un atto di “egoismo e codardia”, senza effettivamente conoscere lo stato d’animo di colui che ha scelto questa strada, spontaneamente è sorta tra i miei
pensieri la domanda: “ Io cosa farei al loro posto? Avrei la forza per guardare avanti a testa alta, oppure stremata e senza forze mi arrenderei anche io?” . Proprio da questa domanda nasce la mia tesina sul pensiero degli scrittori pessimisti riguardo al suicidio, a cui affianco una visione filosofica, per capire così fino a che punto la demoralizzazione e la depressione unite al desiderio di vendetta verso una vita terribilmente feroce ed ostile, possano spingere un essere umano. Analizzerò una prima riflessione di Giacomo Leopardi prendendo in considerazione la canzone
filosofica “Ultimo Canto di Saffo”, per poi accostarla all’operetta morale “Dialogo di Plotino e Porfirio”, mettendo in luce le evoluzioni del pensiero dell’autore rispetto all’opera precedente riguardo al tema dell’insoddisfazione nei confronti della vita. In contrapposizione alla percezione leopardiana, analizzerò il pensiero del filosofo Schopenhauer, che ha una visione prettamente negativa del suicidio. Infine esaminerò il romanzo di Flaubert “Madame Bovary”, una concretizzazione dell’atto.

Collegamenti


Suicidio - Tesina


Italiano- Ultimo canto di Saffo e Dialogo tra Plotino e Porfirio, Leopardi.
Filosofia - Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer.
Letteratura francese- Madame Bovary, Flaubert.
Estratto del documento

Documento 1

Ultimo canto di Saffo – Giacomo Leopardi (

maggio 1822, Canzoni filosofiche)

Placida notte, e verecondo raggio

Della cadente luna; e tu che spunti

Fra la tacita selva in su la rupe,

Nunzio del giorno; oh dilettose e care

Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,

Sembianze agli occhi miei; già non arride

Spettacol molle ai disperati affetti.

Noi l'insueto allor gaudio ravviva

Quando per l'etra liquido si volve

E per li campi trepidanti il flutto

Polveroso de' Noti, e quando il carro,

Grave carro di Giove a noi sul capo,

Tonando, il tenebroso aere divide.

Noi per le balze e le profonde valli

Natar giova tra' nembi, e noi la vasta

Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto

Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l'empia

Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni

Vile, o natura, e grave ospite addetta,

E dispregiata amante, alle vezzose

Tue forme il core e le pupille invano

Supplichevole intendo. A me non ride

L'aprico margo, e dall'eterea porta

Il mattutino albor; me non il canto

De' colorati augelli, e non de' faggi

Il murmure saluta: e dove all'ombra

Degl'inchinati salici dispiega

Candido rivo il puro seno, al mio

Lubrico piè le flessuose linfe

Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l'odorate spiagge 4

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso

Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo

Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

In che peccai bambina, allor che ignara

Di misfatto è la vita, onde poi scemo

Di giovanezza, e disfiorato, al fuso

Dell'indomita Parca si volvesse

Il ferrigno mio stame? Incaute voci

Spande il tuo labbro: i destinati eventi

Move arcano consiglio. Arcano è tutto,

Fuor che il nostro dolor. Negletta prole

Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

De' celesti si posa. Oh cure, oh speme

De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,

Alle amene sembianze eterno regno

Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,

Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco

Dispensator de' casi. E tu cui lungo

Amore indarno, e lunga fede, e vano

D'implacato desio furor mi strinse,

Vivi felice, se felice in terra

Visse nato mortal. Me non asperse

Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perìr gl'inganni e il sogno

Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

Giorno di nostra età primo s'invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra

Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva,

E l'atra notte, e la silente riva. 5

Documento 2

Dialogo di Plotino e Porfirio – Giacomo Leopardi ( Scritto tra il 1824 ed il 1832,

Operette Morali)

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e

venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto

pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse

Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da

che io mutassi paese.

Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in

quella occasione.

Porfirio, tu sai ch'io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei maravigliare se io vengo

Plotino.

osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da

questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto;

hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza

aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Come, che vuoi tu dire?

Porfirio.

Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto e stimato cattivo augurio a nominarlo.

Plotino.

Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci

portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e

intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto

momento io non poteva tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla con persona che ti

vuol tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le

ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e in

ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia

ragionevole, e di tuo utile.

Io non ti ho mai disdetto cosa che tu domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te

Porfirio.

quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo;

dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo

a ragionare sopra questa materia; benché l'animo mio ci ripugna molto, perché queste tali

deliberazioni pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti

pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io sono disposto di

fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione

non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi

sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si

assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare,

toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto

mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato

al caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia

disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte

provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le

altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e

stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote

dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è

più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell'animo,

per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di

poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza.

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Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non

è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in lei

consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.

Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso

Plotino.

considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in se stesso.

Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all'uomo non sia lecito, in

guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si

ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.

Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue

Porfirio.

fantasie. Altra cosa è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed

altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i

sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io

piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle

dottrine della vita avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato

loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità future, si

ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere (n.58). Che se io stimassi che

Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e che elle fossero sue

invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia

potenza autrice e signora dell'universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie.

Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi, per

altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga

quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità.

Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non

molto usassero il discorso dell'intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe

un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, 'aspettazione é il pensiero del

nostro fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta

da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si

veggano gl'infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da

quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli

uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun

modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a

questa condizione, che essi avranno la morte piena d'affanno, e più misera che la vita.

Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e

la sicurtà dell'animo sono escluse in perpetuo dall'ultima ora dell'uomo. Questo mancava, o

Platone, a tanta infelicità della specie umana.

Lascio che quello effetto che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini dalle violenze e dalle

ingiustizie, non ti è venuto fatto. Perocché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli

uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere: nel corso della vita,

spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno volontà non di nuocere, ma di giovare;

spaventano le persone timide, e le deboli di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità non hanno

né la natura inclinata, né sufficiente il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che

poco sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai quali in generalità si richiederebbe

altro freno che della sola legge; non ispaventano esse, né tengono dal male operare: come noi

veggiamo per gli esempi quotidianamente, e come la esperienza di tutti i secoli, da' tuoi dì per

insino a oggi, fa manifesto. Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei costumi e

delle menti, conservano nella società degli uomini la giustizia e la mansuetudine: perocché gli

animi dirozzati e rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a considerare alquanto le

cose, e ad operare alcun poco l'intendimento; quasi di necessità e quasi sempre abborriscono

dal por mano nelle persone e nel sangue dei compagni;

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sono per lo più alieni dal fare ad altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e con fatica

s'inducono a correre quei pericoli che porta seco il contravvenire alle leggi. Non fanno già

questo buono effetto le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e

spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà dei supplizi che si usino dagli

stati, così ancora quelle accrescono, in un lato la viltà dell'animo, in un altro la ferocità;

principali inimiche e pesti del consorzio umano.

Ma tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual guiderdone? Uno

stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita. A ciascheduno è

palese l'acerbità di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi premii è nascosa, ed arcana, e da

non potersi comprendere da mente d'uomo. Onde nessuna efficacia possono aver così fatti

premii di allettarci alla rettitudine e alla virtù. E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di

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