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Storia-Nazismo
Inglese-1984
1
recenti sembrano confermare la congettura innatistica secondo cui basi
universali e biologiche del linguaggio esistono radicate nell’uomo e che questi
dunque non impari a parlare per semplice esposizione. I risultati delle analisi
svolte dalla Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di
Trieste, su più di 70 neonati dai due ai cinque giorni di vita sembrano
confermare il fatto che “i bambini vengano al mondo in grado distinguere
parola da “non” parola, indipendentemente dalla lingua che poi impareranno”.
Infatti ai neonati (scelti appositamente tanto piccoli perché “non fosse neppure
possibile sospettare una qualche forma di apprendimento”) è
[1] (Ibidem) Il linguista inverosimile,
[2] Aneddoto tratto da S. Ceccato e C. Oliva 2
stata fatta indossare una “cuffia” che ha consentito, rilevando il consumo più o
meno intenso di ossigeno e dunque di attività a livello del lobo sinistro del
cervello (deputato al linguaggio), di osservare le reazioni cerebrali a
combinazioni di suoni molto frequenti all’inizio di parola e di sillaba in
tantissime lingue (come “bla”) confrontando queste reazioni con quelle ad altre
sequenze di suoni poco usuali (“lba”), notando quanto queste fossero diverse .
[3]
Un altro importante aspetto riguarda il rapporto che intercorre tra la parola e
Cratilo
l’oggetto da essa rappresentato. Nel dialogo di Platone, considerata
l’opera più antica di linguistica occidentale a noi pervenuta, la questione
assume i toni di una disquisizione teoretica; il dialogo vede fronteggiarsi due
teorie all’epoca diffuse: da un lato si schiera Ermogene e l’idea sofistica che
considera la parola alla stregua di una mera convenzione, essendo l’uomo
misura di tutte le cose. Contrariamente Cratilo espone, in termini naturalistici,
l’ipotesi secondo cui tra nome e oggetto vi è completa identità. Una posizione
intermedia è invece assunta dal saggio Socrate il quale asserisce che, sebbene
non vi sia mezzo migliore per conoscere dell’osservare le cose, tuttavia le
parole, assegnate agli oggetti da legislatori, contengono e riflettono parte
dell’essenza dell’oggetto (più o meno a seconda che il legislatore sia più o
meno intelligente e acuto) secondo il principio di somiglianza. Segue infatti una
disquisizione sui suoni delle lettere che si addicono secondo la sonorità a
rappresentare la natura di un oggetto, ma non è di questo che si vuol parlare
ora. La questione è stata in seguito ripresa da De Saussure (linguista di notoria
fama) che, definendo le parole nulla più che segni che uniscono a un concetto
un’immagine acustica, si allontana dalla tesi di Cratilo e similmente si discosta
da quella di Ermogene quando specifica che non è concepibile parlare di un
significato scisso da un significante, concludendo dunque che il collegamento
tra la lingua e gli oggetti non è naturale, ma culturalmente determinato.
Si è poi cercato di capire quale fosse stata la prima lingua parlata al cui
proposito sono stati fatti negli anni interessanti esperimenti; pare infatti che
l’imperatore egizio Psammetico (vissuto nel settimo secolo a.C.), prestando
ascolto alla testimonianza riportata da Erodoto, avesse stabilito che due
bambini fossero isolati alla nascita senza che venisse loro insegnata alcuna
parola. Così, quando i due per chiedere da mangiare pronunciarono la parola
<<bekos>> si concluse che la lingua più antica fosse il frigio (ovvero la lingua
in cui lo strano termine significava “pane”). Lo stesso esperimento fu ripetuto
in seguito, durante il Medioevo cristiano, quando si scoprì che i bambini
parlavano invece in ebraico. Tuttavia, come lo stesso autore Carlo Oliva del
Il linguista inverosimile
libro (da cui ho tratto tali curiosità) suggerisce, occorre
essere “un filino sospettosi” dal momento che in entrambi i casi sembrano
entrare in gioco dei conflitti d’interesse; probabilmente Psammetico nutriva
speciali interessi per la Frigia, mentre sicuramente l’ebraico ha un riscontro
biblico non indifferente.
[3] Corriere online, 30 Aprile 2014, Daniela Natali, Le «proto-parole» condivise dai neonati di
tutto il mondo 2
[3] Corriere online, 30 Aprile 2014, Daniela Natali, Le «proto-parole» condivise dai neonati di
tutto il mondo
POTERE EVOCATIVO DELLE PAROLE
È bene, in tale sede, distinguere le parole dai termini, delineandone le
differenze generali. Utilizzati spesso come sinonimi hanno tuttavia accezioni
molto diverse tra loro; mentre le prime hanno carattere altamente evocativo, i
secondi sono oggettivi e assai specifici. Per tali motivi, questi ultimi, sebbene
necessari in determinati ambienti come, per esempio, quello lavorativo o della
ricerca scientifica, ostacolano tuttavia il pensiero, obbligandolo a seguire
determinati e già esplorati sentieri sboccanti in un’immagine precisa; la stessa
immagine cui il parlante fa riferimento. È quindi la parola condizione sufficiente
per la libertà intellettuale di un paese e di una stessa persona ed è perciò
molto importante a tal fine (ovviamente se il fine di un paese è quello di
governare su uomini liberi) limitare il più possibile la specificità della lingua e il
problema dell’analfabetismo e del crescente analfabetismo di ritorno (che
indica cioè l’insieme di alfabetizzati che “regredisce perdendo la capacità di
utilizzare il linguaggio scritto per formulare e comprendere messaggi”) che
unito all’analfabetismo funzionale, “ossia all’incapacità a usare in modo
efficace le competenze di base” tocca oggi il picco del 47% nel nostro Paese.
[4]
Occorre tuttavia, nell’utilizzare le parole, non solo avere buone conoscenze
della lingua, ma si deve anche possedere una certa consapevolezza e
responsabilità; infatti non è da sottovalutare la possibilità di incorrere in
ambiguità e incomprensioni riassunte da Pirandello nella frase tratta dal
Uno, nessuno, centomila:
romanzo “Ma come? Che avete inteso? Non mi
avevate detto così e così? Così e così, perfettamente. Ma il guajo è che voi,
caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me
quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la
stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per
sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele;
e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo
creduto di intenderci; non ci siamo intesi affatto.”
Per un ulteriore chiarimento a proposito delle differenze che intercorrono tra
termini e parole possono tornare utili le riflessioni annotate da Leopardi nello
Zibaldone di pensieri: “Le parole come osserva il Beccaria (Trattato dello stile)
non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando
meno [110] immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l'aver di
queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel
tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la
cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è
adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più
abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle
parole, perché l'abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacché
sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se
quella dà efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità.
[…] Perché la forza e l'evidenza consiste nel destar l'immagine dell'oggetto, e
non mica nel definirlo dialetticamente […]”.
[4] http://www.treccani.it/
A questo punto appare limpido il carattere equivoco (dall’espressione latina
aeque vocare = richiamare nello stesso modo) della lingua, di cui un’ulteriore
delucidazione: “Prendiamo un dizionario inglese-italiano. Alla lettera b
scopriamo per esempio che il verbo to bucket ha le seguenti accezioni: “portar
acqua in secchi”, “cavalcare sfrenatamente”, “remare con ritmo affrettato”,
“fare affari clandestini”, “ingannare”. […] Se facciamo la controprova, ecco le
parole italiane frantumarsi ciascuna in tante parole straniere […]. E se, scaltriti
da queste esperienze di confronto, torniamo a
Guida all’uso delle parole
[5] Tullio De Mauro, 4
consultare un buon dizionario monolingue italiano, ci accorgiamo che ogni
parola italiana è carica di accezioni .”
[5]
Non sarà allora difficile capire perché i regimi totalitari combatterono e
combattono assiduamente contro la libertà di parola, imponendo alla stampa
dei testi cui uniformarsi consentendo al più di abbellirli con qualche aggiunta,
cercando di istituire un proprio linguaggio (perlopiù ricco di sigle) e stilando
indici su indici di libri proibiti. Comportamento portato agli estremi da George
1984
Orwell nel romanzo non senza una certa ironia e fredda impassibilità.
1984
George Orwell,
Cosa accadrebbe se il mondo si ritrovasse suddiviso in tre Superstati (Oceania,
Eurasia ed Estasia) in perenne guerra tra loro? E in un’Oceania governata da un
monarca onnisciente e onnipresente quale il Grande Fratello, come si sarebbe
modificata la lingua? George Orwell ci narra con una trovata ingegnosa e
cinicamente verosimile di come verrebbe completamente stravolta.
Viene infatti stabilita una nuova grammatica e il lessico, ridotto allo stremo
proprio per limitare le capacità speculative, viene suddiviso in tre categorie: il
lessico A, il lessico B e il lessico C. In breve: il lessico A comprendeva le parole
utili alla vita di tutti i giorni gran parte delle quali facevano parte del linguaggio
passato (ovvero della cosiddetta Archelingua); tuttavia era diminuito alquanto il
numero delle parole così come ognuna di esse era stata privata di ogni
sfumatura di senso. Facendo un esempio, da buono derivava il contrario
“sbuono” che andava a sostituire il termine “cattivo”, indicando precisamente il
suo opposto senza alcuna sottigliezza o peculiarità linguistica. A seguire
“arcibuono” (superlativo positivo), “antibuono” (superlativo negativo), … con lo
scopo di rafforzativi. Il lessico B riuniva in sé le parole costruite appositamente
per scopi politici; parole sempre composte, derivavano dalla fusione di due o
più parole e nessuna era neutra da un punto di vista ideologico. Inoltre,
tendenzialmente costituite di poche sillabe con accenti interni equamente
distribuiti, conferivano al discorso una certa monotonia, sufficiente ad
ammazzarne qualsiasi accenno di pathos (es: camposvago = campo di lavoro
forzato o prolecibo = forme di divertimento di cui il partito usufruiva per
ammansire le masse). Infine nella terza categoria erano raggruppati i termini
scientifici e tecnici.
In questo modo, per esempio, la frase quasi blasfema: “Il Grande Fratello è
sbuono” non avrebbe potuto disporre di parole sufficienti per essere
argomentata.
Seppure la cosiddetta Neolingua non sia mai esistita, la questione era ed è
tuttavia di grande attualità. Come lo stesso autore fa infatti notare, termini
abbreviati come “Nazi”, “Gestapo”, “Comintern”, “Inprecor”, “Agitprop”,
utilizzati perlopiù istintivamente in paesi a regime autoritario, restringono la
serie di immagini associate ad una parola e alterano leggermente il suo
significato. L’autore propone quindi un esempio: La voce Internazionale
comunista […] evoca tutta una serie di immagini: fratellanza universale,
bandiere rosse, Karl Marx, la Comune di Parigi eccetera, laddove la parola
Guida all’uso delle parole
[5] Tullio De Mauro, 5
Comintern trasmette solo l’idea di un’organizzazione chiusa e di un corpo
dottrinario ben definito.
LTI, La lingua del Terzo Reich
Victor Klemperer,
Un’ampia disquisizione a proposito della lingua del Terzo Reich è tratta dal libro
LTI, La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer, laddove LTI non è altro che
“Lingua Tertii Imperi” in sigla. In tale opera di carattere autobiografico è
raccolta l’esperienza della distruzione e dell’impoverimento della lingua