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Psicologia: David Kipnis
Latino: Seneca
Diritto: La separazione dei poteri
L’IMPERIALISMO COME MANIFESTAZIONE DI POTENZA
L’imperialismo si afferma nel periodo compreso tra la nascita del Reich tedesco (1871) e lo
scoppio della prima guerra mondiale (1914) e viene definito come la corsa di tutte le
principali potenze alla conquista di un impero, cioè di territori sui quali esercitare una
qualche forma di dominio.
Le cause
Diverse sono le teorie sulle cause che portarono all’Imperialismo, le numerose tesi
produssero, e tutt’oggi producono, un vasto dibattito.
J.A. Hobson. La prima significativa indagine sulle ragioni che hanno spinto le grandi
potenze a spartirsi l’interno pianeta venne proposta nel 1902 da J.A. Hobson. Il
concetto fondamentale che animava i suoi scritti era quello secondo cui il fenomeno
aveva prevalentemente radici economiche. Egli riprese le osservazioni di Malthus e
Marx sulle crisi di sovrapproduzione che investivano il sistema produttivo
capitalistico e osservò che l’imperialismo consisteva fondamentalmente nella ricerca
di nuovi sbocchi per i manufatti che non era più possibile vendere sul mercato
interno, e di nuovi campi di impiego per i capitali in eccesso.
“La sovrapproduzione (…) e il sovrappiù di capitale che non poteva trovare un
investimento profittevole all’interno del paese, forzarono la Gran Bretagna, la
Germania, l’Olanda e la Francia a collocare le loro risorse economiche al di fuori
dell’area del loro attuale dominio politico e perciò spinsero ad intraprendere una
politica di espansione per conquistare nuove aree.”
(J.A. Hobson, L’imperialismo, trad. di L.Meldolesi e N.Stame, Newton & Compton,
Roma 1996)
V.I. Lenin. Egli riprese l’idea secondo cui l’imperialismo era provocato
principalmente da ragioni di tipo economico. Proponeva un’interpretazione marxista
dell’imperialismo, collegandolo al modo di produzione economica del capitalismo.
A suo dire, la sempre maggiore concentrazione di capitali produceva necessariamente
la colonizzazione del mondo da parte delle potenze industriali allo scopo di
accaparrarsi nuovi mercati, ma soprattutto di esportare il capitale eccedente.
“(…)L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui
si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di
capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo
tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie
terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.”
(V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, 1974)
Gli studiosi socialisti ritenevano che l’imperialismo avrebbe proseguito la sua corsa
inarrestabile fino al momento in cui l’ultima regione del globo fosse risultata conquistabile,
esso sarebbe continuato persino dopo che la spartizione del mondo fra le potenze fosse stata
completata, in quanto i grandi stati industrializzati avrebbero allora iniziato a sbranarsi fra
loro, per strapparsi a vicenda i rispettivi imperi.
L’esplosione della prima guerra mondiale è sembrata la conferma empirica
dell’interpretazione marxista; in realtà la lettura comunista e socialista appariva incompleta
per almeno due aspetti. Innanzitutto non rendeva chiaro il motivo per cui le grandi potenze
decisero di conquistare territori non proficui economicamente e perché si posero l’obiettivo
di amministrare direttamente queste terre. In secondo luogo finiva per considerare gli stati e
i governi totalmente succubi dei grandi industriali e dei banchieri quando invece i finanzieri
non erano così particolarmente interessati ad espandere i loro capitali al di fuori dei propri
Paesi, come dimostra un attento esame del fenomeno dell’investimento dei capitali
all’estero. Lo studio mostra che solo una
minima quantità di denaro venne
indirizzata verso i nuovi territori
acquisiti. La Francia ne è
l’esempio più esemplificativo: i
finanzieri francesi investirono solo
il 9% dei propri capitali verso le
colonie, mentre una notevole
quantità di denaro venne impiegato
in Russia, impegnata a far
decollare le proprie industrie.
Similmente gli Stati Uniti
impiegarono appena il 4% dei
capitali all’estero verso le Filippine
e Portorico.
Entrambi i quesiti possono essere compresi se si prendono come principali soggetti di
decisione autonoma i governi (e non gli industriali) che furono senz’altro influenzati da
pressioni economiche, ma agirono in primo luogo seguendo una strategia di potenza, col
fine ultimo di mostrare agli altri stati la propria forza e le proprie capacità belliche.
Conquistare nuovi territori significava innanzi tutto fornire una manifestazione di potenza.
Le conseguenze
La maggior parte delle conquiste coloniali furono caratterizzate dall’uso indiscriminato
della forza contro le popolazioni indigene e le rivolte che ne derivarono vennero interrotte
con violente repressioni da parte dei colonialisti. Essi agivano in nome della cosiddetta
“missione civilizzatrice” che obbligava l’uomo europeo a portare la civiltà alle popolazioni
dei territori che sottomettevano, considerate “primitive”. I mezzi utilizzati a tale scopo non
erano però altrettanto nobili: lo sfruttamento divenne sempre più selvaggio, nacquero forze
armate che obbligavano gli indigeni a svolgere determinati compiti e venne istituito il
sistema degli ostaggi. Ne consegue che le abitudini e lo stile di vita dei popoli nativi cambiò
drasticamente, sostituito con la violenza dalle usanze europee.
DAVID KIPNIS E GLI EFFETTI NEGATIVI DEL POTERE
Gli esperimenti di Milgram e di Zimbardo
Negli anni ’60 e ’70 Stanley Milgram compie una serie di esperimenti all’università di Yale.
Divide in due gruppi i soggetti sperimentali: nel primo appaiono tre soggetti, il maestro
(ovvero il soggetto sperimentale), l’allievo (complice dello sperimentatore) e lo
sperimentatore; nel secondo solo il maestro e l’allievo.
L’allievo deve imparare a memoria una lista di parole mentre il maestro deve interrogarlo e
punirlo con scosse elettriche ad ogni sbaglio. Le scosse vanno dai 15 ai 450 volts e
provocano da uno shock leggero fino a uno estremamente pericoloso. Ad ogni sbaglio
dell’allievo il soggetto sperimentale infligge una scossa sempre maggiore e ogni volta che si
sente incerto a continuare, lo sperimentatore lo esorta a proseguire la procedura con
decisione e autorevolezza.
I risultati ottenuti mostrano che coloro che venivano influenzati dal potere dell’autorità
infliggevano una quantità di volt maggiore sugli allievi rispetto a coloro che erano liberi di
decidere, e che guidati dalle regole morali non superarono i 150 volts (rispetto ai 368 volts
dell’altro gruppo). Nel 1973 Philip Zimbardo con l’aiuto dei suoi
collaboratori realizzò un noto esperimento in cui
trasformò il dipartimento di psicologia della
Stanford University in una prigione simulata. I
soggetti in esame, studenti universitari volontari,
vennero divisi in due gruppi: guardie e prigionieri.
Nel giro di pochi giorni si ebbero già devastanti
risultati: il comportamento dei prigionieri divenne
sempre più passivo, sfociando in depressione,
pianto e manifestazioni psicosomatiche;
all’opposto i secondini divennero brutali e
offensivi, assunsero un atteggiamento
intransigente e crudele verso i carcerati e, messi nella condizione di usare qualunque mezzo
per mantenere l’ordine, utilizzarono l’abuso e un atteggiamento ingiurioso e privo di
qualsiasi forma di solidarietà verso i prigionieri, anche quando questi ubbidivano.
Zimbardo fu quindi costretto a interrompere l’esperimento per motivi di sicurezza dopo soli
sei giorni dall’inizio, sebbene questo sarebbe dovuto durare due settimane.
La spiegazione: DAVID KIPNIS (1924-1999)
D.Kipnis, professore americano di psicologia al “Temple University”, fornisce importanti
interpretazioni ai risultati ottenuti dall’esperimento di Zimbardo, focalizzandosi sugli aspetti
negativi che comporta il potere (in questo caso, il potere detenuto dalle guardie sui
carcerati).
Nell’opera “The Powerholders” (1976) mostra in particolar modo come il potere corrompa
moralmente e psicologicamente attraverso numerosi esperimenti. Egli parte dal presupposto
che l’autonomia è considerata una delle caratteristiche più importanti e tipiche dell’essere
umano. Quando un capo esercita potere sulle persone, si ha l’impressione che queste non
sappiano controllare il proprio comportamento, di conseguenza sono visti come meno degni,
non meritevoli di rispetto e quindi facilmente sfruttabili. Al riguardo organizzò un eloquente
esperimento in cui un capo sorvegliava il lavoro dei subordinati, i quali dovevano svolgere
gli stessi compiti. I risultati, seppure frutto di una situazione artificiosa, furono chiari: i
soggetti che erano auto-motivati venivano valutati più positivamente rispetto a coloro che
avevano svolto il lavoro unicamente sotto comando.
Egli scopre anche che quando un individuo si trova in una situazione di potere rispetto agli
altri avvengono in esso delle trasformazioni nel modo di pensare e nella propria morale: il
capo si sentirà sempre più importante e sicuro di sé via via che il potere aumenta, di
conseguenza cresce anche il senso della propria importanza, al punto che egli può giungere
all’esaltazione e cominciare a considerarsi al di sopra dei tradizionali valori morali, libero
quindi di compiere qualsiasi azione, anche se questa comporta danni agli altri. E’ evidente
che a questo punto la distanza sociale tra chi detiene il potere e il sottomesso andrà
ulteriormente crescendo, perché il primo non considera più il secondo come suo simile, e
una qualsiasi relazione tra i due tende quindi a scomparire.
In “Technology and Power” (1990) Kipnis analizza il comportamento di coloro che
utilizzano la tecnologia e mostra come il potere sia in rapporto con essa, modificando in
negativo le relazioni sociali. Per esempio egli constata che in uno studio medico,
nell’intraprendere una terapia lo psicoterapeuta fa uso di mezzi tecnologici anche se essi
comportano l’utilizzo di modi duri e crudeli per ridurre i disagi mentali (basti pensare
all’uso dell’elettroshock nei manicomi), il dottore è infatti insofferente del disagio del
paziente. Secondo Kipnis, questo è dovuto al fatto che colui che detiene il potere non riesce
a distinguere chiaramente tra l’azione dello strumento tecnologico e la sua stessa azione.
Il rapporto medico-paziente
Tutte queste considerazioni sono riscontrabili nel rapporto che si instaura tra medico e
paziente, un legame asimmetrico in cui il paziente diventa la parte più vulnerabile che
dipende completamente dalla competenza e dal potere del medico a cui delega la cura della
propria malattia e della propria situazione psicofisica. Esso infatti, forte della competenza
tecnica e medica, si trova in una posizione di superiorità che gli permette di agire (o non)
per il bene di una persona senza che sia necessario chiedere il suo assenso (la cosiddetta
“condotta paternalistica”), in quanto il paziente non possiede la conoscenza tecnica
necessaria come nemmeno la giusta prospettiva morale. Quanto detto può portare a
conseguenze devastanti se pensiamo ai casi in cui l’elettroshock o la lobotomia sono
considerati mezzi efficaci perché supportati dalla convinzione che la medicina debba
compiere il suo compito al di là di qualsiasi sacrificio umano. E’ il potere della medicina e
della tecnica che si manifesta. A proposito sembra paradossale pensare che Moniz si
“meritò” il Premio Nobel per la medicina nel 1949 per questa tecnica.
SENECA: IL RAPPORTO COL POTERE
Gli intellettuali latini grazie alle loro qualità oratorie e agli studi svolti erano frequentemente
in rapporto con gli imperatori e spesso raggiungevano brillanti carriere presso di essi.
La figura più emblematica al riguardo è Lucio Anneo Seneca che nel corso della vita è stato
più volte vittima dei potenti, ma è riuscito a non essere contagiato dalla loro tirannia e
crudeltà, forte dei propri principi e valori derivanti dalla dottrina stoica.