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TEDESCO= La notte dei cristalli
INGLESE= Joyce, The Finnegan's wake
ARTE= Van Gogh, la notte stellata
Film 'buongiorno notte' su Moro
La notte...un argomento che mi ha particolarmente colpito, sul quale si può dire molto, specialmente perché a secondo di come viene interpretata assume molteplici significati.
La notte, scientificamente, è quel lasso di tempo che va dal tramonto del Sole, al sopraggiungere della nuova alba.
Per me è qualcosa di più, è il tempo dell’oscurità e del mistero.
La notte è spesso paura, arte e infinito.
L’uomo guarda spesso la notte con atteggiamento di sostanziale timore: oltre che nera o scura, la notte, percepita come divinità, è immortale.
La notte, però, è anche il momento del sonno, visto positivamente come ristoratore in quanto ritempra l’uomo affaticato e ne placa almeno momentaneamente gli affanni nonostante il sonno è anche quanto di più simile vi sia alla morte.
In altri contesti la notte è spesso vista nei suoi aspetti positivi, come momento di sospensione, e, poiché la vita dell’uomo è infelice, e il male prevale comunque, corrisponde ad un momento di pausa tra il male di un oggi ormai trascorso e il male di un domani imperscrutabile. Può capitare di dovere prendere decisioni o di agire nella notte; ma la veglia notturna è un fatto innaturale, perché prolunga le angosce e i tormenti dal giorno al periodo che dovrebbe essere dedicato al riposo.
O ancora le descrizioni del notturno sono rappresentate in modo tale da contrapporre alla generale quiete della natura il tormento (in genere una pena interiore) di un singolo da una spiccata sensibilità esplorandone i suoi sentimenti profondi.
…il poetico in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano,
nell’indefinito, nel vago…le parole notte, notturno ecc. le descrizioni della notte
ecc. sono poeticissime, poiché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne
concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di
quanto ella contiene. Così oscurità profondo ecc.» e ancora dopo aver analizzato il
suono e i suoi effetti riguardo all’idea di infinito dice: «…udendo tali canti o suoni
per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito
né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue
concomitanze…vedi in questo proposito Virgilio, Eneide VII v. 8 e segg. La notte o
l’immagine della notte è la più propria ad aiutare o anche a cagionare detti effetti
del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata.
(Zibaldone, 1929-30, 16 ottobre 1821)
In un altro passo dello Zibaldone viene ripresa la valenza emotiva del canto udito
di notte da lontano; il silenzio notturno emerge per contrasto col canto e proprio il
canto che attraversa il silenzio della notte suscita nell’animo del poeta il moto del
ricordo che fa affiorare il passato e scatena l’effetto poetico:
Dolor mio nel sentir a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto
notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente,
ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora
passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della
notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto
villanesco. (Zibaldone, 50-51)
32
Leopardi “ Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
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Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
32
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
32
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.
Il Canto Notturno è un momento chiave per capire lo sviluppo del pensiero e della
poesia leopardiana. Leopardi è spinto a considerare , utilizzando la figura di un
pastore errante, la costitutiva infelicità dell'intero genere umano e anzi di tutti gli
esseri viventi. Nel paesaggio asiatico , desolato e stepposo , sovrastato dalla
misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul perché delle
cose e sul senso del destino umano. Ma le sue domande non trovano risposta, e il
silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva, cioè che la ragione è
insufficiente a comprendere il mistero delle cose e dell'esistenza universale.
Scegliendo una figura umile come
protagonista della lirica, Leopardi vuole
dimostrare come tutti, ricchi o poveri,
intellettuali o analfabeti, si pongono le
stesse domande senza risposta sul
significato della vita e sull'esistenza del
male ; anzi, sulle labbra di un semplice
pastore questi interrogativi acquistano
una forza particolare, primordiale e
assoluta, che esprime la "radice" comune
della condizione umana.Il pastore
assimila la propria vita(vv.21-38) alla
corsa affannosa di un vecchio infermo
verso la morte.
Giacomo Leopardi (1798 – 1837) 32
L'immagine del vecchierello risale al Petrarca , ma lui utilizza le sue fonti
mutandone o rovesciandone il significato originario : in Petrarca il vecchio compie
un pio pellegrinaggio a Roma .Il pastore immagina(vv.61-78) che la luna ,
contemplando dal cielo lo spettacolo della vita terrena , possa vedere ciò che al
pastore appare misterioso ; la luna , infatti , dovrebbe essere in qualche modo
consapevole di ciò che l'uomo ignora. La bellezza della primavera e del cielo stellato
devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo
indifferente. Ma lo sconforto emerge nell'ammissione finale, in cui i dubbi
fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile : a me la vita è male .
Il pastore (vv.105.132) si rivolge anche alla sua greggia, che invidia in quanto
essa , a differenza dell'uomo , sente la vita solo istante per istante , dimentica
subito ogni stento e così non soffre "la noia". La noia per Leopardi è
manifestamente un male , l'annoiarsi in una felicità. Dunque la vita è
semplicemente un male e , quando l'uomo sente in generale l'infelicità nativa
dell'uomo , vuol dire che avverte la noia. Infine nella mente del pastore (vv.133-
143) balena una possibile felicità in una condizione di vita diversa , quella degli
uccelli, molto diversa dalla sua ; ma subito a questa immaginazione succede l'idea
che in qualsiasi forma o stato la vita è un male.
Il Canto Notturno si distingue dagli altri " grandi idilli" : viene meno la poesia
della "rimembranza" e il paesaggio non è più quello familiare di Recanati ,ma un
paesaggio remoto ed astratto , solo la luna e i deserti. La quarta strofa è ricca di
moduli caratteristici del linguaggio dell'infinito, dal lessico alla sintassi e alla
metrica : v.61 solinga, eterna peregrina ; v.72 tacito , infinito andar del tempo ;
v.87 l'aria infinita ,e quel profondo infinito seren ; v.88 questa solitudine
immensa. Questo moduli suggeriscono il senso di un "infinito" , in cui sembra
dolce naufragare , anche se soggetto a quella legge di patimento e di morte dalla
quale gli uomini sono oppressi.
L'andamento del canto sembra voler riprodurre quello di una litania religiosa o di
una antichissima nenia. Tra gli elementi che creano tale impressione si pone la
sintassi volutamente semplice, che solo in due passi tesi verso una conclusione
fortemente negativa colloca il verbo in fondo al periodo. La trama è inoltre fitta di
ripetizioni. 32
Pascoli “ Il gelsomino notturno ”
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
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Le atmosfere notturne sono decisamente privilegiate dalla sensibilità poetica di
Giovanni Pascoli, in quanto racchiudono le voci ed i segni più misteriosi della
natura. La notte racchiude nel suo seno e rende evidente l'altrimenti impercettibile
presenza di piccoli esseri, di suoni, di fragranze, di fremiti indefinibili, che
divengono per il poeta altrettanti echi simbolici - attraenti ed inquietanti allo
stesso tempo - capaci di creare tensione emotiva e significatività al messaggio
poetico pascoliano.
L'incombere opprimente e suadente della memoria dei propri cari defunti, si
moltiplica in mille forme imprevedibili nelle turbate atmosfere notturne.
“Il gelsomino notturno”
La poesia fu composta da G. Pascoli, dopo lunga
Raffaele
gestazione e tormentata vicenda di varianti, per le nozze dell’amico
Briganti. In essa è adombrato il tema dell’unione dei due sposi e del conseguente
germogliare di una nuova vita dalla loro unione.
I Gelsomini notturni, detti anche “le belle di notte”, aprono i loro fiori al calar
della sera quando il poeta rivolge il pensiero ai suoi morti. Anche le farfalle del
crepuscolo iniziano il loro volo nelle ore della notte tra i viburni, altrimenti detti
“palloni di neve”, perché fiori bianchi di forma sferica.
Tutto tace: insieme alla notte è calato il
silenzio: solo in una casa ancora si
veglia: i rumori sommessi, che ne
provengono, non turbano la pace
notturna, paiono un bisbiglio di voci.
Nel nido i piccoli dormono sotto le ali
della madre.
Dai calici aperti dei fiori di gelsomino
esala un profumo che fa pensare
all’odore di fragole rosse. Mentre nella
casa palpita ancora la vita e una luce
splende nella sala, l’erba cresce sulle