Sintesi
La notte è esistenza intera;il giorno non è sufficiente.

Da secoli la notte è stato il momento in cui ogni individuo raggiungeva il proprio alter ego. Durante questo intervallo di tempo siamo soli col nostro inconscio fino a che ogni cosa sembra fondersi in una specie di unità mistica con il tutto.
ITALIANO
Nella poesia leopardiana vediamo che la notte diventa una protagonista di tanta ispirazione del poeta, il quale nella notte sente ancor di più la sua solitudine, al tempo stesso che dalla notte riceve la consolazione al suo dolore esistenziale, alle frustrazioni di una vita che seppe portare avanti con fermezza fino alla fine. Non è certo un caso che spesso gli Idilli abbiano come sfondo la notte. Un idillio che reca con sé il senso della fugacità, del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza e il tema della rimembranza, ossia la capacità di rinvenire nelle contemplazioni attuali gli stupori, gli incanti e le malinconie degli anni passati.
L’immagine della notte stellata non soltanto apre un panorama sconfinato nel quale si leva il canto del poeta, ma introduce anche un tema caratteristico della poesia leopardiana, quello del dialogo che il poeta intreccia con gli astri notturni, ai quali proposito del suo dialogo illusorio con le stelle. La notte è serena ma ricorda al poeta i suoi sogni, le sue illusioni perdute. Il tema del dialogo con la luna e con le stelle viene ripreso nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in cui Leopardi descrive, attraverso le parole del pastore, uno scenario notturno di infinita e sterminata vastità: è proprio nella notte che il pastore-poeta rivolge alla luna quelle domande destinate a non avere risposte e che anche Leopardi poneva a se stesso:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.

Alle domande che il pastore rivolge alla luna, risponde il silenzio dell’infinito ma l’astro, nel magnifico canto del pastore, diventa quasi una creatura vagheggiata con amore.

FILOSOFIA
Oltre al valore della sua produzione poetica, di Leopardi oggi viene riconosciuto un particolare rilievo al suo pensiero filosofico, che è esposto, pur in forma non sistematica, soprattutto nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Pensieri.
Egli muove da una concezione materialistica e meccanicistica della realtà, secondo la quale la natura è "matrigna" e propriamente indifferente nei confronti dell'uomo. L'universo non ha nessuna finalità e la posizione dell'uomo è marginale, non più importante di quella di qualsiasi altro essere vivente.
La vita umana è pervasa, come per Schopenhauer, dal dolore e dalla noia e ha come orizzonte finale la morte. Il pessimismo di Leopardi è tuttavia ancora più radicale di quello del filosofo tedesco, perchè non esiste nessuna possibile liberazione dalla volontà che possa costituire una meta per l'esistenza.
Dire che l’essere è volontà equivale a dire, secondo Schopenhauer, che l’essere è ‘dolore’. Volere significa desiderare, e desiderare equivale trovarsi in uno stato di mancanza da cui solo momentaneamente ci si può liberare. Una soddisfazione che plachi temporaneamente i desideri precipita l’uomo in una situazione negativa, che è quella della noia. O dolore o noia: ecco il destino dell’uomo. Il piacere è solo una cessazione momentanea del dolore , cioè uno scaricarsi di uno stato di tensione a cui succedono nuovi desideri inappagabili. Da qui il pessimismo cosmico che deriva dalla constatazione che l’essere è dolore poiché è prigionieri di un universo che è volontà.
Il piacere è uno stato negativo, inteso come venir meno al dolore, per cui il dolore è l'unica condizione reale dell'esistenza. Non il piacere, ma soltanto la speranza e l'attesa illusoria del piacere possono alleviare il disagio dell'esistenza: la speranza e l'attesa sono dunque gli unici stati d'animo positivi.
Di fronte alla mancanza di senso dell'esistenza(nichilismo), dove essa è "nulla" dal punto di vista ontologico e "male" dal punto di vista morale, la poesia e l’arte svolgono un'importante funzione consolatoria, perchè fa apparire accettabile la vita e dà energia per affrontarla: essa è espressione della facoltà immaginativa dei piaceri che non esistono, creando l'illusione che possano essere soddisfatti, assumendo una funzione catartica pur non conferendo senso all'esistenza.

"Che cosa è la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all'ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere".
(Giacomo Leopardi)
"L'esistenza umana ha certo come suo ultimo scopo il dolore: ove così non fosse, dovremmo dire che le manca la ragione d'essere al mondo. Ed invero, come ammettere che l'infinito dolore scaturente dalla miseria, di cui è intessuta la trama d'ogni vita quaggiù, non sia se non una mera accidentalità, e non piuttosto ne costituisca la finalità? Ogni singolo malanno, preso in sé, si presenta innegabilmente come fatto d'eccezione, ma in linea generale è regola la sventura".
(Arthur Schopenhauer)

C’è da ribadire però che Leopardi non dà speranze, mentre Schopenhauer sì: per quest’ultimo la compassione è un passo verso la salvezza, per il primo è un puro e semplice aiuto per meglio sopportare il dolore.

LATINO
È una notte molto diversa quella che ci appare in un passo del De ira di Seneca in cui il filosofo afferma che ogni sera egli è abituato ad interrogare se stesso, a conclusione della sua giornata sugli eventuali errori da lui commessi durante il giorno. È l’esame di coscienza che Seneca è abituato a fare ogni notte con se stesso: certamente la notte è il momento adatto della giornata per riflettere, per meditare e analizzare il proprio animo. In questo caso perciò la notte rappresenta uno sfondo sereno ma non idilliaco, non un’occasione di evasione sentimentale ma un momento di autoanalisi, quello che Seneca era abituato a svolgere quotidianamente.

Dice infatti:
Omnes sensus perducendi sunt ad firmitatem; natura patientes sunt, si animus illos desit corrumpere, qui cotidie ad rationem reddendam uocandus est. Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum: "quod hodie malum tuum sanasti? Cui uitio obstitisti? Qua parte melior es?". Desinet ira et moderatior erit quae sciet sibi cotidie ad iudicem esse ueniendum. Quicquam ergo pulchrius hac consuetudine excutiendi totum diem? Qualis ille somnus post recognitionem sui sequitur, quam tranquillus, quam altus ac liber, cum aut laudatus est animus aut admonitus et speculator sui censorque secretus cognouit de moribus suis!

Tutti i sensi devono essere ricondotti al controllo; per natura sono resistenti, se l'animo che ogni giorno deve necessariamente chiamato a fare il rendiconto, ha smesso di corromeperli. Faceva così Sesto, finita la giornata, una volta che si era ritirato per il riposo interrogava il suo animo: "Oggi, quale dei tuoi mali hai guarito? A quale vizio ti sei opposto? In quale parte ti sei migliorato?". Cesserà l'ira e sarà più moderato se saprà che ogni giorno si deve presentare davanti ad un giudice. Dunque cosa ci può essere di più bello di questa abitudine di passare in rassegna la giornata? Quale sonno viene dopo la ricognizione di sé: quanto tranquillo, quanto profondo e libero, quando l'animo o è lodato o ammonito, e come esploratore e censore segreto ha giudicato sui propri costumi. Io mi servo di questa facoltà ogni giorno, presso di me sostengo la mia causa.

GRECO
Anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio è rappresentato il tormento di una donna, Medea, che nella notte medita angosciosamente con se stessa che cosa fare del suo destino; il poeta contrappone il grande silenzio che regna in terra all’animo tormentato di Medea, incerta se aiutare con le sue facoltà di potente maga l’amato Giasone nella sua impresa, e tradire così suo padre Eeta, o venir meno all’amore che ormai domina la donna.

“Intanto la notte avvolgeva di tenebre la terra: sul mare, dalle loro navi, i marinai guardavano l’Orsa e le stelle di Orione; il viandante e il guardiano erano ormai bramosi di sonno; anche la madre che aveva perduto i suoi figli era immersa in un profondo sopore; non un latrato di cani, non il più lieve rumore si udiva per la città; il silenzio dominava le tenebre notturne. Ma Medea non fu vinta dal dolce sonno”

Medea si trasforma in un certo qual modo, all'interno dell'opera. Essa passa dall'essere una fanciulla pudica e indifesa nel III libro, piena di paure e insicurezze, ad essere innamorata e pronta a tutto nel IV libro, spietata al punto tale da uccidere il suo stesso fratello. Medea diviene da questo momento in avanti portatrice di morte.
Molto ha lavorato Apollonio Rodio, nell'intessere la psicologia della sua protagonista. La più grande introspezione dedicatale si trova nel libro III, prima sotto forma di monologo (in cui la principessa passa la notte insonne, combattuta dal desiderio di aiutare l'amato e l'obbedienza al padre), poi sotto forma di sogno (in cui le sopraggiungono tutta una serie di elementi premonitori).
La Medea di Apollonio si crea sullo sfondo del capolavoro di Euripide, un modello col quale non era possibile evitare un confronto col profilo delineato da Apollonio nelle Argonautiche. La principessa-maga ha aiutato il suo eroe con tutte le sue possibili risorse. Ha esitato a lungo, ha avuto dubbi e paure; poi, compiuta la scelta ha messo a tacere ogni voce dentro di sé.
La Medea di Euripide e quella di Apollonio hanno la medesima fattiva interpretazione ed entrambi gli autori la presentano non tanto sull’azione piuttosto evidenziano l’evolversi del dramma interiore, la riflessione del protagonista. Il poeta alessandrino mira ad attenuare l’immagine di una Medea diabolicamente violenta e sanguinaria, che apparteneva alla tradizione del mito e che Euripide aveva accentuato. La donna vive il suo dramma psicologico e trascorre ore di ansia, in preda al desiderio d’amore e al dubbio angoscioso se aiutare gli stranieri entrando in conflitto col padre.
Superata la sensazione del suicidio, vinta dalla forza dell’amore per volontà degli dei, la donna accorda all’eroe il suo aiuto. Al personaggio è stata conferita una potenza di suggestione intensa.

INGLESE
The night is darkening round me
By Emily Brontë
The night is darkening round me,
The wild winds coldly blow;
But a tyrant spell has bound me,
And I cannot, cannot go.

The giant trees are bending
Their bare boughs weighed with snow;
The storm is fast descending,
And yet I cannot go.

Clouds beyond clouds above me,
Wastes beyond wastes below;
But nothing drear can move me;
I will not, cannot go.

TRAD.
La notte mi sta rabbuiando intorno,
i venti selvaggi soffiano gelidi;
Ma un incantesimo tiranno mi ha costretta
E non posso, non posso andare.
Gli alberi giganti curvano
i loro nudi rami gravi di neve.
E il temporale sta abbattendosi rapido,
e ancora non posso andare.
Nubi oltre e nubi su di me,
deserti oltre e deserti al di sotto;
ma nessuna tristezza può spostarmi.
Non andrò, non posso andare.
‘The night round me’ is a poem in which the narrator Emily Bronte espresses a continual feeling of frustration and desperation. She is trapped in a place that is getting worse and worse, but she can not do anything or leave. The alliteration used on the certain words expresses the narrators continual feeling of isolation and darkness.
By ending the poem with \"I will not, cannot go\" she shows how she finally accepts that it is her chose whether to leave this godforsaken wasteland yet she still refuses to go. Her acceptance however is the first step towards salvation. Realisation.
"The Night is Darkening Round Me" is a Emily’s poems about a speaker who is attacked by the tyrannical nature. The atmosphere of the poem is gloomy and bleak, suggesting that the speaker is about to die. Passion and feeling are at their strongest in Emily Bronte’s work. Her novel and poems show a violent impulse to break through life’s conventions. They express a desperate need of a free world of the spirit where the limitation of mortal existence may be left behind, like her sister Charlotte. Because of this, and the transcending power of her imagination, her verse recalls the work of Shelley.

STORIA
Mi sembrava opportuno evidenziare una delle notti che resteranno eterne nella storia umana. Il 9 novembre del 1938, sancisce una data storica ancora drammaticamente ricordata ai nostri giorni. Proprio durante la notte di quel fatidico giorno, in Germania si verificò una vicenda che passò nella storia con il nome di "Notte dei cristalli". Tale denominazione deriva dalle migliaia di vetrine di negozi, abitazioni, attività e sinagoghe degli ebrei distrutte completamente dalle SS del regime nazista. Si trattò di un vero e proprio momento drammatico; uno tra gli eventi storici più tristi che vede gli ebrei ancora una volta vittime di violenze ed ingiustizie da parte dei tedeschi! Come tutti gli eventi storici di violenza estrema, anche della della Notte dei cristalli, non va certo dimenticato e questa guida ha proprio il compito di ricordare quel periodo storico che ha sconvolto gli ebrei e tutto il mondo di quell'epoca al fine di evitare che si possa ripetere.
La nascita di questa nottata di brutalità e maltrattamenti a carico degli ebrei, fu causata dalla improvvisa morte del diplomatico tedesco Ernst von Rath, avvenuta, nei giorni immediatamente precedenti alla notte dei cristalli. Un giovane profugo ebreo, venuto a conoscenza dell'espulsione dei suoi genitori dalla Germania, si volle vendicare uccidendo il diplomatico e causando una serie di amarezze e scompigli.
La morte del diplomatico secondo molti storici, fu il pretesto per accelerare la repressione e l'antisemitismo già da tempo avviati. Nella giornata del 9 Novembre 1938, Hitler e Goebbels, riuniti insieme ad altri nazisti per celebrare il fallito tentativo di colpo di stato del 1923, vennero a conoscenza dell'assassinio di von Rath e questa notizia scaturì rabbia e senso di vendetta dando vita alla decisione di mettere in atto un'azione punitiva a carico degli ebrei. Durante la notte, pertanto, non solo vennero incendiate e devastate case, botteghe e sinagoghe ebraiche ma furono compiuti anche numerosi stupri, omicidi e sevizie a carico degli ebrei. Nei pogrom di novembre 1938 furono bruciate o completamente distrutte 1.406 sinagoghe e case di preghiera ebraiche. Distrutti i cimiteri e i luoghi di aggregazione della comunità ebraica, migliaia di negozi e di case private. Circa 30 000 ebrei furono deportati nei campi di concentramento. Relativamente al campo di Dachau, nel giro di due settimane vennero internati oltre 13 000 ebrei; quasi tutti furono liberati nei mesi successivi (anche se oltre 700 persero la vita nel campo), ma solo dopo esser stati privati della maggior parte dei loro beni
Oltre alla violenza fisica e morale, la tragica notte dei cristalli, ebbe devastanti conseguenze sulla situazione generale della comunità ebraica. Da allora, si sancì, infatti, la possibilità di incidere timore è praticare violenze di qualsiasi entità sulla popolazione semita. Un ulteriore aggravante, derivò dalla seguente imposizione sulle vittime stesse, accusate di aver provocato le aggressioni tedesche, dell'obbligo di provvedere alla riparazione dei danni causati agli edifici dalle scorribande delle SS.

SCIENZE
Si pensa che la fotosintesi avvenga solo di giorno ma non è così. Essendo un processo di nutrizione e non di respirazione la fotosintesi avviene in due fasi che si succedono tra di loro in una frazione di secondo. Le piante dunque respirano sia di giorno che di notte!
Preferirei partire dalla fase oscura della fotosintesi che avviene dio notte; la fase oscura è la fase termochimica della fotosintesi in quanto ha bisogno dell’energia accumulata nella molecola di ATP e nei coenzimi ridotti NADPH+ durante la fase luminosa. Tale fase avviene nello STROMA(parte interna dei cloroplasti). Durante questa fasi si ha l’organicazione del carbonio, cioè la riduzione del glucosio (da CO2 a C6H12O6)-> IL CARBONIO DA INORGANICO DIVENTA ORGANICO. Per tale motivo la fotosintesi è un processo destinato solo agli organismo autotrofi che, a differenza degli organismo eterotrofi, riescono a sintetizzare le molecole organiche partendo da quelle inorganiche. Questo processo avviene secondo una serie di reazioni che determinano il ciclo di Calvin: esso richiede energia e usa le molecole di ATP e NADPH. Il Ciclo di Calvin ha inizio con la reazione di CO2 con uno zucchero pentoso a cui sono legati due radicali fosforici: ribosio e disfo sfato.
Dalla reazione, catalizzata da un preciso enzima che è il RUBISCO, si ottiene uno zucchero esoso inizialmente instabile e che si decompone in due molecole con ciascuna avente 3 atomi di carbonio:acido fosfoglicerico si trasorma in 3-fosfogliceraldeide, precursore di tutti i zuccheri. Per la molecola di CO2 che viene organicata occorrono 2 molecole di NADPH e 3 molecole di ATP; per il glucosio servono invece 12 molecole di NADPH e 18 molecole di ATP.

FISICA
Prima del XX secolo la luce di notte era data da lampade a olio di noci, petrolio o dalle candele di cera. L’invenzione della lampadina a incandescenza è attribuita all’americano Thomas Edison che nel 1879 riuscì a tenere accesa una lampadina, a filamento di cotone carbonizzato, per ber 45 ore e negli anni successivi fondò un’azienda per produrre lampadine in serie. Molti lavorarono allo stesso progetto, compreso il torinese Alessandro Cruto al quale però non venne riconosciuto il lavoro e una grande azienda di Torino del tempo, la Philips, ne prese i meriti. All’inizio del XX secolo il carbone fu sostituito dal tugsteno, più resistente al carbone. Il primo a utilizzare un filamento di tugsteno fu l’americano William Coolidge nel 1903. Le caratteristiche delle lampadine sono: la potenza, la quantità di luce fornita al secondo e l’efficienza(che è il rapporto tra l’energia luminosa visibile e l’energia elettrica assorbita).
Le lampadine possono essere a incandescenza o a fluorescenza. Le lampadine a incandescenza hanno una potenza minore rispetto a quelle a fluorescenza, e infatti durano di meno. La lampadina a incandescenza è composta da un bulbo di vetro, al cui interno abbiamo un filamento attaccato a una dell’estremità dei filamenti di rame. All’altra estremità abbiamo un attacco a vite, seguito da un disco isolante che lo collega al bottone conduttore. Queste lampadine hanno una bassa efficienza: solo il 5% viene trasformata in energia luminosa. Le lampadine a fluorescenza sono invece quelle che durano di più. Esse sono composte da un tubo all’interno de quale c’è un gas che contiene anche vapori del mercurio. A’l’accensione della lampadina, una scarica elettrica attraversa il tubo e gli atomi di mercurio, colpiti dagli elettroni della scarica, emettono raggi ultravioletti. Sulle pareti del tubo c’è una sostanza fluorescente che converte la radiazione in luce visibile.
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