Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Tesina - Premio maturità 2008
Titolo: Memoria e riconciliazione nella guerra civile
Autore: Fiorella Schiavo
Descrizione: "Coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo" si legge all'entrata del museo del campo di concentramento di Dachau. Non solo. Guardare in faccia le atrocità commesse o subite è la strada maestra per costruire un futuro di pace. In questi ultimi anni abbiamo visto di tutto: tribunali internazionali, corti contro i crimini di guerra, commissioni d'inchiesta, la riscrittura della storia, richieste di verità da parte delle vittime o dei parenti delle vittime rimaste inascoltate. Lo sviluppo della memoria, in termini di raccolta, diffusione, pubblicazione, non coincide necessariamente con un incremento di interesse. Eppure i processi, come del resto i lavori delle commissioni per la verità , costituiscono sempre un'occasione per risvegliare e rinnovare la sua presenza, il suo ruolo di possibile riconciliazione o di mantenimento delle divisioni nella società . Ma come è possibile che in queste occasioni si giunga a una rappresentazione distorta della storia è ancora più possibile che la memoria venga strumentalizzata, decontestualizzata, sottratta ai suoi naturali possessori e offerta manipolata ai suoi destinatari. Come è possibile che un'esperienza nazionale in cui sono avvenuti massacri di massa e violazioni ripetute dei diritti umani possa trovare una coerente narrazione che renda giustizia alla memoria delle vittime e dei carnefici, dei collaborazionisti e degli attendisti? È più facile al giudice o allo storico trovare la strada per suggerire una sorta di pacificazione della memoria o proporre un racconto condiviso, necessariamente compromesso? Si torna, dunque, al problema se sia più utile alla convivenza sociale il ricordo o l'oblio; una questione analoga a quella se debba prevalere la punizione o il perdono. Tra i Paesi che hanno scelto la seconda strada (oblio e perdono spesso sono due facce della stessa medaglia) forse solo la Spagna lo ha fatto senza eccessive polemiche e traumi particolari. In Sudamerica, invece, la questione sembra rimanere intatta in tutta la sua problematicità , come dimostra la contrastata accoglienza dell'opinione pubblica argentina alla tenace lotta delle madri di Plaza de Mayo per tenere vivo il ricordo dei desaparecidos. Memoria e narrazione non sono disgiunte dalla questione che più di ogni altra, probabilmente, riassume e intreccia tutti i problemi ricordati finora: la questione della verità . Non è un caso che la verità sia il fine di ogni processo, anche se si parla spesso, per evitare fraintendimenti, di verità "processuale" o "giudiziaria"; e non è un caso neppure che le commissioni che sono state istituite per fare i conti con un passato al tempo stesso tragico e scomodo siano state chiamate commissioni per la verità . Il problema della verità , almeno per quanto riguarda la storia, è sempre legato a quello dell'interpretazione. Ma non s'identifica o si stempera in esso. La connessione tra i fatti e il meccanismo della loro sequenza, oltre che la selezione di eventi ritenuti rilevanti, è certamente influenzato dalle ipotesi interpretative; come lo sono la ricerca e la spiegazione delle cause, dei precedenti, del contesto e il modo in cui viene presentato il racconto storico. Ma vi è un nocciolo irriducibile di verità che non appartiene all'interpretazione e che probabilmente è comune tanto alla storia che alla giustizia. La storia, come la memoria, è fortemente selettiva: ma mentre quest'ultima è soggetta a una distorsione di percezione capace di mutarne il racconto soggettivo, la prima può produrre una distorsione di senso pur mantenendo la presunzione di verità .
Materie trattate: italiano (Primo Levi), filosofia (Jean-Paul Sartre), arte (il fotogiornalismo, R.Capa, Picasso), storia (la resistenza italiana), greco (Lisia), latino (Orazio)
Area: umanistica
Fiorella Schiavo
Classe 3C
MEMORIA E RICONCILIAZIONE NELLA
GUERRA CIVILE
Introduzione
“Coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo” si legge all’entrata del museo del campo di
concentramento di Dachau. Non solo. Guardare in faccia le atrocità commesse o subite è la strada maestra per
costruire un futuro di pace. In questi ultimi anni abbiamo visto di tutto: tribunali internazionali, corti contro i
crimini di guerra, commissioni d’inchiesta, la riscrittura della storia, richieste di verità da parte delle vittime o dei
parenti delle vittime rimaste inascoltate.
Lo sviluppo della memoria, in termini di raccolta, diffusione, pubblicazione, non coincide necessariamente con un
incremento di interesse. Eppure i processi, come del resto i lavori delle commissioni per la verità, costituiscono
sempre un’occasione per risvegliare e rinnovare la sua presenza, il suo ruolo di possibile riconciliazione o di
mantenimento delle divisioni nella società. Ma come è possibile che in queste occasioni si giunga a una
rappresentazione distorta della storia è ancora più possibile che la memoria venga strumentalizzata,
decontestualizzata, sottratta ai suoi naturali possessori e offerta manipolata ai suoi destinatari.
Come è possibile che un’esperienza nazionale in cui sono avvenuti massacri di massa e violazioni ripetute dei diritti
umani possa trovare una coerente narrazione che renda giustizia alla memoria delle vittime e dei carnefici, dei
collaborazionisti e degli attendisti? È più facile al giudice o allo storico trovare la strada per suggerire una sorta di
pacificazione della memoria o proporre un racconto condiviso, necessariamente compromesso?
Si torna, dunque, al problema se sia più utile alla convivenza sociale il ricordo o l’oblio; una questione analoga a
quella se debba prevalere la punizione o il perdono. Tra i Paesi che hanno scelto la seconda strada (oblio e perdono
spesso sono due facce della stessa medaglia) forse solo la Spagna lo ha fatto senza eccessive polemiche e traumi
particolari. In Sudamerica, invece, la questione sembra rimanere intatta in tutta la sua problematicità, come
dimostra la contrastata accoglienza dell’opinione pubblica argentina alla tenace lotta delle madri di Plaza de Mayo
per tenere vivo il ricordo dei desaparecidos.
Memoria e narrazione non sono disgiunte dalla questione che più di ogni altra, probabilmente, riassume e intreccia
tutti i problemi ricordati finora: la questione della verità. Non è un caso che la verità sia il fine di ogni processo,
anche se si parla spesso, per evitare fraintendimenti, di verità “processuale” o “giudiziaria”; e non è un caso
neppure che le commissioni che sono state istituite per fare i conti con un passato al tempo stesso tragico e
scomodo siano state chiamate commissioni per la verità.
Il problema della verità, almeno per quanto riguarda la storia, è sempre legato a quello dell’interpretazione. Ma non
s’identifica o si stempera in esso. La connessione tra i fatti e il meccanismo della loro sequenza, oltre che la
selezione di eventi ritenuti rilevanti, è certamente influenzato dalle ipotesi interpretative; come lo sono la ricerca
e la spiegazione delle cause, dei precedenti, del contesto e il modo in cui viene presentato il racconto storico. Ma vi
è un nocciolo irriducibile di verità che non appartiene all’interpretazione e che probabilmente è comune tanto alla
storia che alla giustizia. La storia, come la memoria, è fortemente selettiva: ma mentre quest’ultima è soggetta a
una distorsione di percezione capace di mutarne il racconto soggettivo, la prima può produrre una distorsione di
senso pur mantenendo la presunzione di verità.
Non si può dimenticare l’oggettiva difficoltà di costruire una memoria collettiva nelle moderne società
democratiche, dove la coscienza storica svolge un ruolo certamente secondario di legittimazione politica e di
rafforzamento della convivenza sociale anche se è alla storia che rimandano le radici e le fondamenta della nascita
della democrazia e, tuttavia, resta il fatto che la ricerca storica, che ha come requisito indispensabile la possibilità
di accedere ad archivi completi e disponibili e necessita di finanziamenti appropriati, non conduce meccanicamente
alla verità e soprattutto non al tipo di verità che spesso è richiesta per costruire una memoria collettiva e
rafforzare un’identità nazionale o una solidarietà sociale.
IL TEMA DELLA MEMORIA
ITALIANO: Primo Levi, memoria e testimonianza
La memoria dell’offesa ne “I sommersi e i salvati”
Nel primo capitolo de “I sommersi e i salvati” (saggio scritto nel 1986, ultimo lavoro dell'autore), un'analisi
dell'universo concentrazionario che l'autore compie partendo dalla personale esperienza di prigioniero del campo di
sterminio nazista di Auschwitz ed allargando il confronto ad esperienze analoghe della storia recente, intitolato La
memoria dell’offesa, Levi inizia a trattare dell'argomento principale del libro: la memoria. Parte dal presupposto
che la memoria umana è fallace, condizionata da ciò che si sente successivamente e da ciò che si legge. E se per gli
oppressori la memoria può essere facilmente cancellata, è per gli oppressi che il ricordo delle torture subite non
riesce a scomparire.
La memoria dell’uomo è uno strumento bellissimo, ma che può sbagliare; infatti i ricordi, con il passare degli anni,
tendono a cancellarsi: spesso subiscono modifiche o addirittura vi si inseriscono dei particolari estranei. Più si
rievoca un ricordo, più questo rimane vivo, ma talvolta si cristallizza e così si ricorda ciò che si è rievocato e non il
fatto stesso.
Ricordare un dramma crea disagio sia alla vittima sia all’oppressore.
Di fronte alla domanda “Perché lo hai fatto?”, l’oppressore spesso mente ed è cosciente di farlo, ma il più delle
volte si costruisce una realtà di comodo che gli permette di convincere se stesso e gli altri della sua buona fede:
“L’ho fatto perché mi è stato comandato, perché sono stato educato all’obbedienza assoluta, sono stato ubriacato
di slogan e di manifestazioni; non solo mi era vietato decidere, ma ne ero incapace”.
Come si può capire, queste risposte sono forme di autoinganno: uno stato totalitario può esercitare sull’individuo
una pressione paurosa ma non irresistibile, specialmente in un periodo di tempo relativamente breve. Pertanto, la
fallacità della memoria può essere usata a proprio favore: molti sono gli oppressori che si sono, volutamente,
inventati un'altra memoria, cancellando quanto avevano fatto e riducendolo in semplici azioni senza alcuna colpa.
Questo è il modo con cui Levi afferma che molti complici dello sterminio si siano salvati dai loro stessi sensi di
colpa. Ma anche coloro che hanno subito tendono a ricrearsi una nuova memoria: non per sfuggire a ciò che hanno
fatto - poiché, come si è detto, sono loro che hanno subito - ma per sfuggire a quel ricordo, per dimenticare quanto
hanno subito, i dolori e le ingiustizie.
Questo libro, come gli altri dell’autore, ha lo scopo di dare una testimonianza, una voce nella storia e nel corso della
lettura possiamo trovare numerosi passi che spiegano al lettore il motivo dell’importanza della memoria al fine di
responsabilizzare le generazioni future, per esempio:
“Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso lo si debba fare, perché ciò che
è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri
figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre.”
(pag. 39)
Il grande timore che traspare è che il tempo cancelli o alteri la memoria di quanto accaduto, si rischia la
semplificazione o lo stereotipo e si tratta di una “difficoltà o incapacità di percepire le esperienze altrui, che è
tanto più pronunciata quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o nella qualità. […]
È compito dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto più tempo è trascorso dagli
eventi studiati.” (pag. 128)
La conclusione di Levi non è affatto tranquillizzante riguardo al genere umano.
“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e
dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; come ho accennato più sopra è poco probabile che si
verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni
segni precursori. La violenza, “utile” o “inutile”, è sotto i nostri occhi, serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come
illegalità di Stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire nelle
democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il
nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il
mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da
libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi
affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non
sostenute da buone ragioni”. (pag. 164)
Ad un ultimo quesito infine Levi cerca di dare una risposta: chi erano gli “aguzzini”, di che tempra erano fatti?
Erano “della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo
eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.” (pp.166-67).
Levi evidenzia come sia pressoché illimitato il potere di educazione, propaganda e informazione in un regime
totalitario e come sia quindi possibile manipolare l’opinione pubblica, appiattirla e istupidirla come accadde ai
tedeschi che accettarono e seguirono il loro Fuhrer (per orgoglio nazionale, pigrizia mentale, stupidità, calcolo
miope).
Lo Shemà’, l’importanza della testimonianza
Ai primi di Gennaio del 1946 – meno di tre mesi dopo il suo lungo e faticoso ritorno a casa narrato nella “Tregua” –
Levi scrisse una poesia, intitolata Shemà’, che ha conosciuto una grande notorietà in quanto, priva di questo titolo,
è stata riportata all’inizio di “Se questo è un uomo”.
Shema’
[Ascolta]
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Il compito del testimone è di affermare con la parola: i miei occhi hanno visto quello che i vostri non hanno potuto
scorgere. In un certo senso si potrebbe sostenere che il suo scopo è di trasformare in occhi gli orecchi altrui.
Tuttavia, vi è una profonda differenza tra la testimonianza processuale e quella del reduce. Essa non consiste
tanto nel fatto che in quest’ultimo caso il testimone si presenta anche come giudice. La vera diversità sta piuttosto
nel presentarsi di quella testimonianza come di una voce imperativa per tutti coloro che l’ascoltano. Non
fortuitamente, è proprio in relazione alla sfera del comando che la parola “laica” di Primo Levi ritrova una parentela
con il linguaggio biblico. Vi è una frase che i sopravvissuti allo sterminio nazista hanno ripetuto senza posa: “è