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Un excursus sull'immagine della femme fatale a partire dalla sua prima comparsa con circe fino alle ultime adattazioni cinematografiche.
Materie trattate: italiano, latino, inglese, storia, filosofia
“…ed io alla casa di Circe andavo;
e molto il mio cuore nell’andare batteva.
Mi fermai sulla porta della dea belle trecce,
e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce.
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti,
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore.
Mi condusse a sedere su un trono a borchie d’argento,
bello, ornato […]
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno v’infuse, mali meditando nel cuore.”
Odissea
(Omero, , nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, libro X, vv.310 e ss) Odissea
Quello di Odisseo con Circe, come viene descritto da Omero nel decimo libro dell’ ,
appare come il primo, evidente, incontro tra un eroe e una donna pericolosa, insidiosa, “fatale”
appunto.
Circe la maga, “Circe sovrana”, la “dea luminosa” “dalle belle trecce”, “Circe riccioli belli,
tremenda dea dalla parola umana” (per servirci degli epiteti adoperati dallo stesso Omero per
descrivere questa figura), con le sue arti magiche misteriose e sconosciute, ma soprattutto con
il suo fascino di donna irresistibile e la sua bellezza disarmante, costituisce una seria minaccia
per l’esule eroe greco, che uscirà indenne dall’incontro con la dea soltanto grazie all’intervento
divino, e comunque, solo dopo aver trascorso con i suoi compagni di viaggio un lungo anno tra
le premure di Circe e delle sue ancelle.
La narrazione delle vicende di Odisseo e dei suoi compagni nell’isola di Circe, fa parte del
racconto che l’eroe rende al re dei Feaci Alcínoo e costituisce una delle numerose peripezie di
cui l’eroe è protagonista prima del ritorno in patria.
Significativo è senza dubbio l’atteggiamento di Odisseo che, dopo aver superato ostacoli ben
peggiori, dopo essere sopravvissuto a naufragi e alle ire degli dei, al cospetto di questa donna
bellissima ed intrigante, rimane “sconvolto nel cuore”: ci troviamo di fronte ad un eroe
abituato a combattere e a mettere a repentaglio la propria vita quotidianamente, che trema ed
esita come un fanciullo in presenza di una donna sola e disarmata.
Nel corso della letteratura successiva, da Euripide con la sua Medea fino alle opere di fine
‘800, si incontrano numerosissime “figlie”, “sorelle” di Circe: streghe, maghe, incantatrici,
vampire, insomma, donne insensibili e pericolose, malvagie e selvagge, ardenti e conturbanti,
donne che conducono alla rovina. 5
LA MEDEA DI EURIPIDE
“Lady Hamilton come Circe / Medea” di G. Romney (1782)
6
I miti sulle origini di Medea sono due: secondo il primo Medea, figlia del re dei Colchi sarebbe
la nipote della maga Circe e avrebbe per madre Ecate, la dea della magia e degli incantesimi.
Un’altra tradizione la vede invece sorella di Circe. Odissea
In entrambi i casi, la relazione di parentela con la maga dell’ è tutt’altro che casuale:
Medea può essere infatti vista come erede, seppur ben più infelice, della figura della donna-
maga nella tradizione della letteratura greca.
Medea, amante e maga, soccorre lo straniero Giasone, l’uomo “venuto da lontano”,
fornendogli i consigli e i mezzi necessari per superare le prove imposte dal padre; poi gli
amanti fuggono insieme, sacrificando alla loro salvezza il giovane fratello di Medea.
L’esordio della tragedia di Euripide vede Giasone e Medea giungere esuli, insieme ai loro due
figli, a Corinto. Giasone ha abbandonato Medea per sposare la figlia del re di Corinto. Al
ripudio di Giasone si aggiunge un altro, crudele provvedimento: il re Creonte, temendo la
donna straniera e gli occulti poteri che le vengono attribuiti, ha decretato che venga esiliata da
Corinto assieme ai figli.
Travolta dalla duplice sciagura, Medea prepara una vendetta esemplare: con il pretesto di
richiedere la revoca dell’esilio almeno per i figli, essa li invia alla sposa di Giasone con dei doni
stregati che provocheranno la morte della principessa e anche quella del padre, accorso in suo
aiuto. Quando questo evento si è compiuto, essa uccide anche i figli. Di fronte a Giasone che
la maledice, non rivendica soltanto i suoi diritti di donna oltraggiata, di moglie offesa, ma
anche quello di appartenenza ad una stirpe superiore, divina, che le consente di prendere le
distanze dal suo stesso delitto istituendo, a Corinto, il culto dei figli morti. Poi, sul carro del
suo avo, il Sole, essa si innalza, come in un’apoteosi, sottraendosi a Giasone, ai Corinzi e al
pubblico di Atene.
Un approfondito esame di questa che è l’unica tragedia conservata tra le molte dedicate alla
saga di Medea ci rivela la realtà complessa di un personaggio dai molteplici volti.
La Medea che si presenta sulla scena è innanzitutto una moglie disperata che denuncia la sua
condizione di abbandono, in un contesto che non le offre altre risorse, che la restituisce alla
solitudine e alla disperazione del suo essere straniera, lontana dalla patria, priva di parenti, di
protezione e di difesa.
Ma accanto alla Medea compatita come vittima e giustificata nelle sue rivendicazioni, vi è la
donna capace di ordire le trame più complesse e insidiose: il dolore e il furore di Medea tradita
e la fredda razionalità di Medea vendicatrice convivono alternandosi fino al momento in cui
essa uccide i propri figli, come atto “necessario” al giusto completamento della sua vendetta.
Dopo la sposa umiliata e la femmina scaltra, ecco ora la donna-mostro, nell’atto di compiere il
più turpe dei delitti, quello che nessun oltraggio subìto, nessuna legge umana e divina può
femme fatale
giustificare. Questo spiega come la società di fine Ottocento tolleri la figura della
perché la sua esistenza è assolutamente ineliminabile, ma la tolleri nella sua separazione dalla
maternità, dalla famiglia, dagli ideali e dai sentimenti: come fosse una Medea, appunto. A
partire dalla figura della maga della Colchide, nasce l’icona dell’idolo freddo, della creatura
sanguinaria e implacabile, crudele, insofferente a freni e a leggi, dall’origine in genere
misteriosa e nobilissima, enigmatica e funesta, la donna fatale che non ha nulla di verginale e
di virtuoso, ma che, al contrario, lascia intravedere promesse di inquietudini e di sventure.
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LA DONNA FATALE NELLA LATINITÀ:
CATULLO E LESBIA
“Lesbia con passero”
8
Un esempio di donna fatale realmente vissuta ci viene fornito dall’opera di Gaio Valerio
Catullo,grazie ai suoi numerosi componimenti dedicati all’amore per Lesbia. A questo
pseudonimo risponderebbe molto probabilmente Clodia, la seconda delle tre sorelle del
tribuno Clodio, moglie di Q. Metello Celere, rimasta vedova nel 59 a.C. e pesantemente
Pro Caelio
denigrata da Cicerone, nella , a causa dei suoi liberi costumi amorosi.
A Roma Catullo intrattenne una travagliata relazione amorosa con questa donna dell’alta
società, colta e spregiudicata, alternando a momenti di luminosa felicità
– sempre più rari con il passare del tempo - momenti di torturante gelosia, caratterizzati da
abbandoni e riconciliazioni, speranze e amarissime disillusioni.
Celebre esempio degli effetti “fatali” provocati dalla donna sul poeta possono essere riscontrati
nel carme 51, che riprende una famosa ode di Saffo (la poetessa greca dell’isola di Lesbo), e nel
quale compare il tema degli effetti dell’amore sul poeta che assumono i tratti propri della
malattia fisica. Così alla fine del carme Catullo riflette sulla potenza distruttiva dell’amore,visto
ora come forza capace di annientare potenti e città,come nel mitico esempio di Troia.
Ille mi par par esse deo videtur, Quello mi sembra pari a un dio,
ille,si fas est, superare divos, quello -se è possibile- mi sembra superi gli dei,
qui sedens adversus identitem te che sedendo di fronte a te, senza posa
spectat et audit ti guada e ti ascolta,
dulce ridentem, misero quod omnis mentre dolcemente sorridi. Questo a me infelice
eripit sensus mihi ; nam simul te, strappa tutti i sensi :infatti,non appena ti vedo,
Lesbia,aspexi, nihil est super mi Lesbia, non ho più voce
<postmodo vocis,> per dire parole.
lingua sed torpet, tenuis sub artus La lingua è torpida, sottile nelle membra
flamma demanat, sonitu suopte una fiamma si insinua, di suono interno
tintinant aures, gemina teguntur ronzano le orecchie, di duplice notte
lumina nocte. sono coperti i miei occhi.
Otium, Catulle, tibi molestum est ; L’amore ti rovina, Catullo!
otio exultas nimiumque gestis; Nell’amore troppo esuli e ti ecciti :
otium et reges prius et beatas l’amore già in passato re e felici città
perdidit urbes. ha mandato in rovina.
(Liber Catulliano, carme 51) (trad. di A. Roncoroni)
In seguito Catullo si rende conto che Lesbia ha rinnegato tutte le sue promesse di fedeltà ma
la gelosia accesa in lui dalla donna lo spinge a desiderarla di più.
Questo perché Catullo ha una concezione dell’amore totalmente nuova rispetto alla severa
tradizione romana, che conferiva dignità solo all’unione matrimoniale, considerando effimere
licenze gli amori extraconiugali: per Catullo il legame con Lesbia, anche se vissuto con
orgogliosa rivendicazione della sua trasgressività contro il rigore dei moralisti, è comunque
foedus
fondato su un “patto” o che comporta fedeltà, lealtà, amicizia, stima, rispetto, e ha
quindi un valore morale non inferiore a quello del matrimonio, per questo i tradimenti di
iniuriae
Lesbia sono visti come delle in quanto minano il patto che lega i due amanti. E a
Amare bene velle
questo punto che sorge il dissidio interiore fra e ,termini che vengono
contrapposti ad indicare il desiderio e l’affetto, la sensualità e l’amicizia; essi sono aspetti
complementari e 9
inscindibili del rapporto amoroso: l’infedeltà distrugge la “sacralità” del bene velle e acuisce il
desiderio, rendendolo però tormentoso.
Con Catullo si afferma, insomma, quel modo di sentire e rappresentare l’amore come passione
esclusiva, totale e contraddittoria che è all’origine non solo dell’elegia dei poeti augustei, ma di
tanta parte della poesia moderna.
Dicebas quondam solum te nosse Catullum, Dicevi un tempo di avere come amante
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. il solo Catullo,
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam Lesbia,e che neppure con Giove mi
Sed pater ut gnatos diligit et generos. avresti cambiato.
Nunc te cognovi; quare etsi impensius uror, Ti amai allora non solo come si ama un’amica,
multo mi tamen es vilior et levior. Ma come un padre ama i figli e i generi.
“Qui potis est ?” inquis. Quod amantem Ora ti ho conosciuta :se anche ardo d’amore
iniuria talis più forte,
cogit amare magis, sed bene velle minus. sei per me meno stimata e meno cara.
Com’è possibile, mi chiedi? Perché un
tale tradimento
costringe ad amare di più,ma a volere bene
di meno.
(Liber Catulliano, carme 72) (trad. di A. Roncoroni)
Eccoci dunque di fronte ad una nuova figura di donna terribile e incontrollabile, che soggioga
l’uomo servendosi della seduzione e riducendolo in uno stato di languore senza via d’uscita.
Di fronte all’impetuosa passione che lo possiede, il poeta non sa e non riesce a reagire: odio e
amore vengono così a coesistere mettendo alla luce il dissidio interiore che angustia il poeta,
ancora innamorato di Lesbia ma disgustato dai suoi tradimenti. Innovativa risulta l’intrusione
di un interlocutore, quasi un alter ego del poeta, che è portatore del buon senso comune in
quanto capisce che è impossibile la convivenza di due sentimenti così opposti, ma
paradossalmente è proprio questa “intrusione” della logica a rafforzare il senso della
lacerazione interiore provata da Catullo.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Odio e amo. Perché io faccia questo tu
Nescio, sed fieri sentio et excrucior. forse domandi.
Non so, ma sento che avviene e me
ne cruccio.
Liber catulliano
( , carme 85) (trad. di A. Roncoroni)
Quello descritto da Catullo è un amore impari, in cui l’uomo occupa indubbiamente una
posizione di sottomissione e remissione assolute. Non ha alternativa, deve continuare ad
amare colei che lo umilia e gli provoca atroci sofferenze, la donna che non gli lascia altra scelta