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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2008

Titolo: La parabola discendente della dea luna: da "dea bianca" a "gemente satellite"

Autore: Marco Li mandri

Descrizione: Viene analizzato il ruolo della luna, nella mitologia e nell'amibito artistico-letterario, distiguendo tre fasi:1)Il forte potere attribuitolo dalle culture europee quando era considerata primigenia Musa e suprema divinità  (a partire dal II millennio a.C

Materie trattate: mitologia, letteratura latina, greca, italiana, inglese, arte

Area: umanistica

Sommario: Mi propongo di illustrare, nel corso di questa trattazione, quale sia stata il forte potere attribuito in tutte le culture europee alla Dea Luna, e che ruolo, di riflesso, essa abbia esercitato nell'immaginario degli artisti, per ripiegare infine sino al secolo breve, le cui mutate condizioni storico-sociali hanno "defraudato" quella che il poeta Graves definì "primigenia Musa" - ma che oramai non lo è più - di ogni suo valore, anche solo simbolico-letterario, come nelle intenzioni dei futuristi; mi soffermerò anche su alcuni autori della metà  del novecento, come Eliot e Volponi, i quali hanno associato la perdita di significato della luna, all'alienazione dell'uomo moderno e alla massificazione della società . 1. Introduzione di carattere storico-mitologico Fu proprio il poeta Robert Graves, di cui si è detto prima, ad operare la più sistematica trattazione sul ruolo predominante che ebbe la Dea Luna nella cultura indoeuropea, attraverso la stesura de "La Dea Bianca" nel 1948; qui di seguito è riportata la tesi fondamentale di Graves: "La mia tesi è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell'Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna ovvero della Musa, alcune delle quali risalenti all'età  paleolitica. Questa lingua fu manomessa verso la fine dell'epoca minoica, allorché invasori provenienti dall'Asia centrale cominciarono a sostituire alle istituzioni matrilineari quelle patrilineari, rimodellando o falsificando i miti per giustificare i mutamenti della società , ma dapprima sopravvisse all'interno dei culti misterici . Poi giunsero i primi filosofi greci, fortemente ostili alla poesia magica, nella quale ravvisavano una minaccia per la nuova religione della logica. Sotto la loro influenza venne elaborato un linguaggio poetico razionale (oggi chiamato classico), in onore del loro patrono Apollo, linguaggio che fu imposto al mondo come il non plus ultra dell'illuminazione spirituale. Da allora in poi questa visione ha dominato praticamente incontrastata nelle visione moderna della cultura mitica , dove i miti sono oggi studiati solo come curiosi relitti dell'infanzia dell'umanità "

Estratto del documento

1.2. La prima decadenza della Dea

Dapprincipio in Europa non c'erano divinità maschili che potessero sfidare il prestigio della Dea.

Prima che Baal, Zeus, Jahvè e i loro equivalenti prendessero il potere, a comandare in cielo, in terra

e negli inferi era stata la Grande Madre, dea una e trina della Nascita, della Fecondazione e della

Morte, signora della Natura, padrona del Tempo. Era la dea dei campi e dei boschi, delle acque e

degli animali. In seguito all'affermazione del patriarcato, probabilmente importato dall'Oriente, si

verificò anche una - fisiologica – evoluzione dell'apparato mitico. Nell'inno omerico ad Apollo

pitico viene infatti narrato che Apollo, figlio di Zeus e Latona, si impadronì del santuario di Delfi,

originariamente devoto alla Dea madre, identificata da Graves con la Dea Bianca, e indusse le nove

Muse, figlie della Dea, ormai sempre meno potente, ad abbandonare la loro sede sul monte Elicona

per trasferirsi a Delfi, domò la loro furia selvaggia e insegnò loro a intrecciare danze curiose e

garbate: dando inizio alla poesia equilibrata, raffinata e ordinata, da noi oggi definita classicismo.

2. Le invocazioni alla Dea

2.1. La preghiera di Lucio

La forte carica divina e soprannaturale, di cui la Luna è stata ritenuta portatrice sin dagli albori della

civiltà greco-romana, la ha resa l'ideale interlocutrice per l'artista che avesse voluto addentrarsi - in

qualunque modo - in una più profonda conoscenza della natura e dei segreti che essa cela. La prima

-e più completa- preghiera alla Dea si ritrova nel libro XI delle “Metamorfosi” di Apuleio. Il

protagonista, e narratore, Lucio dopo essersi recato in Tessaglia, terra tradizionalmente di maghi,

alloggia presso il ricco Milone e sua moglie Panfila, una maga. Riuscendo ad conquistarsi i favori

della serva Fotide, Lucio prima assiste di nascosto a una trasformazione di Panfila in guf, poi,

spinto dalla sua “curiositas” decide di sperimentare su di sé la metamorfosi. Ma Fotide sbaglia

unguento e Lucio assume le sembianze di un asino. Fotide gli rivela che l'unica soluzione è quella

di cibarsi di rose: da qui una serie incredibile di peripezie (intramezzate dalla favola di Amore e

Psiche) in cui Lucio non manca di commentare. Infine, nel libro X, Lucio riesce a fuggire da

un'arena cui è stato destinato e si addormenta in una spiaggia deserta. Sarà il libro XI a dare inizio

alla purificazione rituale, cui seguirà il ritorno di Lucio alle fattezze umane e l'iniziazione al culto di

Iside e Osiride.

Il libro XI dunque segna la svolta, in direzione mistico-iniziatica, del romanzo. Lucio, da poco

sveglio, è ammaliato dallo “strano fascino dell'eccelsa dea che esercita il suo potere sovrano su

tutti gli esseri viventi e non soltanto su questi, animali domestici o belve feroci che siano, ma anche

sulle cose inanimate, che sentono l'influsso della sua potenza e della sua luce, sui corpi celesti o su

quelli della terra e del mare, che crescono quando essa cresce, che si ritraggono quando essa

cala”. L'apparizione della dea, in tutto il suo fulgore, viene dunque avvertita, da Lucio, come una

speranza di salvezza -finalmente!- dopo tante sventure, e ,in seguito a un vero e proprio rito

religioso, può invocare la Dea. Dalle parole di Lucio si evince anche come la Luna -che qui è

emanazione di Iside, non a caso, dea della resurrezione- fosse considerata dea “dagli infiniti nomi”,

in linea con il sincretismo religioso ellenistico, che non aveva mancato di influenzare anche il culto

isiaco , al quale Apuleio stesso, letterato itinerante, era stato iniziato:

“O regina del cielo, o sia pure tu l’alma Cerere, l’antichissima madre delle messi, che per la gioia

d’aver ritrovata la figlia, offristi all’uomo un cibo più dolce che non quello bestiale delle ghiande,

e fai più bella con la tua presenza la terra di Eleusi; o anche la celeste Venere che all’inizio del

mondo desti la vita ad Amore e accoppiasti sessi diversi propagando la specie umana con una

discendenza ininterrotta, onorata ora in Pafo, circondata dal mare; o la sorella di Febo, che

alleviando con dolci rimedi il dolore del parto, hai dato la vita a tante generazioni ed ora sei

venerata nei santuari di Efeso; o che tu sia Proserpina, la dea che atterrisce con i suoi ululati

notturni, che nel tuo triplice aspetto plachi le inquiete ombre dei morti e chiudi le porte

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dell’oltretomba e vaghi per i boschi sacri, venerata con riti diversi, tu che con la tua virginea luce

illumini tutte le città, che nutri con i tuoi umidi raggi le sementi feconde, e nei tuoi giri solitari

spandi il tuo incerto chiarore, sotto qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualsiasi aspetto sia

lecito invocarti, soccorrimi in queste mie terribili sventure”

I l modulo della preghiera alla Dea permette ad Apuleio anzitutto di introdurre variazioni

significative rispetto al modello greco di Luciano e di Lucio di Patre, entrambi autori di racconti

incentrati sulle peripezie dell'asino Lucio, costringendo il lettore a rivalutare l'intero significato del

romanzo -ormai romanzo di formazione- in senso religioso; in secondo luogo di “sciogliere”

-abilmente- l'intreccio, dal momento che Lucio riacquista le sue originali sembianze, poiché la Dea,

suggerisce in sogno ad un sacerdote di fornire le preziose rose a Lucio; infine, la manifestazione

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della Luna consente ad Apuleio di “istruire” il mondo latino riguardo al culto isiaco , al quale

Apuleio stesso, letterato itinerante, era stato iniziato.

2.2. La preghiera del pastore

Ben diverso è l'esito cui giunge Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”; anche

in questo caso la Luna è considerata come depositaria di un sapere universale sul perché stesso

dell'esistenza . Con il Canto Notturno Leopardi si volge a considerare a livello universale, tramite la

figura esemplare del pastore errante, la costitutiva infelicità propria della condizione umana e, anzi,

di tutti gli esseri viventi. Nel paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, un pastore interroga

il simbolo più classico e suggestivo del paesaggio naturale, la luna, sul senso del destino umano:

(vv.16-20 e vv. 61-71) “Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?

[...]Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sí pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo."

1 Robert Graves, per argomentare che la Luna è stata una dea diffusa in tutte le culture europee, include ne “La Dea

Bianca” il sopracitato passo tratto da “Le Metamorfosi”; la differenza è che Graves non si limita a considerare la

seppure multiforme diffusione di Iside sotto vari nomi, ma considera Iside stessa una “derivazione” dall'originaria

“Dea Bianca”. 6

I l colloquio del pastore con la luna oscilla tra due spinte contrastanti: egli sembra sperare che le

sofferenze della vita trovino una spiegazione tramite la Luna, che simboleggia l'ormai perduto

legame con la natura; ma ben presto si insinua in lui il dubbio che la negatività del destino umano

sia un dato tragico quanto indiscutibile(vv.59-60):

“Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale.”

I l suo essere silenziosa allude da una parte alla quiete del paesaggio naturale, ma ancor di più,

rappresenta la sua volontà di tacere sui misteri dell'esistenza. Ma il sopracitato dubbio diviene

inconfutabile e consequenziale certezza (“è funesto a chi nasce il dì natale”) in seguito alla

mancata risposta della Luna: la solitudine dell'uomo è confermata, così come la cessazione del

legame che lo univa alla natura; sebbene la natura sia indifferente, Leopardi non cerca rifugio in

soluzioni consolatorie, anzi “l'espediente” del pastore come protagonista sfocia in una assenza di

drammaticità e dolore di fronte ad un “ordine contro il quale è vano cozzare”(De Sanctis).

2.3. Riflessioni conclusive

Risulta subito evidente che, sia nell'opera di Apuleio che in Leopardi, la Luna sia il punto di

contatto che lega il divino all'umano (Apuleio) o l'uomo alla natura (Leopardi); in entrambi i casi

essa si pone come determinante fattore di cambiamento, giacché riporta Lucio al suo aspetto

originale, rendendolo suo devoto, e -indirettamente- fornisce al pastore la prova definitiva che alla

natura non “cale” della condizione umana. Sarebbe, in ogni caso, sbagliato ritenere l'atteggiamento

muto e solingo della Luna nel “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia” come l'intento, da

parte di Leopardi, di desacralizzare o destituire la forte carica simbolica da sempre attribuitale:

piuttosto essa mantiene la sua forte carica sacrale tra gli “eterni giri”, ma, in accordo al pessimismo

cosmico, di cui Leopardi fu portavoce, e – più in generale – al nuovo clima romantico, si viene a

configurare una scissione tra io e natura, che certamente ha come conseguenza l'infruttuoso

tentativo, da parte dell'uomo, di entrare in comunione con la Dea.

2.4. L'ultima manifestazione della dea: “Ciaulà scopre la luna”

Prima di considerare l'evoluzione cui andrà incontro la Luna nell'immaginario artistico, riportiamo

di seguito quella che, a buon diritto, può essere considerata l'ultima manifestazione della Dea, con

tutto il suo potere: si tratta della novella di Pirandello “Ciaulà scopre la luna”. La novella racconta

la storia di un povero servo di nome Ciàula, che lavorava in una miniera di zolfo in Sicilia,

controllato dal padrone Zi Scarda. Per tutta la novella Ciaulà è presentato come un animale, e si

parla addirittura di un verso (“Crah! Crah!”) che emette, simile a quello delle cornacchie: per

questo tutti lo chiamano irrisoriamente Ciàula. Una sera Cacciagalline, il sorvegliante della miniera,

vuole che i minatori restino a lavorare, ma tutti scappano. Gli unici che restano sono Zi Scarda e il

suo servo Ciàula che, molto stanco, non si ribella ed ubbidisce. Lavorare di giorno o di notte nella

miniera era la stessa cosa, infatti era sempre buio. E quando Ciaula risaliva per la scala carico di

sacchi e rivedeva le cose di sempre illuminate dalla luce del sole, si sentiva rassicurato. Il buio della

miniera comunque non lo intimoriva: conosceva perfettamente tutte le gallerie e si sentiva sicuro.

Aveva invece molta paura del buio della notte, perché una volta nella miniera era scoppiata una

mina che aveva fatto crollare una galleria: Ciàula, spaventato, si era nascosto e, una volta uscito, la

notte fonda non gli permise di vedere quel che lo circondava. Anche quella notte il protagonista

trasportava il sacco pieno di zolfo, stravolto per la fatica, ma soprattutto impaurito per il buio che

avrebbe trovato uscendo dalla miniera. Quando arrivò in prossimità degli ultimi scalini, tuttavia,

con grande stupore si accorse di essere circondato da un lieve chiarore argentato. Sbalordito, non

capì: lasciò cadere il sacco dalle spalle e, sollevate le braccia, aprì le mani nere verso la fonte di tale

luce, la luna. Ciàula sapeva dell'esistenza della luna, ma non si era mai soffermato ad osservarla.

Solo allora, sbucando dal ventre della terra, la scoprì veramente. Pieno di ammirazione, si sedette

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sul sacco appena abbandonato davanti alla buca e restò a guardare l'astro, che gli si stanziava

davanti in tutta la sua calma bellezza. E, per questa scoperta, cedette ad un incontenibile pianto

liberatorio. 2.4.1. Il valore simbolico e la teofania della Luna

“Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la

chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse

rispuntato. Possibile? Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle.

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