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Premessa
Fin dall'antichità la luna è una presenza costante nella vita e nell'immaginario degli uomini, è il simbolo più classico e suggestivo del paesaggio naturale. Lo dimostrano anche i tanti modi di dire, entrati nell'uso comune, che fanno riferimento alla luna: avere la luna di traverso, lunatico, faccia da luna piena, promettere la luna e così via.
Il primo calendario, costruito in Mesopotamia osservando la regolarità delle fasi lunari, risale al III millennio a.C.
Numerose e antiche credenze attribuiscono alla luna un influsso sui comportamenti umani, sulla crescita delle piante, sul periodo delle nascite e addirittura sulla riuscita o meno dell'imbottigliamento del vino.
Poiché la luna cresce, cala e scompare per poi rinascere è anche l'immagine dell'eterno ritorno e ha sempre rappresentato nei miti e in diverse religioni il ciclo morte/rinascita. E' stata quindi associata alla fecondità , ma anche, al contrario, al mondo dell'aldilà .
La variabilità del suo aspetto e la faccia nascosta ne fanno anche un simbolo di ambiguità , avvolgendola di mistero, basti pensare ai rituali magici durante il plenilunio, alle leggende sui licantropi o agli uomini-tigre. Simbolo dell'Impero turco, la mezza luna figura oggi sulle bandiere nazionali di numerosi paesi di religione islamica. Infine, quella della luna è stata la prima superficie non terrestre calpestata dagli uomini (20 luglio 1969).
Io sono sempre stato affascinato dall'astronomia, una materia troppo vasta, però, per una tesina. Ho quindi circoscritto l'argomento al nostro satellite, che mi consente di approfondire diversi temi nelle singole materie d'esame.
Dopo l'esame del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (italiano), ho affrontato il tema del rapporto uomo-natura in Lucrezio (latino), poi ho messo a confronto il pessimismo leopardiano con quello di Schopenhauer (filosofia). Per il filosofo tedesco si può superare il dolore del mondo attraverso il nirvana, liberandosi dalla volontà di vivere.
Ben diversa è la posizione del movimento futurista: la volontà di vivere è sinonimo di "azione, slancio, passione, audacia gioconda e festosità ". Ho preso allora in considerazione il manifesto di Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna e il quadro di Balla, Lampada ad arco (storia dell'arte). Per i futuristi la guerra era il momento culminante dell'esuberanza sociale, un dispendio giocoso di energie e furono fra i più accesi interventisti prima dell'entrata in guerra dell'Italia.
Ho quindi analizzato il primo conflitto mondiale (storia), con una breve appendice sulla conquista della luna e la competizione USA-URSS negli anni della guerra fredda. I romantici inglesi e, in particolare To the Moon di Percy Bysshe Shelley sono l'argomento che ho approfondito per inglese, mentre ho scelto la descrizione del sistema solare per scienze.
scoperto dalla ragione. L’infelicità umana non è perciò un dato costitutivo dell’uomo,
ma storico (pessimismo storico).
L’uomo naturalmente aspira alla felicità, ma siccome questo desiderio tende ad un
piacere eterno ed infinito, quindi irraggiungibile, l’esistenza diventa infelicità. L’uomo,
infatti, che si illude di essere nato per il piacere, si rende conto che la vita è un
procedere inesorabile verso l’infelicità e il dolore, dove l’unico piacere possibile è la
cessazione di qualsiasi dolore o disagio.
Anche la verità è irraggiungibile per l’uomo e l’universo è un mistero impenetrabile, di
cui non si conosce principio e fine. La natura è strettamente legata alla materia,
soggetta ad un continuo moto meccanico.
In Leopardi la natura non garantisce e non offre all’uomo felicità, semplicemente si
mostra, in una gelida indifferenza verso le questioni terrene. Nel Canto notturno infatti
la luna è estranea e muta, il giro degli astri nel cielo non ha rapporto con la vita e il
destino degli uomini. Nel Dialogo della Natura e di islandese la natura domanda
“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? quando io vi offendo in
qualunque modo e con qual sia mezzo, io non n’avveggo se non rarissime volte: come,
se io vi diletto e vi benefico, io non lo so…”.
Mentre l’uomo soffre e muore (“vecchierel bianco, infermo….”, “nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento” nel Canto), la natura è invece eterna ed ignora
l’ordine su cui si fonda il vivere umano. Guardando il cielo, gli astri e il corso della luna
( come nella Ginestra: “..su la mesta landa/in purissimo azzurro/ veggo dall’alto
fiammeggiar le stelle”), l’uomo perciò non può non avvertire l’orrore di un abbandono e
l’angoscia di una solitudine certa.
Le anime nobili sono le più infelici e l’uomo lo è più di tutte le altre creature: se la vita
non dolore, è noia.
Negli ultimi anni della sua vita, influenzato anche dall’ambiente liberale fiorentino, nel
pensiero di Leopardi torna in primo piano l’esigenza dell’impegno civile e della
solidarietà fra gli uomini: consapevoli del male comune e del nemico comune (la
natura), essi devono allearsi per ridurre il dolore.
LATINO
“alid ex alio refecit natura”: Lucrezio, De rerum natura
Il rapporto uomo-natura in Leopardi è molto simile a quello presente nel poema De
rerum natura di Lucrezio.
I pochi dati biografici su Lucrezio (98 ca. - 55 ca. a.C.), sono tramandati da San
Gerolamo, al quale si deve anche la notizia della follia e del suicidio di Lucrezio, oggi
perlopiù ritenuta inattendibile.
Il suo De rerum natura è un poema di intento educativo dedicato a Gaio Memmio
(uomo politico della prima metà del I sec. a. C.) in esametri, composta da sei libri che
trattano la fisica (libri I, II), l’antropologia (III, IV) e la cosmologia (V, VI). Forse il poema
non è finito.
Nel De rerum natura Lucrezio espone le dottrine di Epicuro riguardo al mondo e
all'uomo. Secondo la fisica epicurea l'universo vive del moto incessante degli atomi,
che si aggregano e disgregano originando una serie infinita di mondi e di composti
materiali; l'anima non è un'entità incorporea, ma anch'essa una combinazione fortuita
di atomi che cessa di vivere insieme al corpo; tutti i fenomeni terreni hanno cause
naturali e non conoscono intervento divino: gli dei non si devono temere poiché non si
preoccupano delle vicende umane. La paura del soprannaturale non ha quindi alcun
fondamento razionale. Anche la morte deve essere accettata come qualcosa di
ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi ci siamo non c’è morte e quando
c’è la morte, noi non ci siamo più. Invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo,
secondo Lucrezio, dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla in ozio o inseguendo
stupide ambizioni. Intento di Lucrezio è quello di insegnare ad usare la ragione,
attraverso cui si può raggiungere la voluptas, cioè il piacere, l’equilibrio interiore e
l’armonia con ciò che ci circonda.
Secondo Lucrezio il mondo è tormentato dalla culpa naturae, il difetto della natura, che
perseguita l’uomo e rende difficile la sua vita sulla terra. Per dare risposta al male e
combattere lo smarrimento di fronte alla potenza della natura, l’uomo si è rivolto alla
religione. Ma l’unica risposta ai quesiti esistenziali non risiede nella fede, ma nella
stessa mente umana.
Nel proemio, l’invocazione è un inno a Venere, simbolo della forza generatrice e vitale
della natura (“Aeneadum genitrix hominum divumque voluptas”). Dal II libro scompare
questa visione positiva della natura generatrice e subentra quella negativa di natura
che distrugge, attraverso le malattie, le menomazioni fisiche e i flagelli come la peste di
Atene (libro VI). Al poeta non resta altro che la commozione e l’orrore per la visione del
genere umano ridotto ad un puro ammasso di corpi doloranti, della lotta bestiale per la
sopravvivenza e, soprattutto, perché vede la natura impietosa che, ostile e malvagia,
uccide senza alcuna distinzione.
Tutta l'opera è un omaggio a Epicuro, l’unico capace, secondo Lucrezio, di fornire
risposte adeguate alla più profonde domande dell’uomo. Epicuro con le sue verità
razionali ha illuminato l'uomo dissolvendo le superstizioni e la paura della morte e degli
dei, e aiutandolo a raggiungere l'atarassia, cioè l'imperturbabilità, che è il presupposto
essenziale della felicità: l'uomo felice è colui che riconosce come canone dell'esistenza
il piacere, inteso come soppressione del dolore, soddisfazione dei bisogni naturali e
limitazione dei desideri.
Come detto, il V libro è dedicato alla cosmologia: Lucrezio spiega come è nato il cosmo
e quale rapporto c’è fra l’uomo e la natura. Seguendo Epicuro, Lucrezio sostiene che
gli dei non si occupano delle cose terrene, non hanno responsabilità nella creazione
del mondo e dell’uomo . Poi aggiunge:
Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.
principio quantum caeli tegit impetus ingens,
inde avidam partem montes silvaeque ferarum
possedere, tenent rupes vastaeque paludes
et mare, quod late terrarum distinet oras.
inde duas porro prope partis fervidus ardor
adsiduusque geli casus mortalibus aufert.
quod super est arvi, tamen id natura sua vi
sentibus obducat, ni vis humana resistat
vitai causa valido consueta bidenti
ingemere et terram pressis proscindere aratris.
si non fecundas vertentes vomere glebas
terraique solum subigentes cimus ad ortus.
sponte sua nequeant liquidas existere in auras.
et tamen inter dum magno quaesita labore
cum iam per terras frondent atque omnia florent,
aut nimiis torret fervoribus aetherius sol
aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruinae
flabraque ventorum violento turbine vexant.
praeterea genus horriferum natura ferarum
humanae genti infestum terraque marique
cur alit atque auget? cur anni tempora morbos
adportant? quare mors inmatura vagatur?
tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.
at variae crescunt pecudes armenta feraeque
nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast
almae nutricis blanda atque infracta loquella
nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli,
denique non armis opus est, non moenibus altis,
qui sua tutentur, quando omnibus omnia large
tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.
Se anche ignorassi quali siano i primi elementi (origine) delle cose,
questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni
del cielo e dimostrare per molte altre cose:
che la natura del mondo non è stata generata
dal volere divino per noi: è dotata di molti e grandi limiti.
In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,
una grande parte la occupano monti e selve abitate
da belve, la posseggono rupi e deserte paludi
e il mare che vastamente separa le rive delle terre.
Inoltre, quasi due terzi il rovente calore
e l'assiduo cadere della neve le tolgono ai mortali.
Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza
lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,
avvezzo per vivere a gemere sul robusto
bidente e a solcare la terra premendo l'aratro.
Se, rivoltando col vomere le zolle feconde e domando
il suolo della terra, non le spingessimo a nascere,
spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;
e pure, talvolta, procurate con grande fatica,
quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,
o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole
o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,
e il soffiare dei venti con violento turbine le devasta.
E inoltre, perché la natura nutre e fa prosperare
la razza orrenda delle belve, nemica
del genere umano, in terra e in mare?
Perché le stagioni apportano
malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?
Inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva
da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,
bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire
alle rive della luce con doglie dal grembo materno,
e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto
per colui a cui nella vita restano da passare tanti mali.
Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,
né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno di loro occorre
la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,
né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;
infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,
per proteggere i propri beni, poiché la terra stessa e la natura creatrice
producono tutto per tutti largamente.
Questo brano (libro V, vv. 195-234) è quello che ho scelto dal programma di latino,
anche per affinità con il Canto notturno di Leopardi.
In esso Lucrezio afferma che, se anche ignorasse quali sono i principi costitutivi
dell’universo, cioè gli atomi con il loro cieco movimento, basandosi soltanto sui
fenomeni naturali e celesti potrebbe dimostrare che la natura non è affatto ordinata
dagli dei a nostro vantaggio. La natura non è stata creata per volere divino e tanto
meno per noi (come nel Dialogo della Natura e di un islandese di Leopardi), ma è
ricolma di male e imperfezioni. A dimostrazione, Lucrezio ricorda che quel poco di terra
che c’è per l’uomo, oltre ai monti, alle selve, al mare, ai ghiacciai e ai deserti, se
coltivata con sudore e fatica produce frutti che possono tuttavia essere distrutti dal
sole, dalle piogge, dal vento o dal gelo, cioè dalla natura. A dimostrazione dei tanti mali
della natura, il poeta ricorda anche le bestie feroci, le malattie e le morti premature. Ma
soprattutto ricorda come sia “funesto a chi nasce il dì natale”. Il bambino, infatti, nato
con dolore (ancora Leopardi: “nasce l’uomo a fatica, ed è a rischio di morte il
nascimento”) per prima cosa piange disperatamente, quasi presagendo il suo triste
destino. Alla miseria dell’uomo si contrappone la felicità degli animali, favoriti dalla
generosità della natura. La maggiore felicità degli animali non deriva, come in
Leopardi, dalla loro inconsapevolezza (“o greggia mia che posi, o te beata, che la
miseria tua, credo non sai”) ma da obiettive condizioni di favore assegnate loro dalla
natura.
Nel brano la miseria e l’infelicità sono connaturate all’uomo, che ci appare come un
essere reietto dalla natura, costretto a vivere ed a lottare in un ambiente ostile, un
fuscello tra le forze immense e crudeli che lo opprimono.
Una differenza con il Canto notturno di Leopardi, dove il ritmo è sereno, è nella
violenza e nella rabbia che mette Lucrezio nel descrivere la condizione dell’uomo.
Mentre anche qui l’immagine della natura è grandiosa e sconfinata, indifferente alle
ansie dei mortali.
ITALIANO - FILOSOFIA
Il pessimismo: Leopardi e Schopenhauer