Anteprima
Vedrai una selezione di 10 pagine su 41
La luna Pag. 1 La luna Pag. 2
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 6
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 11
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 16
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 21
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 26
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 31
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 36
Anteprima di 10 pagg. su 41.
Scarica il documento per vederlo tutto.
La luna Pag. 41
1 su 41
Disdici quando vuoi 162x117
Disdici quando
vuoi
Acquista con carta
o PayPal
Scarica i documenti
tutte le volte che vuoi
Sintesi

Premessa

Fin dall'antichità  la luna è una presenza costante nella vita e nell'immaginario degli uomini, è il simbolo più classico e suggestivo del paesaggio naturale. Lo dimostrano anche i tanti modi di dire, entrati nell'uso comune, che fanno riferimento alla luna: avere la luna di traverso, lunatico, faccia da luna piena, promettere la luna e così via.

Il primo calendario, costruito in Mesopotamia osservando la regolarità  delle fasi lunari, risale al III millennio a.C.

Numerose e antiche credenze attribuiscono alla luna un influsso sui comportamenti umani, sulla crescita delle piante, sul periodo delle nascite e addirittura sulla riuscita o meno dell'imbottigliamento del vino.

Poiché la luna cresce, cala e scompare per poi rinascere è anche l'immagine dell'eterno ritorno e ha sempre rappresentato nei miti e in diverse religioni il ciclo morte/rinascita. E' stata quindi associata alla fecondità , ma anche, al contrario, al mondo dell'aldilà .

La variabilità  del suo aspetto e la faccia nascosta ne fanno anche un simbolo di ambiguità , avvolgendola di mistero, basti pensare ai rituali magici durante il plenilunio, alle leggende sui licantropi o agli uomini-tigre. Simbolo dell'Impero turco, la mezza luna figura oggi sulle bandiere nazionali di numerosi paesi di religione islamica. Infine, quella della luna è stata la prima superficie non terrestre calpestata dagli uomini (20 luglio 1969).

Io sono sempre stato affascinato dall'astronomia, una materia troppo vasta, però, per una tesina. Ho quindi circoscritto l'argomento al nostro satellite, che mi consente di approfondire diversi temi nelle singole materie d'esame.

Dopo l'esame del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (italiano), ho affrontato il tema del rapporto uomo-natura in Lucrezio (latino), poi ho messo a confronto il pessimismo leopardiano con quello di Schopenhauer (filosofia). Per il filosofo tedesco si può superare il dolore del mondo attraverso il nirvana, liberandosi dalla volontà  di vivere.

Ben diversa è la posizione del movimento futurista: la volontà  di vivere è sinonimo di "azione, slancio, passione, audacia gioconda e festosità ". Ho preso allora in considerazione il manifesto di Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna e il quadro di Balla, Lampada ad arco (storia dell'arte). Per i futuristi la guerra era il momento culminante dell'esuberanza sociale, un dispendio giocoso di energie e furono fra i più accesi interventisti prima dell'entrata in guerra dell'Italia.

Ho quindi analizzato il primo conflitto mondiale (storia), con una breve appendice sulla conquista della luna e la competizione USA-URSS negli anni della guerra fredda. I romantici inglesi e, in particolare To the Moon di Percy Bysshe Shelley sono l'argomento che ho approfondito per inglese, mentre ho scelto la descrizione del sistema solare per scienze.

Estratto del documento

scoperto dalla ragione. L’infelicità umana non è perciò un dato costitutivo dell’uomo,

ma storico (pessimismo storico).

L’uomo naturalmente aspira alla felicità, ma siccome questo desiderio tende ad un

piacere eterno ed infinito, quindi irraggiungibile, l’esistenza diventa infelicità. L’uomo,

infatti, che si illude di essere nato per il piacere, si rende conto che la vita è un

procedere inesorabile verso l’infelicità e il dolore, dove l’unico piacere possibile è la

cessazione di qualsiasi dolore o disagio.

Anche la verità è irraggiungibile per l’uomo e l’universo è un mistero impenetrabile, di

cui non si conosce principio e fine. La natura è strettamente legata alla materia,

soggetta ad un continuo moto meccanico.

In Leopardi la natura non garantisce e non offre all’uomo felicità, semplicemente si

mostra, in una gelida indifferenza verso le questioni terrene. Nel Canto notturno infatti

la luna è estranea e muta, il giro degli astri nel cielo non ha rapporto con la vita e il

destino degli uomini. Nel Dialogo della Natura e di islandese la natura domanda

“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? quando io vi offendo in

qualunque modo e con qual sia mezzo, io non n’avveggo se non rarissime volte: come,

se io vi diletto e vi benefico, io non lo so…”.

Mentre l’uomo soffre e muore (“vecchierel bianco, infermo….”, “nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento” nel Canto), la natura è invece eterna ed ignora

l’ordine su cui si fonda il vivere umano. Guardando il cielo, gli astri e il corso della luna

( come nella Ginestra: “..su la mesta landa/in purissimo azzurro/ veggo dall’alto

fiammeggiar le stelle”), l’uomo perciò non può non avvertire l’orrore di un abbandono e

l’angoscia di una solitudine certa.

Le anime nobili sono le più infelici e l’uomo lo è più di tutte le altre creature: se la vita

non dolore, è noia.

Negli ultimi anni della sua vita, influenzato anche dall’ambiente liberale fiorentino, nel

pensiero di Leopardi torna in primo piano l’esigenza dell’impegno civile e della

solidarietà fra gli uomini: consapevoli del male comune e del nemico comune (la

natura), essi devono allearsi per ridurre il dolore.

LATINO

“alid ex alio refecit natura”: Lucrezio, De rerum natura

Il rapporto uomo-natura in Leopardi è molto simile a quello presente nel poema De

rerum natura di Lucrezio.

I pochi dati biografici su Lucrezio (98 ca. - 55 ca. a.C.), sono tramandati da San

Gerolamo, al quale si deve anche la notizia della follia e del suicidio di Lucrezio, oggi

perlopiù ritenuta inattendibile.

Il suo De rerum natura è un poema di intento educativo dedicato a Gaio Memmio

(uomo politico della prima metà del I sec. a. C.) in esametri, composta da sei libri che

trattano la fisica (libri I, II), l’antropologia (III, IV) e la cosmologia (V, VI). Forse il poema

non è finito.

Nel De rerum natura Lucrezio espone le dottrine di Epicuro riguardo al mondo e

all'uomo. Secondo la fisica epicurea l'universo vive del moto incessante degli atomi,

che si aggregano e disgregano originando una serie infinita di mondi e di composti

materiali; l'anima non è un'entità incorporea, ma anch'essa una combinazione fortuita

di atomi che cessa di vivere insieme al corpo; tutti i fenomeni terreni hanno cause

naturali e non conoscono intervento divino: gli dei non si devono temere poiché non si

preoccupano delle vicende umane. La paura del soprannaturale non ha quindi alcun

fondamento razionale. Anche la morte deve essere accettata come qualcosa di

ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi ci siamo non c’è morte e quando

c’è la morte, noi non ci siamo più. Invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo,

secondo Lucrezio, dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla in ozio o inseguendo

stupide ambizioni. Intento di Lucrezio è quello di insegnare ad usare la ragione,

attraverso cui si può raggiungere la voluptas, cioè il piacere, l’equilibrio interiore e

l’armonia con ciò che ci circonda.

Secondo Lucrezio il mondo è tormentato dalla culpa naturae, il difetto della natura, che

perseguita l’uomo e rende difficile la sua vita sulla terra. Per dare risposta al male e

combattere lo smarrimento di fronte alla potenza della natura, l’uomo si è rivolto alla

religione. Ma l’unica risposta ai quesiti esistenziali non risiede nella fede, ma nella

stessa mente umana.

Nel proemio, l’invocazione è un inno a Venere, simbolo della forza generatrice e vitale

della natura (“Aeneadum genitrix hominum divumque voluptas”). Dal II libro scompare

questa visione positiva della natura generatrice e subentra quella negativa di natura

che distrugge, attraverso le malattie, le menomazioni fisiche e i flagelli come la peste di

Atene (libro VI). Al poeta non resta altro che la commozione e l’orrore per la visione del

genere umano ridotto ad un puro ammasso di corpi doloranti, della lotta bestiale per la

sopravvivenza e, soprattutto, perché vede la natura impietosa che, ostile e malvagia,

uccide senza alcuna distinzione.

Tutta l'opera è un omaggio a Epicuro, l’unico capace, secondo Lucrezio, di fornire

risposte adeguate alla più profonde domande dell’uomo. Epicuro con le sue verità

razionali ha illuminato l'uomo dissolvendo le superstizioni e la paura della morte e degli

dei, e aiutandolo a raggiungere l'atarassia, cioè l'imperturbabilità, che è il presupposto

essenziale della felicità: l'uomo felice è colui che riconosce come canone dell'esistenza

il piacere, inteso come soppressione del dolore, soddisfazione dei bisogni naturali e

limitazione dei desideri.

Come detto, il V libro è dedicato alla cosmologia: Lucrezio spiega come è nato il cosmo

e quale rapporto c’è fra l’uomo e la natura. Seguendo Epicuro, Lucrezio sostiene che

gli dei non si occupano delle cose terrene, non hanno responsabilità nella creazione

del mondo e dell’uomo . Poi aggiunge:

Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint,

hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim

confirmare aliisque ex rebus reddere multis,

nequaquam nobis divinitus esse paratam

naturam rerum: tanta stat praedita culpa.

principio quantum caeli tegit impetus ingens,

inde avidam partem montes silvaeque ferarum

possedere, tenent rupes vastaeque paludes

et mare, quod late terrarum distinet oras.

inde duas porro prope partis fervidus ardor

adsiduusque geli casus mortalibus aufert.

quod super est arvi, tamen id natura sua vi

sentibus obducat, ni vis humana resistat

vitai causa valido consueta bidenti

ingemere et terram pressis proscindere aratris.

si non fecundas vertentes vomere glebas

terraique solum subigentes cimus ad ortus.

sponte sua nequeant liquidas existere in auras.

et tamen inter dum magno quaesita labore

cum iam per terras frondent atque omnia florent,

aut nimiis torret fervoribus aetherius sol

aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruinae

flabraque ventorum violento turbine vexant.

praeterea genus horriferum natura ferarum

humanae genti infestum terraque marique

cur alit atque auget? cur anni tempora morbos

adportant? quare mors inmatura vagatur?

tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis

navita, nudus humi iacet infans indigus omni

vitali auxilio, cum primum in luminis oras

nixibus ex alvo matris natura profudit,

vagituque locum lugubri complet, ut aequumst

cui tantum in vita restet transire malorum.

at variae crescunt pecudes armenta feraeque

nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast

almae nutricis blanda atque infracta loquella

nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli,

denique non armis opus est, non moenibus altis,

qui sua tutentur, quando omnibus omnia large

tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

Se anche ignorassi quali siano i primi elementi (origine) delle cose,

questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni

del cielo e dimostrare per molte altre cose:

che la natura del mondo non è stata generata

dal volere divino per noi: è dotata di molti e grandi limiti.

In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,

una grande parte la occupano monti e selve abitate

da belve, la posseggono rupi e deserte paludi

e il mare che vastamente separa le rive delle terre.

Inoltre, quasi due terzi il rovente calore

e l'assiduo cadere della neve le tolgono ai mortali.

Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza

lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,

avvezzo per vivere a gemere sul robusto

bidente e a solcare la terra premendo l'aratro.

Se, rivoltando col vomere le zolle feconde e domando

il suolo della terra, non le spingessimo a nascere,

spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;

e pure, talvolta, procurate con grande fatica,

quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,

o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole

o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,

e il soffiare dei venti con violento turbine le devasta.

E inoltre, perché la natura nutre e fa prosperare

la razza orrenda delle belve, nemica

del genere umano, in terra e in mare?

Perché le stagioni apportano

malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?

Inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva

da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,

bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire

alle rive della luce con doglie dal grembo materno,

e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto

per colui a cui nella vita restano da passare tanti mali.

Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,

né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno di loro occorre

la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,

né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;

infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,

per proteggere i propri beni, poiché la terra stessa e la natura creatrice

producono tutto per tutti largamente.

Questo brano (libro V, vv. 195-234) è quello che ho scelto dal programma di latino,

anche per affinità con il Canto notturno di Leopardi.

In esso Lucrezio afferma che, se anche ignorasse quali sono i principi costitutivi

dell’universo, cioè gli atomi con il loro cieco movimento, basandosi soltanto sui

fenomeni naturali e celesti potrebbe dimostrare che la natura non è affatto ordinata

dagli dei a nostro vantaggio. La natura non è stata creata per volere divino e tanto

meno per noi (come nel Dialogo della Natura e di un islandese di Leopardi), ma è

ricolma di male e imperfezioni. A dimostrazione, Lucrezio ricorda che quel poco di terra

che c’è per l’uomo, oltre ai monti, alle selve, al mare, ai ghiacciai e ai deserti, se

coltivata con sudore e fatica produce frutti che possono tuttavia essere distrutti dal

sole, dalle piogge, dal vento o dal gelo, cioè dalla natura. A dimostrazione dei tanti mali

della natura, il poeta ricorda anche le bestie feroci, le malattie e le morti premature. Ma

soprattutto ricorda come sia “funesto a chi nasce il dì natale”. Il bambino, infatti, nato

con dolore (ancora Leopardi: “nasce l’uomo a fatica, ed è a rischio di morte il

nascimento”) per prima cosa piange disperatamente, quasi presagendo il suo triste

destino. Alla miseria dell’uomo si contrappone la felicità degli animali, favoriti dalla

generosità della natura. La maggiore felicità degli animali non deriva, come in

Leopardi, dalla loro inconsapevolezza (“o greggia mia che posi, o te beata, che la

miseria tua, credo non sai”) ma da obiettive condizioni di favore assegnate loro dalla

natura.

Nel brano la miseria e l’infelicità sono connaturate all’uomo, che ci appare come un

essere reietto dalla natura, costretto a vivere ed a lottare in un ambiente ostile, un

fuscello tra le forze immense e crudeli che lo opprimono.

Una differenza con il Canto notturno di Leopardi, dove il ritmo è sereno, è nella

violenza e nella rabbia che mette Lucrezio nel descrivere la condizione dell’uomo.

Mentre anche qui l’immagine della natura è grandiosa e sconfinata, indifferente alle

ansie dei mortali.

ITALIANO - FILOSOFIA

Il pessimismo: Leopardi e Schopenhauer

Dettagli
41 pagine
1 download