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Sintesi
Introduzione Italia e crisi del 1929 - Tesina


Ho scelto quest’argomento soprattutto in considerazione dell’attualità che, a causa della situazione di crisi generalizzata che da qualche anno ormai sta attanagliando l’economia mondiale, purtroppo riveste.
In effetti, le prospettive, in particolare per noi giovani, non sono molto incoraggianti e richiamano alla mente la situazione di grande difficoltà verificatasi con la crisi del 1929. In questa tesina ho voluto esaminare, in modo particolare, il momento storico dell’epoca e le soluzioni messe in atto per cercare di risollevare la situazione.
Per confermare l’attualità del tema indico schematicamente le analogie e differenze che ho riscontrato paragonando il 1929 alla crisi attuale:
Analogie
a) eccesso di liberismo
b) mercato sopravvalutato (ma nel 1929 il fenomeno era maggiore)
c) politica monetaria troppo accomodante all’origine della crisi
d) crollo delle commodities
e) crollo dell’attività industriale
Differenze
a) sostegno al sistema bancario (nel 1929 sono fallite tantissime banche)
b) forte piano di stimolo e di sostegno all’economia, con taglio tassi, sospensione pagamento rate, rinegoziazione prestiti.
c) il protezionismo al momento non è così evidente.
d) a livello globale non abbiamo assistito ad un crollo verticale del commercio. Il nuovo polmone economico del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei paesi emergenti compensa in parte la frenata dei paesi tradizionalmente più avanzati (USA, Paesi UE in genere).
La tesina di maturità permette inoltre di collegare questo argomento con le altre materie scolastiche.

Collegamenti

Italia e crisi del 1929 - Tesina


Storia - Riassunto generale dagli anni '20 in America alle ripercussioni in Italia nel '31.
Scienza delle Finanze - Finanza neutrale e funzionale.
Diritto - Plebiscito del '29 e caratteristiche del voto oggi.
Inglese - Riassunto generale.
Estratto del documento

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3. Gli effetti immediati della grande crisi del 1929 in Italia

In Italia gli effetti della crisi del 1929 si inseriscono in un rallentamento generale della vita

economica determinato anche dalla politica deflazionista inaugurata da Mussolini nel 1926

e definita, con esplicito riferimento al gergo militare, ’Quota 90’ Le conseguenze della crisi

economica internazionale furono, come altrove, dirompenti: la produzione industriale subì

una contrazione media del 15%-25% (con punte superiori al 30% nei comparti tessile,

metallurgico e meccanico), furono ridotti gli stipendi di industria, commercio e agricoltura,il

primo dicembre 1930 fu annunciata anche la riduzione del 12% dei salari di tutti gli

impiegati dello Stato. I consumi e il mercato interno si contrassero di conseguenza. Le

esportazioni, già in crisi per effetto di 'Quota 90', furono colpite definitivamente, e

s’interruppe il flusso dei capitali internazionali. Lo stato fascista reagì sia cercando di

rompere i rapporti di dipendenza economica dall’estero, sia rafforzando, con una vera e

propria svolta dirigista, il proprio intervento nell’economia. Di conseguenza, lo stretto

rapporto tra potere politico, industria e banche, ereditato dall’economia dell’Italia liberale fu

rafforzato: con la creazione dell’I.M.I. e dell’I.R.I. il fascismo fece dello Stato il maggiore

imprenditore e banchiere italiano, divenendo proprietario di oltre il 20% dell’intero capitale

azionario nazionale.

3.1 ‘Quota 90’

Nel 1922, fino al 1925, il fascismo adottò una politica liberistica (attenuando il controllo

dello Stato affermatosi durante la guerra in alcuni settori dell’economia) finalizzata al

mantenimento del consenso al regime da parte del grande capitale, che favorì la ripresa

economica ma alcuni fattori, tra i quali il volume delle importazioni delle materie prime

largamente eccedente quello delle esportazioni, causò un forte aumento dei prezzi,

innescando un preoccupante processo inflazionistico. Tanto che, nel 1925, si arrivò a un

cambio di 150 lire per una sterlina. Mussolini, sia per contenere l’inflazione, sia per

rafforzare solidità e autorevolezza del regime all’interno e all’esterno della nazione,

annunciò una manovra deflazionistica fissando il cambio con la sterlina a 90 lire (‘Quota

90’). La sua attuazione fu possibile grazie ad un prestito di 100 milioni di dollari accordato

dalla Banca americana Morgan. Questo fatto vivacizzò il movimento dei capitali dagli Stati

uniti a favore del mercato italiano, tanto che alcune grandi aziende italiane come la

Edison, la Pirelli, la Fiat, la Montecatini, la Snia Viscosa, la Terni, la Marelli e la Breda

negoziarono importanti operazioni di mutuo ( 6.259 milioni di lire tra il 1925 e il 1927,

raggiungendo i 7.672 milioni nel 1929). Inoltre, mentre per effetto della rivalutazione della

lira le esportazioni in generale subirono una forte contrazione, la stabilizzazione monetaria

aiutò quelle imprese che operavano in regime di concentrazione industriale, peraltro

favorita dal regime. Anche grazie alla mediazione delle grandi banche di credito ordinario

furono realizzate importanti operazioni di fusione e assestamento nel comparto elettrico,

meccanico e chimico. Per quest’ultimo, per esempio, il gruppo Montecatini controllava 44

società, partecipando per il 65% alla produzione italiana di concimi fosfatici. Notevole

anche il comparto meccanico, dove Ansaldo, Fiat e Breda possedevano il 25% del capitale

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totale del settore. Le piccole e medie industrie, al contrario, strozzate dalla contrazione del

credito, fallirono o vennero assorbite dalle grandi. La manovra deflazionista, infine, ebbe

alti costi sociali. I ceti meno abbienti subirono i primi effetti negativi di ‘quota 90’: l’attesa

diminuzione del costo della vita, pari solo all’1,3%, non compensò minimamente il drastico

taglio dei salari, oscillante tra il 10 e il 20%. Furono invece tutelati i risparmi dei ceti medi

che continuarono in questo modo a garantire il consenso al regime.

3.2 L’indipendenza economica dall’estero come strategia per

reagire alla crisi

Come detto, Il fascismo affrontò la crisi tentando di porre fine alla dipendenza economica

da altri Paesi. Relativamente all’agricoltura, considerando che ancora nel 1925 le

importazioni di grano dall’estero incidevano per il 15% del totale, la produzione fu

finalizzata al fabbisogno interno rinunciando di fatto alle esportazioni . In questo quadro si

inserisce la perseveranza del regime nell’attuazione della ‘Battaglia del grano’ il cui piano,

congiunto a quello della ‘Bonifica integrale’ era stato varato definitivamente nel 1928.

Grazie all’introduzione di forti misure protezionistiche, (cui va aggiunta la cosiddetta

“Battaglia Demografica” volta ad assicurare maggior manodopera attraverso l’aumento

della popolazione), dovendo conseguire l’obiettivo dell’autosufficienza nella produzione

granaria, la cerealicoltura estensiva soppiantò ogni altra coltura, anche in virtù del

ripristino del dazio sul grano che permise agli agricoltori buoni ricavi. La politica agricola

legò al regime anche i grandi agrari del Sud ma sottrasse spazi alle coltivazioni pregiate

su cui si basava il potenziale economico dell’economia contadina del mezzogiorno.

3.3 Lo Stato imprenditore e banchiere

La recessione economica portò al ritiro immediato dei depositi privati facendo tremare

banche importanti come la Banca Commerciale italiana, il Credito Italiano, Il Banco di

Roma, l’Istituto Italiano di Credito Marittimo. Queste banche, nella loro natura di ‘banche

miste’, avevano investito a lungo termine ingenti capitali nelle industrie ed ora dovevano

fare i conti con giganteschi immobilizzi di capitale. Il fascismo, viste le dimensioni della

crisi industriale, non poté fare uso della consueta strategia consistente nell’assunzione dei

debiti delle imprese da parte dello Stato. Non potendo contare sulla finanza straniera, di

fronte al pericolo reale del fallimento delle principali banche che avrebbe travolto l’intera

economia nazionale, il regime attuò una vera e propria svolta dirigista. Il primo passo fu il

definitivo smantellamento della ‘banca mista’ che, nata dopo la riforma bancaria del 1894,

gestiva il risparmio, il credito a breve termine e finanziava le imprese con prestiti a lungo

termine che, in caso di mancata restituzione, si traducevano nella possibilità della banca

mista di rilevare quote azionarie delle imprese insolventi. Dal 1933 le funzioni di prestito a

lungo termine insieme al portafogli di partecipazione azionaria alle imprese furono

attribuite all’I.R.I., l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, in cui si concentrò un ingente

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patrimonio industriale costituito dall’industria siderurgica bellica (Terni e Ansaldo),

dall’industria estrattiva e cantieristica (Odero-Terni-Orlando, Cantieri riuniti dell’Adriatico),

dall’industria automobilistica (Alfa Romeo), dalle imprese costruttrici di locomotive, da

importanti pacchetti azionari nei settori chiave dell’industria elettrica, della siderurgia civile,

delle fibre artificiali. L’I.R.I. acquisì, per scongiurarne il fallimento, anche la proprietà delle

tre principali banche miste quali La Banca Commerciale, il Credito italiano e il Banco di

Roma. All’I.R.I. fu affiancato l’I.M.I., Istituto Mobiliare Italiano, che aveva il compito di

finanziare l’industria a medio e lungo termine attraverso l’emissione di obbligazioni. La crisi

del 1929 segnò, con la nascita della banca pubblica e della partecipazione statale, il

mondo economico ed industriale italiano per i successivi 60 anni: dallo Stato liberale si

passò allo Stato imprenditore e banchiere, che si fece mallevadore di una via italiana al

capitalismo. Entrava nel flusso economico del paese l’assistenzialismo di Stato, con il

potere politico non arbitro super partes ma giocatore attivo. In questo modo il capitalismo

italiano si separava dal capitalismo europeo e occidentale.

3.4 Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI)

IRI è l’acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale - è stato un ente pubblico

italiano, istituito nel 1933 e liquidato nel 2002.

Nacque per iniziativa di Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche

italiane (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il

crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929. Primo

presidente, oltre che tra gli artefici de la creazione dell'ente, fu Alberto Beneduce,

economista di formazione socialista e fiduciario del Presidente del Consiglio dei Ministri

Inizialmente era previsto che l'IRI fosse un ente provvisorio con lo scopo limitato alla

dismissione delle attività acquisite, come avvenne con la Edison, che fu ceduta ai privati,

ma nel 1937 il governo trasformò l'IRI in un ente pubblico permanente; in questo

probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal

governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre

era in corso la guerra d'Etiopia.

Nel dopoguerra la sopravvivenza dell'Istituto non era data per certa, essendo nato più

come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine, ma la difficoltà di

cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul

lunghissimo periodo ne determinò il mantenimento ed anzi ne allargò progressivamente i

settori di intervento diventando l'Ente che modernizzò e rilanciò l'economia italiana durante

e soprattutto negli anni '50 e '60; nel 1980 l'IRI era un gruppo di circa 1.000 società con

più di 500.000 dipendenti. Per molti anni l'IRI fu la più grande azienda industriale al di fuori

degli Stati Uniti d'America; nel 1992 chiudeva l'anno con 75.912 miliardi di lire di fatturato,

ma con 5.182 miliardi di perdite. Ancora nel 1993 l'IRI si trovava al settimo posto nella

classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67.5 miliardi di dollari di

vendite. Trasformato in società per azioni nel 1992, cessò di esistere dieci anni dopo.

4. Conclusione 7

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In conclusione è possibile affermare che la crisi italiana cominciò nel 1931, due anni dopo

il crollo di Wall Street, e investì anzitutto le banche perché il grosso del credito erogato era

fornito a un ristretto numero di aziende, un centinaio, che con quell’aiuto avevano potuto

svilupparsi notevolmente, ma che ne dipendevano ormai al punto di non poterne fare a

meno. La fisiologica simbiosi si era mutata in una mostruosa fratellanza siamese. Le

banche erano ancora "miste" sotto l’aspetto formale, ma nella sostanza erano divenute

"banques d'affaires" (in inglese "investment banks"), istituti di credito mobiliare legati a filo

doppio alle sorti delle industrie del loro gruppo. Quando la crisi colpì larghi settori

dell’industria italiana, le banche constatarono che i loro crediti non valevano più nulla e si

rivolsero alla Banca d' Italia che rispose immediatamente all' appello, ma fu trascinata a

sua volta nel marasma. Fu questo il momento in cui Alberto Beneduce presentò a

Mussolini un piano per il salvataggio dell’economia nazionale attuato con la costituzione

dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) cui venne data la possibilità di rilevare i

portafogli azionari delle imprese dalle banche maggiori (Comit, Credito Italiano, Banca di

Roma) e di finanziare queste ultime con un credito ventennale che le mise in condizione di

riprendere la loro attività. Dopo avere risanato le banche e salvato le imprese, il governo

poté dedicarsi all’economia reale e lo fece con un New Deal non molto diverso da quello

che Roosevelt realizzò negli Stati Uniti, Hitler in Germania e Stalin, in circostanze politiche

alquanto diverse, nell’Unione Sovietica: bonifiche e lavori pubblici su grande scala.

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