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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2008

Titolo: Il problema etico e l'intellettuale

Autore: Giorgia Schena

Descrizione: documento riguardante la figura dell'intellettuale e la sua evoluzione nel rapporto con il potere.

Materie trattate: letteratura italiana,letteratura greca,letteratura latina,letteratura inglese,filosofia,storia

Area: umanistica

Sommario: LO SCIENZIATO DEL NOVECENTO: PAZZO OPPURE SAGGIO? "…oggi è il dovere del genio restare misconosciuto…" così lo scienziato Möbius apostrofa i suoi colleghi Einstein e Newton nel secondo atto de "I fisici" dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. In quest'opera del 1962 l'autore affronta il problema attuale ancor oggi della responsabilità  etica dello scienziato descrivendo perfettamente la condizione in cui egli versa in un secolo di grandi scoperte scientifiche come il Novecento. Möbius, il vero scienziato, giunto a scoperte fisiche inimmaginabili, decide di sua spontanea volontà  di fingersi pazzo per essere rinchiuso nell'esclusivo sanatorio privato "Les Cerisiers". Paradossalmente Möbius è lo scienziato che sceglie la libertà  considerato che "Per lo meno [il manicomio] mi da la garanzia di non venir sfruttato da uomini politici" (da "I fisici"- Dürrenmatt atto II). La figura di scienziato che ne emerge è quella di un uomo dotato, oltre che di grande intelligenza, di uno spiccato senso della moralità . Proprio come il re Salomone, del quale Möbius denuncia di avere visioni, anch'egli è in possesso di una grande saggezza ma questa gli si rivela inutile, vista l'impossibilità  di sfruttarla senza condizionamenti politici. Ed è per questo che lo scienziato fugge dalla realtà  con indosso la maschera del folle, "pazzo eppure saggio, prigioniero eppure libero, fisico eppure innocente" (da "I fisici"- Dürrenmatt atto II), per evitare che sia il mondo stesso a diventare un manicomio, sovvertito da quelle stesse scoperte scientifiche che avrebbero dovuto migliorarlo. Tuttavia per ben comprendere come il rapporto tra intellettuale e potere sia giunto ad una tale frattura bisogna analizzarlo alla radice. Si noti come, soprattutto in età  antica, questo non fosse conflittuale ma perfino di collaborazione. L'INTELLETTUALE E IL POTERE: POESIA NELLA CORTE ELLENISTICA É proprio ad Alessandria d'Egitto alla corte di Tolomeo Filadelfo, in età  ellenistica (323 a.C-30 a.C), che nascono la biblioteca ed il museo, la filologia e le scienze. L'intellettuale che ha la fortuna di vivere in questo contesto dispone di innumerevoli risorse come strumentazione e parchi naturali. É il caso di Callimaco di Cirene (Libia) poeta della corte tolemaica vissuto nel III secolo a.C.

Estratto del documento

opera: dal momento che il popolo romano è il soggetto dell’Eneide, essa “non è più

la tua opera, è l’opera di tutti noi” dichiara Augusto a Virgilio.

IL SETTECENTO ILLUMINISTA:CONSENSO DALL’ALTO O RIFORMA

DAL BASSO?

Nel Settecento si consuma il vecchio modello ereditato dalla classicità nelle corti

rinascimentali, si assiste al tentativo di instaurazione di un nuovo rapporto tra

l’intellettuale (l’arte) ed il potere: l’idea generale era quella di riformare la società

per renderla più giusta attraverso un governo illuminato, che seguisse cioè i

dettami della pratica illuminista (supremazia della ragione e delle scienze contro

ogni forma di fideismo, e riforme sociali e politiche). Per

realizzare quest’idea, che nasce tra le fila della borghesia

francese, gli intellettuali ed i filosofi mirarono

soprattutto ad agire dall’alto, ossia a creare alleanze con i

sovrani; esemplificativa a questo proposito è l’esperienza

di Voltaire il quale fu poeta di corte prima presso Luigi

XV e poi presso Federico II di Prussia e fu il principale

propositore di questo sistema politico. Il limite del

dispotismo illuminato con cui gli intellettuali dovettero

fare presto i conti fu, tuttavia, la sostanziale somiglianza

di ideologie tra i monarchi illuminati e i loro

predecessori, essi erano convinti, infatti, che la corona

gli fosse concessa per volere divino. L’impossibilità di una riforma sociale a partire

Vittorio Alfieri

dall’alto, e cioè dal sovrano, si tradurrà nel tentativo degli intellettuali e filosofi

illuministi, ormai allontanatisi dal potere, di muovere una riforma dal basso, e

quindi dal popolo: di qui le cause scatenanti della rivoluzione francese. Anche in

Italia, come in Francia, la frattura tra l’intellettuale ed il potere diventa sempre più

profonda. Ne è l’esempio il trattato di Vittorio Alfieri Della tirannide del 1777 in

cui l’autore critica aspramente questa forma di governo come la più mostruosa di

tutte le forme e etichetta addirittura il tiranno come un “infrangi-legge” che queste

leggi “può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od

anche soltanto eluderle, con sicurezza d'impunità” ( da Della tirannide ). Nel suo

trattato Alfieri non esita a dichiarare che “non vi può esser maggior gloria che di

generosamente morire per non viver servo” definendo quindi la virtù nel suo

sommo grado quando si sia pronti a morire per la propria libertà ( da Della

tirannide ).

L’INTELLETTUALE E GLI INTRIGHI DI CORTE

La teoria alfieriana trova un esempio

pratico nella vita stessa di Seneca, che

lo stesso autore cita come modello per

la sua morte eroica. Sebbene l’autore

latino sia preso a modello di eroe che

muore per non scendere a compromessi

con il degenerato governo di Nerone, i

rapporti di Seneca con i principes

dell’età giulio-claudia sono alquanto

contradditori. Nonostante la pesante

critica all’imperatore Claudio

La morte di Seneca – Jacques Louis David nell’Apocolocintosi e nonostante

Caligola lo avesse quasi condannato a morte, Seneca va anche ricordato come il

precettore del giovane Nerone, all’alba del suo principato nel 54 d.C. Proprio con le

lodi di Nerone si apre infatti il “De clementia”, trattato scritto negli anni 55 d.C -

56 d.C per insegnare al giovane princeps la pratica del buon governo, fondato

appunto sulla clemenza atta a stabilire un mutuo rapporto tra quest’ultimo ed il

popolo. Quasi sicuramente invischiato negli intrighi della corte neroniana

finanche ad ipotizzare una sua partecipazione all’omicidio di Agrippina, madre di

Nerone, nel 59 d.C come testimonia Tacito nel libro XIV degli Annales (3,10), è

certo che per un motivo o per l’altro Seneca decise di ritirarsi a vita privata nel 62

d.C inaugurando la fase detta del secessus.Tre anni dopo, nel 65 d.C morirà

costretto al suicidio dai sicari di Nerone che lo aveva condannato per un presunto

coinvolgimento nella congiura dei Pisoni.

L’ETICA FERREA DELL’INTELLETTUALE: FOSCOLO E LA DIFESA DEI

VALORI Il suicidio di Seneca (descritto da Tacito nel

libro XV degli Annales 60-64), che peraltro

rientrava perfettamente nella dottrina stoica

della quale egli era un convinto seguace, è

proprio l’aspetto dell’intellettuale considerato

da Alfieri con forte valenza esemplificativa.

Egli deve essere infatti contraddistinto da

un’integrità morale così profonda da essere

anche disposto all’extrema ratio del suicidio pur

di non rinunciare ai propri valori;è proprio

questa la convinzione teorizzata da Alfieri che

verrà presa a modello dal Foscolo e

perfettamente illustrata ne Le ultime lettere di

Jacopo Ortis. In questo romanzo epistolare

Ugo Foscolo (1778-1827) pubblicato nella versione definitiva nel 1817

Foscolo descrive la sua medesima delusione politica in seguito alle vicende

napoleoniche di Campoformio (1797) che hanno visto Venezia ceduta agli

austriaci e deluse le speranze degli intellettuali veneziani di proclamare la liberà

dall’aristocrazia. Con Campoformio, infatti, veniva abolita la Repubblica

Cispadana, istituita quella Cisalpina ed annessa a questa la repubblica

Transpadana (ex ducato di Milano) con la cessione agli austriaci della repubblica

veneta. Nella finzione letteraria la delusione del Foscolo, sotto le mentite spoglie

dell’Ortis, si traduce nell’estrema conseguenza del suicidio: il personaggio di

Jacopo Ortis rispetta, dunque, i canoni dell’eroe descritto da Alfieri, che dovendo

scegliere tra la compromissione dei suoi ideali e la morte, preferisce la seconda

nell’ottemperanza del modello stoico. Il protagonista è lacerato dallo straziante

contrasto tra l’ideale illusorio di un’Italia libera dallo straniero e la drammatica

realtà dell’Italia “schiava, denudata, venduta”, è la lotta dell’individuo estromesso

dalla società ed esiliato in terra straniera. Alla decadenza comune l’intellettuale

Foscolo/Ortis contrappone l’eroismo individuale che deve pur sempre fare i conti

con una società della quale non si sente parte e della quale accusa la

frammentazione, la disorganizzazione e graduale perdita delle radici culturali. Le

ultime lettere di Jacopo Ortis e la vicenda politica reale del Foscolo sono l’esempio di

come alla fine del Settecento si sia ormai ben lontani da quell’ideale illuministico

di fiducia nella storia e al contrario ci si avvicini sempre più ad una totale

destituzione del senso stesso di questa, cosa che avverrà anche in Leopardi (cfr. La

sera del dì di festa).

L’INTELLETTUALE PER LO STATO E CONTRO LA SOCIETÀ

A questo modello di intellettuale che preferisce allontanarsi dalla società

attraverso l’esilio, come nei casi di Seneca e Foscolo, fa tuttavia da contraltare la

figura dell’erudito che invece, pur criticando la società, preferisce rimanere al

servizio dello Stato senza venir comunque meno, ai suoi principi morali. Nella

storia romana, il personaggio che meglio incarna questo modello intellettuale è

Tacito, storico vissuto nell’età dei Flavi e personalità di spicco nella Roma del I

secolo d.C. Al periodo di disaffezione dalla cultura e dalla letteratura,

caratterizzato dalla fine del mecenatismo e da un diffuso servilismo che è l’età dei

Flavi, Tacito sembra assistere in silenzio manifestando sporadicamente il suo

dissenso come nel caso delle critiche a Tiberio (Annales libro I, 7-12 passim) e

Nerone (Annales libro XIV, 3-10). Il ruolo di Tacito come storico di opposizione

emerge principalmente dalle opere in cui egli denuncia il declino della società ed il

servilismo del ceto senatorio di cui egli stesso fa parte: Tacito, infatti, non è un

oppositore del principato anzi ne riconosce la necessità storica, il suo bersaglio è

altresì la decadenza dei costumi romani a cui, ad esempio, oppone la ferrea e sana

disciplina delle tribù germaniche nella monografia dedicata alla Germania (ad

esempio vd. La Germania 18-19). D’altronde modello della condotta politica di

Tacito, è come dichiara egli stesso, suo suocero Giulio Agricola cui dedica una

monografia a lui intitolata. Il generale descritto nelle pagine è l’esempio vivente di

come sia possibile essere un vir bonus anche sotto un regime tirannico:

l’intellettuale Tacito dunque non contempla né la possibilità del suicidio poiché

non sarebbe altro che un venir meno ai propri doveri nei confronti dello stato in

modo plateale per procurarsi gloria, né il servilismo, pratica a causa della quale

anche il Senato, rimasto l’unico polo dialettico in grado di opporsi al princeps, ha

perso la sua funzione. Nell’ Agricola, pubblicato nel 98 d.C dopo la morte di

Domiziano, prende inoltre corpo una dura critica al regno di quest’ultimo, reo di

aver allontanato i filosofi dalla città e di altri crimini contro la libertà di pensiero e

di parola. La figura del generale Giulio Agricola il quale svolge le sue funzioni

attendendo alle responsabilità a cui è chiamato e così contribuendo al buon

funzionamento della macchina dello stato è fortemente esemplificativa se si

considera quella burocratizzazione della responsabilità che prenderà piede

specialmente sotto i regimi totalitari. Essa porterà alla totale

deresponsabilizzazione dell’intellettuale, il quale rimettendosi agli ordini del

regime, in virtù del suo lavoro per lo Stato tralascerà completamente la

problematica etica.

LA CRITICA SOCIALE IN INGHILTERRA: L’EPOCA VITTORIANA

Il problema della critica sociale nella storia moderna, prende piede agli inizi

dell’Ottocento, in tutta Europa. È il caso, in Inghilterra, ad esempio, degli scrittori

dell’epoca Vittoriana (1837-1901) i cui

romanzi si impiantano principalmente

sulla denuncia degli innumerevoli

problemi sociali che la middle-class si

sforza di ricoprire con un velo di

ipocrisia. Tra i maggiori esponenti del

Vittorianesimo si distingue Charles

Dickens (1812-1870) le cui opere si Sfruttamento minorile nell’età Vittoriana

focalizzano principalmente sullo sfruttamento del lavoro minorile: è il caso del suo

capolavoro Oliver Twist. Lo scrittore, di famiglia disagiata, aveva infatti vissuto

sulla sua pelle gli svantaggi che la seconda rivoluzione industriale aveva causato

agli strati inferiori della popolazione come il varo delle poor laws o l’apertura delle

work-houses.

KARL MARX E LA CRITICA DEL SISTEMA

All’incirca nello stesso periodo una forte critica sociale viene teorizzata dal

filosofo ed economista tedesco Karl Marx nei Manoscritti economico-filosofici,

pubblicati solo nel 1932 e nel Capitale del 1867. Nei Manoscritti Marx parla di quella

che egli definisce l’alienazione del lavoro ovvero il divario che si crea tra l’operaio e il

prodotto. Secondo la concezione marxista, infatti, l’uomo si realizzava

originariamente come uomo solo nel momento in cui egli sfruttava la natura e la

manipolava per soddisfare i suoi propri bisogni in

piccole comunità, il corso della storia tuttavia ha

fatto si che ampliandosi le comunità di uomini e

moltiplicandosi i bisogni fosse necessaria la divisione

del lavoro. Il lato negativo di questa “riforma” è che si

vengono così a creare due grandi classi: i capitalisti

che danno lavoro e gli operai, che lo svolgono.

Quando un operaio viene assoldato da un capitalista

per lavorare, non accade più che egli manipoli la

natura per soddisfare i propri bisogni, bensì egli

lavora per soddisfare i bisogni di qualcun altro e ciò

che produce gli viene sottratto insieme agli strumenti

con i quali lo produce; perciò il lavoro è lavoro

Karl Marx (1818-1883) forzato e solo fuori di esso l’operaio si sente se stesso.

Dalla descrizione di questi principi teorizzati da Marx emerge come gli spunti

della sua critica sociale e di quella di Dickens fossero in parte simili.

L’ INDIPENDENZA INTELLETTUALE E LA MORTE DEI VALORI

Nemmeno i più illustri intellettuali italiani si dimostrano estranei a questa forte

denuncia sociale: è il caso di Luigi Pirandello. A differenza di Marx, la cui critica

si basava anche e principalmente sull’indipendenza politica del filosofo che

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