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GIOVANNI VERGA FOTOGRAFO E LO STILE VERISTA
.RACCONTARE IN BIANCO E NERO
Ogni volta che nel panorama storico di una data epoca
entra in scena un nuovo medium, una tecnologia legata
alle comunicazioni di massa, anche la lingua, le forme
stilistiche e le espressioni artistiche vengono sollecitate a
cambiare e ad assumere nuovi caratteri e nuove qualità.
E' il caso della letteratura verista e di Giovanni Verga
che condizionato dalla sua passione per la fotografia finì
per scrivere racconti e romanzi senza l'ausilio dei colori,
in "bianco e nero". Nell’ abitazione di Giovanni Verga, padre del
Verismo, nel 1966 furono ritrovati ben 448
negativi fotografici - 327 lastre in vetro e 121
fotogrammi in celluloide - impressi dallo scrittore
a partire dal 1878.
I negativi ritraggono in parte parenti, domestici,
amici, molti dei quali esponenti culturali del suo
tempo, quali Luigi Capuana, Federico De Roberto,
Eleonora Duse, gli editori Emilio e Giuseppe
Treves, e molti altri.
Molti dei negativi raffigurano anche paesaggi,
scorci di case anche umili, e le vie di paesi come
Vizzini, Scordia e Licodia Eubea completamente
svuotate di gente, forse al lavoro nei campi, che
rimandano a quel senso di mondo fermo e
immutabile che si respira nei racconti.
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Ritraggono anche l'ambiente rurale delle sue
proprietà fondiarie, con i suoi uomini di fiducia ed
i suoi braccianti, dalla figura umile e col volto
ruvido, segnato dal sole e dalla fatica.
Emergono insomma da queste foto non solo quegli scenari naturali e domestici, ma anche
quegli uomini e quelle donne che dovettero certamente servire da modelli ideali,
perlomeno in alcuni loro tratti, per le sue opere letterarie appartenenti alla fase verista,
dalla raccolta di novelle ‘Vita dei campi’, pubblicata nel 1880 - due anni dopo l'inizio
ufficiale della sua attività di fotografo - ai romanzi ‘I Malavoglia’ e ‘Mastro don
Gesualdo’.
In quegli anni la fotografia era diventata una specie di moda d'elite presso nobili,
intellettuali e persone facoltose. Anche gli altri scrittori veristi ed amici di Verga erano
appassionati di fotografia, tanto che fu lo stesso Capuana ad insegnare all'amico di Catania
il procedimento di sviluppo dei negativi. Anche per questo motivo l'attività fotografica
dello scrittore verista è stata considerata dalla critica come un semplice passatempo,
un'adesione alla moda dell'epoca, senza alcuna influenza sulla sua produzione letteraria.
Tuttavia se è vero che la sua adesione ai principi guida della filosofia verista - la
descrizione scientifica dell'ambiente naturale e umano, l'estrema obiettività della
narrazione, il distacco emotivo ed etico da parte dell'autore, l’impersonalità - venne
maturando soprattutto dall'esempio della letteratura naturalista europea, in particolare,
com'è noto, quella del francese Emile Zola, d'altra parte sembra proprio esagerato
affermare che un mezzo di comunicazione di massa e di rappresentazione artistica come la
fotografia non abbia avuto alcuna relazione con la sua letteratura.
Verga come gli altri suoi amici e scrittori veristi apparteneva a quella generazione che vide
crescere e progredire intorno a sé quella nuova tecnologia. Già all'età di 9 anni vide lo zio
paterno Salvatore Verga Catalano scattare fotografie con una delle prime macchine a
cassetta acquistata nel 1849, e della quale si servì poi lui stesso per le sue prime prove.
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Molti altri esempi della nuova tecnologia li vide poi nelle città dove ancor giovane si
trasferì - prima Firenze, poi dal 1872 Milano - e persino tra le mani del suo fraterno amico
Capuana, il quale sin dal 1863 aveva preso a fotografare ed a sviluppare personalmente i
negativi.
Tutti quei primi ritratti fotografici color seppia di gentiluomini e nobildonne che doveva
ammirare nei salotti che frequentava, non potevano non rimandargli suggestioni e
riflessioni circa la rappresentazione del vero, specie se confrontava quelle rudimentali
fotografie con i dipinti degli antenati di famiglia. Un concetto importante sicuramente
dovette farsi strada in maniera sempre più chiara nella sua mente, così come anche presso
tutti gli altri componenti della sua generazione anche se in maniera forse inconsapevole: la
realtà poteva essere riprodotta anche senza la mediazione dell'artista, il quale finiva
immancabilmente per distorcerla come nei dipinti artificiosi e di maniera.
La sua scelta di una forma letteraria più fedele alla realtà dovette quindi procedere di pari
passo con la decisione di darsi anche lui alla fotografia. Ambedue queste scelte erano figlie
oltre che dell'adesione ai nuovi principi naturalistici francesi, anche dell'ammirazione verso
la nuova tecnologia.
Nonostante il gran numero di negativi rinvenuti, una buona parte della produzione
fotografica dello scrittore catanese deve essere andata perduta. I negativi infatti sono stati
ritrovati con molte note aggiuntive nelle quali Verga stesso annotava soggetti, luoghi e
date. Di qualche arco di anni non si hanno dunque fotografie, ed allo stesso modo mancano
totalmente negativi di alcuni scenari fondamentali delle sue opere, per esempio il paese di
Aci Trezza, sfondo del romanzo ‘I Malavoglia’. Questo è stato un altro dei motivi che ha
alimentato presso gli studiosi la convinzione della totale estraneità della sua passione
fotografica nei confronti della sua attività di scrittore.
C'è da precisare comunque che Verga - soprattutto nei primi tempi della sua attività di
fotografo - si affidò ad altri più esperti di lui, in particolare all'amico Capuana, per la
realizzazione di fotografie che riprendessero ambienti e personaggi rurali. In una lettera del
26 dicembre 1881 Verga chiede a Capuana: "…Bisogna assolutamente che tu mi faccia o
mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle
siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche
paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai
farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita…". Difficile escludere
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comunque che da quelle foto, come da altre precedenti e successive, lo scrittore catanese
non sia rimasto suggestionato sempre più - in maniera probabilmente inconsapevole - a
percepire il suo mondo narrativo con la lente del suo obiettivo fotografico, uno
strumento di indagine sociale equivalente ad altri strumenti scientifici dotati di lenti:
"…ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica,
bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare
col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci
un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del
cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà…" (da:
Fantasticheria).
Una traccia significativa di questa sua originale percezione Verga ce la lascia in alcuni tratti
caratteristici del suo stile verista. In primo luogo è estremamente parsimonioso con i
colori anche lì dove paesaggio e ambiente vengono descritti più dettagliatamente.
Nei racconti che compongono le raccolte ‘Vita dei Campi’ e ‘Novelle Rusticane’ Verga
non ricorre a nessun altro colore oltre al bianco e al nero, facendo talvolta filtrare qua e là -
ma molto sporadicamente - anche la citazione di un azzurro, di un verde e di qualche altro
colore. Anche lì dove Verga indugia a dipingere paesaggi rurali, sembra fare a meno di
ogni tipo di tonalità cromatica. Nella parte iniziale della famosa novella ‘La roba’ dov'è
descritta in maniera pittoresca la Piana di Catania vengono nominati una volta sola il verde
ed il rosso: sono le uniche due occasioni in tutta la novella, che per il resto non conosce
altri colori se non quelli "chiaroscuri" (bianchi, neri, grigi, e via dicendo).
Il caso limite tuttavia pare costituito da ‘I Malavoglia’, ambientato ad Aci Trezza, in uno
scenario dominato dal mare, dove il termine "azzurro" ricorre in tutto il romanzo una volta
sola, all'interno di un modo di dire: "…ma la ragazza cantava come uno stornello, perchè
aveva diciotto anni, e a quell'età se il cielo è azzurro vi ride negli occhi, e gli uccelli vi
cantano nel cuore…".
Normalmente dunque nelle opere veriste di Verga, paesaggi, ambienti e personaggi
vengono descritti facendo ricorso, proprio come nelle foto d'autore rigorosamente in bianco
e nero, al sapiente gioco di luci ed ombre, del Sole, della Notte, dei fuochi, e via dicendo.
Inoltre le trame dei racconti sembrano una sequenza di brevi scene neorealiste legate
insieme dalla voce del narratore. 10
All'interno di tali scene i personaggi per lo più umili risaltano come figure in chiaroscuro
sullo sfondo di un paesaggio rurale e umano, grezzo e spesso ostile, ritratto fedelmente
come nelle fotografie che ci ha lasciato. E proprio perchè la struttura d’ogni racconto è
immaginata come una sequenza di "istantanee", chi "ritrae", cioè lo scrittore, riesce a
restarne più facilmente al di fuori, come dietro la sua macchina, al momento di aprire
l'obiettivo sulla realtà.
Pare proprio insomma che la fotografia dovesse costituire per Verga (ne fosse cosciente o
meno) un modello ideale a cui ispirare lo stile dei propri racconti: ma ovviamente solo un
modello.
Lo scrittore catanese non andava di certo a scattare fotografie di gente e paesi con il
preciso intento di studiare i positivi sviluppati e scriverci una novella o un romanzo.
Tuttavia al pari degli altri suoi amici veristi era nato insieme alla fotografia, l'aveva vista
progredire ed aveva imparato ad usarla: dunque la sua visione del mondo e degli uomini
doveva per forza risentire della suggestione della camera oscura fino a suggerirgli di
scegliere uno stile narrativo che "fotografasse" la realtà con le parole, in una forma appunto
obiettiva, impersonale, ed in "bianco e nero".
Ai nostri giorni ad esempio la tecnologia delle videocamere a basso costo e con grandi
capacità di memoria invoglia chi la usa a ritrarre qualunque aspetto della realtà, bello o
brutto, banale o eccezionale. Può avvenire allora una trasformazione nella percezione della
realtà - di uomini e cose - da emotivamente "immediata" come nel passato, ad una forma
sempre più "mediata" da un diaframma ottico che riduce anche gli altri ad un puro e
semplice spettacolo realistico anche se a volte drammatico - con la riduzione delle persone
a semplici personaggi - da osservare "dall'esterno" con un atteggiamento spesso
emotivamente distaccato. Allo stesso modo, nella seconda metà dell'Ottocento la
fotografia, già abbastanza progredita e diffusa, suggeriva un modello di percezione del
mondo in una forma sempre più impersonale, obiettiva e priva di qualsiasi coinvolgimento
emotivo. 11
Verga doveva rendersi ben conto di questo nuovo atteggiamento poichè la sua prima
fotografia in ordine cronologico che ci è rimasta consiste in un "autoscatto" del 1878
dove è in compagnia dei suoi parenti più stretti (la madre, la sorella, uno dei fratelli e la
cognata). In questa fotografia lo scrittore è ancora "dentro" lo spettacolo della realtà cioè
davanti all'obiettivo fotografico.
Successivamente avrebbe accettato molto raramente di farsi fotografare, o di
autoriprendersi, preferendo invece stare quasi sempre dietro la macchina, cioè "al di fuori"
dello spettacolo della realtà, finendo certamente col comprendere ed approfondire sempre
più quell’atteggiamento di "osservatore esterno", al di fuori dello "spettacolo del mondo"
che intendeva trasferire in maniera sempre più precisa nella sua letteratura:
"…Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se
riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e
rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione
della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere…" (dall'introduzione de I
Malavoglia). 12
Tuttavia si rendeva conto che ciò poteva anche non essere sufficiente, poichè così come le