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Sintesi
Sintesi Fotografia e realtà tesina


Nella mia tesina di maturità ho voluto analizzare la fotografia, un mezzo che permette di rendere oggettiva la realtà. In generale fotografare significa porsi davanti a qualcosa che ci colpisce, cercare di fissarlo nei migliori dei modi e dare una interpretazione personale della realtà. Immortalando persone, luoghi visitati, mi era possibile tenere vivi certi ricordi di viaggi fatti assieme alla mia famiglia o anche solo di persone con cui avevo stretto amicizia. Sono molto legata al passato e, purtroppo, la nostra mente non permette di ricordare tutto ciò che vogliamo. Ecco perché la fotografia può diventare una soluzione al problema. Così è nata la mia passione volta a rendere eterno qualsiasi avvenimento ritenessi importante, ma non solo, ho cominciato ad aprire la mente e lo sguardo, ad accorgermi come semplici paesaggi, oggetti, costruzioni, potessero suscitare in me forti sensazioni e da ciò è nato il desiderio di rendere tali emozioni perenni attraverso la fotografia.
La mia nonna mi ha permesso di coltivare questa passione regalandomi una macchina fotografica di superiore livello, alla quale sono legata e che custodisco gelosamente. All'interno della tesina ho creato anche tutta una serie di collegamenti disciplinari, come: la meccanica della macchina fotografica in Informatica, l'occhio in Biologia e il pensiero di Verga in Italiano.


Collegamenti

Fotografia e realtà tesina


Italiano - Verga.
Informatica - Meccanica della macchina fotografica.
Biologia - L'occhio.
Estratto del documento

Ecco un esempio di quelle foto che Verga aveva commentato con un “buono”.

VI

Questa foto è stata scattata a Novalucello nel 1911 e mostra come Verga abbia

imparato ad equilibrare l’uso della luce e delle ombre. Pur occupando solo una

piccola parte del fotogramma, la bambina risalta grazie ad una ripresa

leggermente in diagonale e poiché emerge solo in parte dalla finestra.

La fotografia ricorda uno dei protagonisti delle novelle verghiane, Nedda, in cui si

può appunto leggere:

“La Nedda, appoggiata all’uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di

piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era

fredda e nebbiosa […].” VII

Le immagini sottostanti ricordano la novella Fantasticheria:

“Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, […] i quali hanno la pelle più

dura del pane, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile,

come allora che baciava i vostri guanti.”

VIII

“Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico,

quando il fruscio della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza […].”

IX

“Vi siete mai trovata, dopo una pioggia d’autunno, a sbaragliare un esercito di

formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla

sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestiole sarà rimasta attaccata alla

ghiera del vostro ombrellino […].” X

La fotografia che segue ricorda l’attimo in cui Padron ‘Ntoni de I Malavoglia

aspetta speranzoso la Provvidenza, che si trova in mare con suo figlio Bastianazzo

durante una tempesta:

“Dopo la mezzanotte il vento si era messo a fare il diavolo […]. Il mare si udiva

muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di

sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda […]. Sulla riva

c’era soltanto Padron ‘Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla

Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta […].”

XI

La foto sottostante ricorda la cava del racconto Rosso Malpelo:

“Tutti alla cava lo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir

sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.”

XII

L’immagine che segue raffigura una mendicante con due bambini, che incarna

perfettamente il prototipo dei “vinti”:

“Chi poco ha, caro tiene.” XIII

Concludo riportando la foto di un bambino con in mano la Murer’s Express, che

Verga aveva comprato a Milano:

“Chi non sa l'arte chiuda bottega, e chi non sa nuotare che si anneghi.”

XIV

Nel periodo in cui Giovanni Verga visse a Milano (1872-1893), la sua passione per

la fotografia non si era spenta, al contrario: il grande centro culturale divenne per

lui un’ottima fonte di ispirazione e un nuovo soggetto da immortalare. Il passo che

segue è uno dei frammenti di Verga scritti in vita e mai pubblicati.

I DINTORNI DI MILANO

L’impressione che si riceve dall’aspetto del paesaggio prima d’arrivare a Milano,

per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi

fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi

scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di

alberelli, colle medesime cascine sull’orlo della strada, in mezzo al verde pallido

delle praterie. Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa,

e il paesaggio si vela di tristezza.

D’inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da

sterminate file d’alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino

a perdersi nella nebbia. Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si

affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un

fienile isolato e solitario. Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura

bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca

del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande

città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti

di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella

fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra

calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.

I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio. Basta

salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un’impressione

complessiva. È un’impressione grandiosa ma calma. Al di là di quella vasta distesa

di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura

lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata

da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza

un’ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte. L’occhio la

percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza. E se

rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un’impressione nuova, né

scoprireste un altro dettaglio. È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati

della città. Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi

alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall’altra, lo stesso

muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un

fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi

in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa

più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua

strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di

ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.

Nondimeno il milanese ha la passione della campagna. Bisogna vederlo a San

Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un’idea. Appena la

stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono

a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di

fuori del dazio, XV

polvere. Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante di tanti

isole,

giardini piantati in botti da petrolio. Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti,

i quadrelli di verdura pallida formicolano di un’altra vita, risuonano di organetti, di

chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.

L’uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette. Qui

il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di

alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che

sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano

le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa. La mucca che leva

il muso grondante d’acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e

mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va

lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di

un’osteria, coll’operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla

tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta

colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della

campagna milanese, su di un fondo uniforme. Lo spettacolo grandioso di un

tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d’Armi, su quella bella spianata che

corre dal Castello all’Arco del Sempione; e tuttavia l’effetto più grandioso gli viene

dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di

bronzo che si stampano come una visione del bello dell’arte, in alto, nella gloria

degli ultimi raggi.

Ma la ineffabile melanconia di quell’ora non l’ho mai provata come in una delle

Certose dei dintorni di Milano. Colà, in mezzo a mirabili pagine d’arte, la luce

muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità

dell’arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte,

dalla campagna silenziosa e uniforme. Io non ho mai passata un’ora più tetra

come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di

Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel

caldo meriggio d’aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.

Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete

un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo

lombardo sono riesciti a rendere un po’ del vario e pittoresco che è la bellezza

della campagna. Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in

folla la sua allegria e la sua vita. Tutto ciò infine prova che Milano è la città più

città d’Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed

operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più bel fiore di quella campagna

ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l’uomo ha fatto più della natura.

Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta

Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi

quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di

quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte

quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei

viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo

trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e

quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle

nude, e l’alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non

ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la

piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le

XVI

passeggiate e i dintorni di Milano sono un po’ lontani, è vero; ma sono fra i più belli

del mondo.

Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata

soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi

mettono in corpo la smania del verde e dei monti.

La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del

lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi

orizzonti. Il paesaggio era ancora uniforme. Tutt’a un tratto, dalle alture di

Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi. Allorché

vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante

immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né

meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo. L’ammirazione

è ancora d’impressione, vaga e complessiva. Non è lo spettacolo grandioso del

Lago Maggiore, né quello un po’ teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione.

È qualche cosa di più raccolto e penetrante. Tutto il Lago di Como a prima vista è

in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di

sapere da che parte se n’esca.

A poco a poco comincia a sorgere in voi come un’esuberanza di vita, quasi

un’esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va

svolgendo ai vostri occhi. Sentite che il mondo è bello, e se mai non l’avete avuta,

principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così

grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si

arrampicano come un’immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei

campanili che sorgono da un folto d’alberi, di quelle cascate che biancheggiano

un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su

di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra

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