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Greco - Omero, Iperide, Tucidide, Euripide, Plutarco
Storia - Napoleone, Prima Guerra Mondiale
Inglese - Joyce
1.2 L’UOMO E LA MORTE:
UN LEGAME TORMENTATO
L’unica certezza su cui possiamo basarci e da cui partiremo, infatti, è che l’uomo è un essere
mortale – come ci ha insegnato Heidegger nella sua opera “Essere e Tempo”, «La morte è un modo di
essere che l'Esserci assume da quando c'è» –, e in quanto tale ha sempre cercato una spiegazione a un
evento tanto misterioso quanto incomprensibile.
In epoca antica, il centro del tutto era l’uomo, e proprio in
funzione di tale concezione antropocentrica la morte poteva
essere interpretata in due modi, come precisa un celebre grecista
e storico quale Vernant.
La prima, come si può ben comprendere dal saggio di F. M.
Pontani, che scrive:
«[…] la tempra eroica si manifesta, nella più cospicua misura,
nell’accettazione della realtà evanescente dell’uomo-ombra, a cui
balena come unico scampo la gloria nel compimento impavido della
vicenda d’ognuno e, di là dalla morte, nella memoria degli avvenire»,
[“La morte degli eroi”]
era la concezione di essa come mezzo per l’eroe di ottenere la
gloria eterna, sottraendosi all’oblio di un oltretomba in cui non
rimangono altro che ombre.
Ade, dio degli inferi
Di qui il concetto di “bella morte”, fondata sull’idea di una vita breve ma gloriosa, che protragga in
eterno l’immagine di giovinezza e vigore dell’eroe. Dice infatti Iperide nell’epitafio per i caduti a Lamia:
«Se non sono stati partecipi di vecchiezza mortale, hanno però acquistato gloria immune da vecchiezza e
sono diventati felici in tutto». [“Epitafio per i caduti della guerra lamiaca”, 42]
L’altra visione possibile, è quella che concepisce la morte come privazione malvagia della vita, un
torto nei confronti dell’uomo, quasi un omicidio – si pensi al tedesco, lingua in cui “morte” si dice “Tod”,
termine che deriva dal verbo “töten”, che significa “uccidere”, come fa notare Natoli, professore di
Filosofia Teoretica all’Università di Bari. 6
In ogni caso, la morte era vista come qualcosa di non naturale, non appartenente alla sfera della
vita terrena, e per combatterla la comunità si riuniva nel celebrare la memoria del defunto – di qui
l’importanza del rito funebre. È proprio in questo contesto che si recava omaggio alla memoria dei
morti, con discorsi commemorativi pronunciati da uomini illustri. Tra questi, quello celeberrimo di
Pericle, trasmessoci da Tucidide:
«[…] le nobili azioni di questi uomini e di quelli a loro simili abbellirono i fatti che ho raccontato a gloria
della città, e non per molti Greci come per costoro il discorso d'elogio apparirebbe così proporzionato ai
fatti. E mi sembra che la morte di costoro, ora sopraggiunta, dimostri il valore dell'uomo, sia che ne dia
testimonianza come prima, sia che ne dia conferma come ultima. Infatti, anche per coloro che, in altri
aspetti, sono peggiori, è giusto anteporre a tutto il coraggio impiegato contro i nemici per la patria:
cancellato il male con il bene, recarono pubblico vantaggio più di quanto abbiano fatto del male da
privati cittadini». [“La guerra del Peloponneso”, II, 42]
Emerge quindi un’altra caratteristica della società antica: la vita si svolgeva in una dimensione
collettiva, e qualsiasi evento era visto non
in un’ottica individualistica e personale,
ma riflesso sulla condizione dell’intera
cittadinanza. Questo il significato di
discorsi commemorativi come quello
sopra riportato, che fondessero il
sacrificio e l’eredità etica dei morti con
l’esperienza di vita di coloro che li
compiangevano.
Keramikòs, Cimitero di Atene
Con l’avvento di regimi assolutistici e il conseguente isolamento dell’uomo nella vita privata,
dovuto al forzato allontanamento dall’ambito politico-sociale in cui prima era protagonista, questa
dimensione collettiva viene sempre più disgregandosi, e l'uomo comincia a concepire le sue esperienze
di vita, e di morte, come personali e individuali: ciò porta a una completa trasmutazione dei valori, che
vedono nella morte non più qualcosa di innaturale, ma un processo necessario e comunque ininfluente
sulla vita umana, come si può comprendere dall'epicureo «quando noi viviamo la morte non c'è,
quando c'è lei non ci siamo noi» [“Lettera a Meneceo”, 125]. L'uomo non deve più combattere contro
qualcosa che si oppone alla sua stessa essenza vitale, e questo perché:
7
«l'esatta coscienza che la morte non significhi nulla per noi
rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del
tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità».
[Epicuro, “Lettera a Meneceo”, 124].
Busto di Epicuro, Berlino, Pergamon Museum
Tutti i valori aristocratici del καλός καί αγαθός , che Nietzsche sintetizza nell'espressione “morale dei
signori”, sono soppiantati in favore di quella che il filosofo tedesco chiama “morale degli schiavi”, che pone
al centro il debole, l’indifeso, processo giunto al culmine, secondo ciò che egli stesso afferma nel passo
di seguito riportato, con l’avvento del cristianesimo.
«Non si deve adornare e fregiare il cristianesimo: egli ha condotta una guerra mortale contro questo
superiore tipo di uomo, ha messo al bando tutti gli istinti fondamentali di questo tipo, da questi istinti
estrasse e distillò il male, l’uomo cattivo; - considerò l’uomo forte come quello tipicamente riprovevole,
come “il reprobo”. -
Il cristianesimo ha preso partito per tutto ciò che è debole, umile, mal riuscito, ha fatto un ideale della
contraddizione agli istinti di conservazione della vita forte». [“L’Anticristo”, V]
In epoca moderna, il cui inizio si colloca generalmente nel periodo del Rinascimento, in cui si
riportarono alla luce gli antichi ideali delle
civiltà classiche, si è verificata una laicizzazione
del pensiero filosofico e, più in generale, dei
valori sociali, riscontrabile, ad esempio, nella
tempra eroica che torna a pervadere gli animi
di grandi personalità, quale quella di
Napoleone Bonaparte, che così si espresse:
«L’immortalità è il ricordo che si lascia
nella memoria degli uomini. Quest’idea
spinge a grandi imprese. Meglio sarebbe
non aver vissuto che non lasciare tracce
della propria esistenza».
Jacques-Louis David, “Napoleone Bonaparte al passo di San
Bernardo”, 1800, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Ecco, quindi, che la speranza di una vita eterna e beata in un mondo divino torna a non bastare più
all’uomo, continuamente alla ricerca di una gloria imperitura che gli riservi un posto nell’immortalità
della memoria.
Nel ‘900, però, in seguito a una generale crisi di valori, si genera un mutamento di prospettiva,
prospettando una condizione nella quale viviamo tutt’oggi: la perdita di ogni punto di riferimento,
infatti, dovuto all’avvento di nuove dottrine sia in campo filosofico-psicologico – la nuova concezione
del tempo di Bergson e la psicoanalisi di Freud –, sia in ambito scientifico – con la teoria della relatività
di Einstein –, e la conseguente caduta di ogni valore sociale condiviso, portano a una chiusura totale
dell’individuo in una dimensione estremamente soggettiva e interiore, che lo astrae dai grandi ideali e
dall’appigliarsi a idee che si spingono oltre alla vita quotidiana e concreta. È la caduta, doverosa
secondo Nietzsche, di ogni ideale a cui l’uomo si appiglia per non farsi sconvolgere dall’insignificanza
della vita umana, l’attuarsi di un nichilismo che porta l’essere umano a rigettare ogni valore che lo
astragga dalla cruda realtà del mondo. Solo che a questo processo, sempre secondo il filosofo tedesco,
sarebbe dovuto seguire l’avvento dell’oltre-uomo, di quell’essere che sarebbe stato in grado di accettare
e far proprio lo “spirito dionisiaco” della realtà terrena, recuperando i valori naturali della legge del più
forte incarnati nella “morale dei signori”.
Ai posteri l’ardua sentenza. L’eroe di oggi è il Leopold Bloom dell’ “Ulysses” di Joyce, colui che
riesce a sopravvivere, in quale prospettiva poi non conta, a una dura giornata di lavoro nella frenesia
della metropoli moderna; è colui che
riesce ad accumulare più denaro
secondo la filosofia machiavelliana del
«fine [che] giustifica i mezzi», e che su
quello basa il proprio successo e
accresce la propria fama. Chissà se
questa era l’idea di superuomo che
Nietzsche si era fatta…
Giacomo Balla, “Velocità d’automobile”, 1912,
Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna
Proprio in merito a questa concezione della vita umana, l’uomo di oggi si è chiuso nella sua
individualità, con l’unico ideale del soddisfacimento immediato dei propri bisogni, dovuto alla
superficialità e al materialismo che la moderna società dei consumi ha portato con sé. Di qui, quella che
Freud avrebbe chiamato “rimozione” di ogni concetto che non concerna la vita terrena, di ogni idea che
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non giovi nell’immediato a un’azione concreta e che faccia perdere all’uomo quel tempo prezioso che
adesso, nell’agitazione della città attuale, non può permettersi di perdere, ma che non sarà in grado di
conservare a lungo. C’è quindi un rifiuto del pensiero della morte: tutto è volto al presente, al
quotidiano, al concreto, e ciò che sembra lontano da noi non ci riguarda. E proprio per questo la morte,
come ha individuato il già citato professor Natoli, viene spesso spettacolarizzata, proposta
quotidianamente in tv con i telegiornali, al cinema con le pellicole horror, in un’esaltazione del macabro
così esagerata da far percepire quanto la morte abbia perso il suo significato e la sua gravità, nel senso
etimologico del termine.
Da questo breve squarcio sull’evoluzione generale del pensiero sociale e filosofico, è possibile
quindi comprendere perché ci concentreremo solo su determinati personaggi e precise epoche storiche,
che offrano un adeguato spunto di riflessione su ciò che veramente è, e dovrebbe essere, il significato
della vita umana: il tendere verso un dato obiettivo, il tentativo di perseguire un qualcosa, il cercare un
senso a ciò che facciamo, un perché alla nostra esistenza. Che sia un amore, una passione, o
l’immortalità. Perché, come ci rammenta il vecchio Socrate:
«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta».
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1.3 CHIARIMENTI CIRCA L’ETIMOLOGIA
È bene notare, però, che in φιλοτιμία è presente la radice di τιμή, vocabolo greco che significa
letteralmente “onore”, ottenuto grazie al valore mostrato in guerra (αρετή), secondo la concezione cara
alla tradizione omerica.
Un valore centrale nella società omerica, infatti, qualificata da Dodds - che riprese la definizione di
Benedict - come “shame culture” o “cultura della vergogna”, era quello del κλέος, ovvero della gloria
imperitura che deriva dal compimento di gesta eroiche, secondo l’aderenza da parte del guerriero al
codice comportamentale che il suo rango e il suo stato sociale richiedono.
Andando a puntualizzare, il termine “eroe”, con il quale viene generalmente indicato un individuo
noto per la sua forza sovrumana e per le numerose imprese illustri, deriva dal greco ήρως, termine
ricollegabile etimologicamente al verbo latino “servo”, nell’accezione di “preservare” un ricordo
imperituro di sé.
Questo per sottolineare che ciò che andremo ad affrontare non è la conquista della gloria generica,
ma quella ottenuta con le grandi imprese in guerra.
Battaglia fra Ettore e Achille
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2. LA SCELTA DELLA GUERRA
2.1 IL CAMPO DI BATTAGLIA:
PALCOSCENICO DI GRANDI IMPRESE
Ora, non resta che capire perché proprio la guerra. Ci sono numerose alternative per ottenere
l’immortalità del ricordo: ce lo dimostrano i poeti – da Pindaro a Orazio, fino a Foscolo –, gli scrittori
in generale, gli scienziati, che grazie alla loro intelligenza e alle loro facoltà mentali sono passati alla
storia.
Ma allora perché dover morire per diventare immortali?
Si potrebbe partire da una considerazione che è al contempo semplice, ma risolutiva: la spada esiste