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Sintesi
Italiano - Pessimismo di Giacomo Leopardi
Diritto - Eutanasia
Storia - Il suicidio di Hitler
Inglese - The dead di Joyce
Estratto del documento

Il piacere:

La felicità non può essere raggiunta e i motivi sono molto semplici, secondo Leopardi.

L’uomo cerca un piacere infinito. Soddisfa le sue voglie, ma queste sono di breve durata e per

tale ragione l’uomo è spinto a desiderare di soddisfarne altre e così via. Il momento di ricerca

del piacere finisce per provocare infelicità e noia (cioè sentirsi incompleti), dunque, da qui

possiamo constatare che il piacere infinito non potrà mai esistere, poiché l’uomo ha sensi

finiti, di conseguenza ci sarà solo un unico momento di gioia: l’intervallo tra una sofferenza e

un’altra.

l’infinito:

L’infinito è il nulla, quello a cui l’uomo aspira poiché non si accontenta mai della sua finitezza;

vuole rompere i confini tra spazio e tempo.

L’infinito è la negazione dell’essere: l’essere è limitazione il non essere è il nulla, di

conseguenza, illimitato.

Le fasi del pensiero leopardiano

Nel pessimismo storico, Leopardi sostiene che la natura (meccanismo che muove il mondo

senza finalità; niente si crea, niente si produce e distrugge, ma tutto si trasforma) è benigna in

quanto porta all’illusione e di conseguenza ad uno stato di felicità, che ha durata breve, poiché

quando l’umanità prende coscienza nasce l’infelicità. La ragione è connaturata, l’uomo non

può sottrarsi ad essa è ciò che ci distingue dagli animali. Nel pessimismo cosmico la natura

diventa matrigna, mira solo alla conservazione della specie e non alla felicità del singolo

individuo, generando così solo sofferenza.

La natura diventa matrigna perché:

- nasciamo con il bisogno del piacere, ma quest’ultima non ci fornisce i mezzi necessari per

raggiungerlo;

- ci reca mali esterni, quali: malattia, vecchiaia, morte, terremoti ecc.

In conclusione il tutto si può riassumere attraverso semplici parole: essere in vita è male.

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Concezione della morte

All’interno della poesia: “Canto notturno di un pastore

errante dell’Asia”, composta da Leopardi nel aprile del

1830 a Recanati, possiamo comprendere con estrema

precisione il pensiero che ha il poeta della vita, così come

della morte.

Giacomo Leopardi scrisse questo canto dopo la lettura di un articolo del “Journal des savants”

(Giornale dei sapienti), dove apprese, che alcuni pastori dell’Asia centrale erano soliti

trascorrere le notti seduti su una pietra, improvvisando parole tristi e malinconiche, quanto

l’aria che li circondava.

Analizzando il titolo possiamo attribuire ad esso diversi significati:

- “Il canto”, si riferisce a una dimensione lirica e/o melodica, in questo caso, le parole vengono

scelte per la propria dolcezza;

- “notturno”, ci riporta ad una dimensione esistenziale. La notte è il momento in cui siamo soli

con noi stessi; momento nel quale ci poniamo delle domande esistenziali e rappresenta anche

la morte;

- “di un pastore”, quest’ultimo diventa una guida, che non deve essere per forza un

intellettuale, poiché le domande che si pone sono le stesse di qualsiasi altro uomo;

- “errante”, termine che può avere due significati: colui che sbaglia o che vaga senza meta;

- “dell’Asia”, in questo caso siamo di fronte ad una dimensione della lontananza. L’uomo in

qualsiasi parte del mondo si pone le stesse domande che si pongono tutti.

All’interno di questo scritto, vediamo un distacco

auto-biografico poiché, siamo di fronte ad un

soliloquio tra il Pastore e la luna; quest’ultima

rappresenta una divinità ambigua della vita e della

morte, infatti, essa segna la morte del giorno.

Il pastore si rivolge alla luna, pur sapendo che non

riceverà mai alcuna risposta. Non comprende la sua esistenza poiché: sorge di sera per poi

riposarsi di giorno e ripete quotidianamente lo stesso movimento, senza stancarsi mai. La vita

monotona della luna viene paragonata a quella del pastore, il quale compiendo sempre le

stesse azioni fonda la sua vita sulla noia che porta all’insoddisfazione personale e contribuisce

svogliatezza di vivere. Pag. 7 di 21

Per risponde al quesito sul significato della vita, Leopardi utilizza l’immagine del “Vecchierel”

(in riferimento a Petrarca): una persona debole che è sottoposta a una fatica disumana,

quest’ultima, simboleggia il peso insopportabile dell’esistenza. L’uomo, ancor prima di

nascere, rischia di morire e prova dolore nel momento in cui deve respirare da solo.

Crescendo, quando diventa grande, il padre e la madre hanno il dovere di sostenerlo,

consolandolo di esser nato. A questo punto ci domandiamo: “Perché la vita continua,

nonostante siamo consapevoli di soffrire?” Noi essere umani non siamo in grado di rispondere

alle domande esistenziali che ci poniamo, ma forse la luna può farlo; essa non prova dolore,

quindi ha un sapere perfetto, ha il senso dell’esistenza che sfugge a noi uomini.

La luna vede il mattino e la sera che si alternano, il tempo infinito e silenzioso che trascorre, le

stagioni che passano con una connessione costante. Forse, ha capito il senso di tutto quello

che noi non riusciamo a spiegarci razionalmente. Il pastore però, a differenza di quest’ultima,

sa solo una cosa: che la vita è male.

La vita è male perché ci provoca soltanto sofferenza, ci mette sempre di fronte ad ostacoli che

non possiamo oltrepassare. La felicità è l’intervallo tra una sofferenza ed un’altra, di

conseguenza sono di più in momenti in cui proviamo dolore, rispetto a quelli di gioia, che sì,

possono essere belli, ma durano solo una frazione di secondo, dopo di che il nulla. Lo stare

bene ci lascia con l’amaro in bocca, con il desiderio di volerne ancora di più, ma con la

consapevolezza che non ce ne potrà esserne altro o almeno, non quanto ne vogliamo noi.

Il pastore, infatti, invidia il suo gregge di pecore. Loro sono liberi dalla sofferenza psicologica,

non sanno vivere, non provano sofferenza, loro sono in grado di dimenticare subito. Quando

entrambi trascorrono gran parte della loro vita all’ombra, gli animali sono felici e appagati, il

pastore invece, è avvolto dalla noia. La felicità degli animali sta proprio nel non porsi delle

domande e basterebbe solo questo all’uomo per essere un minimo felice, ma questo non potrà

mai avvenire; siamo dotati di ragione, e non possiamo sottarsi a ciò che la natura ci ha fornito.

Considerazione personale

Per Leopardi, la vita non ha assolutamente senso, ed io stessa mi ritrovo ad essere d’accordo

con il suo pensiero. Insomma, perché nascere se poi dobbiamo morire? Perché farci provare i

dolori della vita, quando potremmo risparmiarceli? Una risposta valida potrebbe essere: “Per

imparare dai nostri sbagli, per saper prendere in mano la vita e farla nostra”, ma non sarei

comunque d’accordo, non è una motivazione sufficiente. Sono del parere che alla fine un po’

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tutti la pensiamo allo stesso modo, ma la situazione viene affrontata in due modi differenti: c’è

chi cerca disperatamente di cogliere dalla vita il meglio, anche laddove non esiste, per illudersi

che in fondo vivere non è poi così male; dall’altra parte però, abbiamo invece coloro che

coscienti del fatto che la vita ha un inizio e una fine, non riescono a capacitarsi dell’idea di

vivere qualcosa a pieno, costruendo fondamenti che poi andranno a finire nel nulla più

assoluto.

Tuttavia, facciamo parte di questa situazione strana, da cui non avremo mai risposte chiare. Di

conseguenza, si arriva fino alle fine; in qualche modo.

“La morte è un punto indolore e

quieto che segna, se non l'inizio della

felicità, almeno la fine del dolore.”

G. Leopardi

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VIVERE È UN DIRITTO,

MA DESIDERARE IL CONTRARIO

PUÒ ESSERE CONSIDERATO TALE?

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L’eutanasia – suicidio,

omicidio o salvezza?

L’eutanasia, è una parola che deriva dal greco antico e il suo significato è: “dolce morte”,

appunto perché è un’azione che ha come scopo principale quello di liberare il morente da

dolori intollerabili, garantendogli una morte degna e, per quanto possibile, serena.

Allora per quale motivo, al giorno d’oggi, è diventato uno degli argomenti più discussi in tutto

il mondo? E soprattutto, cos’è realmente l’eutanasia?

Per molti è suicidio assistito, in altri casi viene denominato addirittura omicidio vero e

proprio, eppure sembriamo solo offuscati dall’egoismo che si cela in ognuno di noi, da non

comprendere che, molte volte, la morte è la strada migliore per qualcuno che si è spento

dentro, in tutti i sensi. Qualcuno che non è più in grado di provare, assaporare e render

proprio con facilità ogni aspetto che la vita gli ha donato, ma che nella stessa maniera, con

estrema scioltezza, gli ha tolto i mezzi necessari impedendogli di poter cogliere davvero

quest’ultimi a pieno.

Per capire meglio, però, bisogna analizzare dalle radici.

Il termine, fu introdotto per la prima volta alla interno del saggio “Progresso della conoscenza”

di Francis Bacon, un filosofo inglese.

L’obiettivo principale di questo scritto era quello di lanciare un messaggio indirizzato,

fondamentalmente, a tutti i medici, i quali erano stati invitati a non lasciare nelle proprie sorti

i malati inguaribili, ma aiutarli a non soffrire. Tutto questo però, venne frainteso; il messaggio

arrivato a destinazione fu il seguente: “dare la morte”.

Nel Giuramento di Ippocrate, si può leggere facendo attenzione, tale giuramento: “Non

somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale

consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”; da questo possiamo

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dunque facilmente dedurre l’opposizione e il voluto fraintendimento da parte dei medici nei

confronti del pensiero di Francis Bacon.

Tra gli oppositori più insistenti, troviamo i seguaci Cristiani.

Secondo questa religione, come tutti ben sappiamo, è Dio stesso a dare la vita all’uomo, di

conseguenza, solo ed unicamente lui è a conoscenza del momento in cui ognuno di noi lascerà

la Terra, da lui stessa creata.

Attraverso il Salmo 139 verso 16, “I Tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo, e nel Tuo

libro erano già scritti tutti i giorni che erano stati fissati per me, anche se nessuno di essi esisteva

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