Elaborato di Maturità sulla bellezza
Difficile dire cosa sia la bellezza, definirla è già un po' offenderla.
Da sempre ci chiediamo se essa sia una qualità, un sentimento o un’emozione, una suggestione oppure una profonda necessità del nostro Io. Può darsi che esista solo per gli occhi di chi guarda, può darsi che ci appaia bello solo ciò che ci piace e che la bellezza sia soggettiva, o forse è oggettiva, universale, assoluta. Potrebbe anche non esistere scientificamente, nonostante i risultati della neonata “Neuroestetica” del professor Semir Zeki (University College of London) sembrino affermare il contrario.
Di sicuro continua a trafiggere il nostro animo, così come trafisse quei primi uomini che nella notte buia della preistoria osarono sollevare lo sguardo verso la sfavillante bellezza della volta celeste.
La bellezza è capace di gratificarci con sensazioni piacevoli dall’origine più disparata, a volte è la natura, a volte sono le idee o l’arte, spesso sono le persone, gli animali o le cose a destare in noi questa magica suggestione, fatta di ammirazione, stupore, desiderio ed inquieta meraviglia.
Per elaborare la complessità e le tante implicazioni che questo sostantivo femminile da sempre riveste per il nostro vivere umano, non possiamo che partire, con grande umiltà e ammirato rispetto, da coloro che per primi, percependone l’importanza, cercarono di connotarla, dando inizio ad una ricerca intellettuale destinata ad oltrepassare certamente il nostro stesso destino.
La percezione estetica (dal verbo greco αἰσθάνομαι ‘percepire mediante i sensi’) è prevalentemente un risultato sensoriale, schiavo dei tempi e dei costumi. Prima i Greci, poi i Latini, seppur con differenti sensibilità, dissertarono, filosofarono e scrissero tantissimo intorno a questo fenomeno del sentire.
Per i Greci del periodo classico (V-IV secolo a.C) nell’idea del bello maturava la profondità del loro pensiero e la complessità della loro problematica intellettuale, espressa in un concetto dal valore estremamente ampio: Kalokagathìa (καλοκαγαθία). La parola nasce dalla crasi semantica di due aggettivi: kalòs (καλὸς) e agathòs (ἀγαθός) letteralmente “bello” e “buono”.
Più che un semplice concetto estetico, indicava un modo di essere, scaturito dall’unione dell’armonia formale, della bellezza esteriore e della perfezione delle proporzioni con la tensione morale ad elevarsi nella virtù e nel Vero.
È grazie ad Aristocle di Atene, noto Platone, che il dialogo filosofico sulla bellezza assurge a tema letterario. Due suoi brani, rispettivamente dal Simposio e dal Fedro, rivestono per la nostra elaborazione un ruolo fondamentale.
Il Simposio (pínō ‘bevo’, col pref. syn- ‘con, insieme’), che Platone scrisse nel IV secolo a.C. è il racconto del racconto di un banchetto immaginario che vede la partecipazione di diversi intellettuali tra i quali spicca Socrate, mentore e maestro dell’autore.
Come consuetudine, i commensali sono tenuti a confrontarsi dialetticamente su un tema, Fedro ha scelto l’Ἔρως, l’amore. È lui stesso a prendere per primo la parola, in un climax crescente che, magistralmente orchestrato dal genio stilistico di Platone, raggiunge il culmine con il monologo di Socrate.
Socrate ci racconta come Diotima, Sacerdotessa di Mantinea e splendida creazione letteraria di Platone, in qualità di esperta dell’amore e delle sue cose, gli abbia rivelato come esso tenda per sua natura verso la perfezione del bello. Scaturisce dalle parole della sacerdotessa una visione estetica che trascendendo dal mondo sensibile diventa bisogno dell’essere di confondersi con l’eterno confluendo nell’universale divino (212°, v. allegato 1).
Nel Fedro (IV secolo a.C), importantissimo dialogo scritto da Platone in piena maturità, l’autore, sempre per bocca di Socrate, ritorna sul tema della bellezza, evolvendone la concettualità con uno stile dell’opera più “poetico” e con una revisione dell’idea di bello in chiave ancora più filosofica.
Il dialogo con Fedro si svolge in un’ambientazione bucolica, allietata dai profumi della natura e da una soffice brezza.
In questo scenario naturalistico non casualmente contrapposto alla goliardia alcolica del simposio, Fedro riporta a Socrate un discorso sull’eros pronunciato da Lisia di Atene.
Lisia argomenta, in classico stile oratorio, la tesi che chi prova amore vive una condizione di confusione mentale, perché travolto dalla passione si rende fastidioso e totalmente inaffidabile.
Socrate, per confutare questa tesi, dopo averla beffardamente integrata di sue personali considerazioni, la smantella con un articolato discorso dove ritroviamo come perno centrale quel concetto estetico-filosofico strutturale alla nostra narrazione.
L’eros, scrive Platone, è bellezza, perché contiene in sé il ricordo ancestrale di quella splendida idea pura a cui l’anima ha attinto nel mondo dell’Iperuranio prima di unirsi alla materia del corpo.
L’eros, il bene e la verità appaiono in questo dialogo indissolubilmente uniti nell’idea di bello, alla cui vista il nostro animo, turbato, reagisce con uno struggente desiderio di possesso, alimentato dal ricordo.
A differenza del Simposio, qui nel Fedro lo stile della scrittura platonica quando Socrate parla della bellezza, appare più pacato, introspettivo, quasi contemplativo.
L’obiettivo dichiarato è quello di guidare l’anima conducendola verso il Bello autentico.
La prosa di Platone scolpisce così le caratteristiche ideali della bellezza, stabilendo un modello destinato a permeare buona parte dell’estetica del mondo occidentale nei secoli a venire.
Il bello attinge al “sublime” (lo stesso termine troverebbe la sua origine etimologica da sub limo o sub limine e identificava ciò che si nascondeva oltre l’apparente banalità), in quanto non è fine a sé stesso, ma grazie alla perfezione della sua stessa struttura spinge l’animo dell’osservatore educato oltre i confini della fisicità, nel tentativo di soddisfare quel desiderio dell’Io che trova pace nell’abbraccio luminoso del Vero.
Alcuni secoli dopo Platone e ad un migliaio di chilometri ad Occidente da Atene, la nostra narrazione della bellezza riprende nella Roma del primo d.C.
I fasti del dispotismo di Nerone (54-68 d.C) non riescono ad attenuare nei raffinati intellettuali del tempo la sofferta percezione di decadenza. Il fiorire delle arti e della letteratura sviluppatesi durante il primo quinquennio del governo neroniano viene ora inquinato dal delirio politico e culturale dell’imperatore.
Le opere più importanti di questo periodo letterario nascono in dichiarato contrasto con il potere: il delitto politico diventa pratica comune.
In questo habitat socio-cultuale splende il genio di Gaio Petronio Arbitro. Nato a Massilia nel 27 d.C, la sua figura incarna l’evoluzione letteraria e filosofica di quel concetto di bellezza ereditato dai Greci.
Nell’ambiente culturale latino del nuovo millennio, meno austero e intellettualmente meno disciplinato di quello ellenico, l’ideale della perfetta bellezza, superando sia l’ossessione greca per la misura (katà mètron) sia buona parte della sua originaria schiavitù etica libera, grazie a Petronio, una concezione estetica assolutamente moderna, ricca di intriganti sfumature.
Il suo personaggio è fondamentale per permetterci di tracciare l’evoluzione dell’idea di bellezza e probabilmente rappresenta il punto di origine di quella concezione estetica spregiudicata ed inquieta di cui oggi non possiamo fare a meno.
Petronio vive e scrive per la bellezza. La sua educata sensibilità ed il suo gusto colto e raffinato lo incoronano arbiter elegantiae e la sua straripante raffinatezza affascina anche Nerone, procurandogli però potenti inimicizie.
Se Petronio è la bellezza, nel Satyricon si rispecchia la sua immagine: un’opera misteriosa quanto affascinante, un esperimento esemplare di romanzo che nella contaminazione stilistica ci regala la parodia di tutto il mondo letterario precedente, e con il linguaggio scurrile e volgare sublima la satira della rozzezza dei suoi contemporanei.
Nel Satyricon la bellezza, così come concepita dal genio letterario e dalla raffinatezza dell’autore, è il prezioso distillato della cronaca del reale e della parodia degli schemi classici. La bellezza è evocata dalla repulsione che il lettore prova nei confronti della misera volgarità dei liberti arricchiti quando, grazie al racconto di Encolpio, partecipa al banchetto di Trimalcione.
In un festival del pessimo gusto, nella malata esibizione di ricchezza, la bellezza acceca per la sua assenza.
Vero trionfo del Kitsch, l’ostentazione dei monili d’oro fatta da Fortunata, moglie di Trimalcione (Satyricon, La Cena di Trimalcione, cap.67, v. allegato 2), liberto incredibilmente arricchito e padrone di casa, stimola il disgusto per l’assoluta mancanza di cultura e di opportunità estetica che caratterizzava quell’ampia porzione della Roma arricchita di allora.
Petronio descrive le situazioni e i personaggi del banchetto con una potente carica realistica, utilizzando un latino preso in prestito dall’oralità popolare del tempo, in sapiente contrasto con le parti narrative dell’opera, dove lo stile letterario appare assai più elevato.
Il libero mescolare di versi e di prosa (prosimetro), gli espliciti riferimenti comici alla fabula milesia e l’alternanza di classico e di volgare rendono impossibile la catalogazione letteraria del Satyricon, evidenziandone l’indiscussa originalità.
Il romanzo di Petronio è stilisticamente indisciplinato, completamente amorale, triviale nel lessico e blasfemo nei confronti del mito.
È in questa parodia che l’autore, solo contro tutti, rimbalza arrogante la sua idea di bellezza grazie ai suoi personaggi contro il brutto dei nuovi ricchi e dei nuovi potenti.
Al dilagare del brutto e del rozzo, Petronio non contrappone una morale, non indica una via verso la bellezza, ma la interpreta, sino alla morte.
Tacito, negli Annales (XVI,18-19), ci regala di lui un’ultima immagine, che ritrae l’incredibile leggerezza del suo essere, capace di recidersi le vene, fasciarle per prolungare l’agonia e partecipare così ad un banchetto frivolo e pettegolo.
Nasce dunque, grazie a quest’opera frammentaria, discussa, censurata, la figura decadente del primo vero dandy, vate ante litteram di bellezza.
È l’origine di una nuova sensibilità estetica, che nata dalla nostra più intima e libera introspezione, diventa ragione suprema per l’esistere e valore supremo in cui morire.
Non c’è simmetria, proporzione, il bello per Petronio è gusto, raffinatezza, spensierato piacere nel poter ridere anche di sé stessi.
Passeranno i secoli, e la bellezza rimarrà tema costante della ricerca artistica e letteraria.
Se la Beatrice tanto gentile e tanto onesta di Dante ci riporta all’immacolata e santa bellezza platonica, I Fiori del male di Baudelaire, il Dorian Gray del ritratto di Oscar Wilde sono testimoni di quell’altra idea di bellezza che, timidamente originata in Petronio, troverà poi piena espressione nell’inquieta e tormentata, folle sensibilità di Gabriele D’Annunzio.
Nella consapevolezza che queste righe sul tema della bellezza lascino, come premesso, più dubbi che certezze, è necessario ricordare che tanti altri autori, artisti o filosofi avremmo potuto asservire alla nostra umile narrazione.
Accanto a Platone, padre del pensiero occidentale, figure come Aristotele e l’Anonimo del Sublime hanno rappresentato le fondamenta della costruzione estetica.
Cosa sarebbe il concetto di bellezza, ancora oggi alla ricerca di sé stesso, senza i carmina di Catullo, la sua immagine di Lesbia, lo splendore dell’essenzialità oraziana, gli originali epigrammi di Marziale?
Ragioni di opportunità e contesto comprimono in queste righe la nostra elaborazione.
La bellezza aspetta che finiscano questi giorni travagliati, questi brutti sogni. Ci aspetta, come ha sempre fatto, schiava e padrona di tutti noi.