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Latino: Apuleio (Le metamorfosi, la favola di Amore e Psiche)
Fisica: dualismo onda particella, teoria corpuscolare di Newton, teoria ondulatoria di Huygens, effetto fotoelettrico, effetto Compton, esperimento della doppia fenditura, principio di complementarietà
La Scapigliatura milanese
La Scapigliatura fu un movimento artistico e letterario sviluppatosi in Italia nella seconda metà
dell'800, che si contraddistinse per lo spirito di ribellione che lo animava. Il termine “Scapigliatura”
è una libera traduzione del francese “bohème”, e venne utilizzato per la prima volta da Cletto
Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti) nel romanzo “La Scapigliatura e il 6 febbraio”.
Il movimento degli scapigliati non fu una scuola organizzata, ma piuttosto una tendenza comune;
esso ebbe il merito di mettere in luce in Italia il contrasto tra artista e società, che era venuto
accentuandosi con il romanticismo europeo. Il sentimento di ribellione che anima gli scapigliati
nasce da quel processo di modernizzazione post-unitario, che aveva spinto gli intellettuali, in
particolare coloro che si dedicavano alle discipline umanistiche, ai margini della società; a causa di
questa situazione, si diffuse il mito della vita dissoluta ed irregolare, che rientra in quella tendenza
che è il “maledettismo”.
L'autore
Arrigo Boito, nato nel 1842, si dimostra fin da giovane
una figura di intellettuale completa e con molte
sfaccettature; conclusi gli studi elementari, infatti, studiò
violino, pianoforte e composizione al conservatorio di
Milano. La sua formazione musicale lasciò un segno
indelebile nella sua esperienza di intellettuale, tanto che
della sua opera più nota, “Mefistofele”, egli scrisse sia le
musiche che il libretto.
Boito si accostò alla scapigliatura grazie all'amicizia con
Emilio Praga, ma, dopo alcuni insuccessi, come il dramma
“Le madri galanti”, allentò i legami con il movimento, e si
dedicò all'attività librettistica, con un certo successo, ed
alla stesura di un altro dramma, “Nerone”, che imase
incompleto; tra i libretti scritti da Boito ricordiamo
“Otello” e “Falstaff” per Giuseppe Verdi. Arrigo Boito
Dopo essere stato nominato senatore, Arrigo Boito morì
a Milano nel 1918. Dualismo
Son luce ed ombra; angelica L'illusion-libellula
farfalla o verme immondo che bacia i fiorellini,
sono un caduto cherubo -l'illusion-scoiattolo
dannato a errar sul mondo, che danza in cima i pini,
o un demone che sale, -l'illusion-fanciulla
affaticando l'ale, che trama e si trastulla
verso un lontano ciel. colle fibre del cor,
Ecco perché nell'intime viene ancora a sorridermi
cogitazioni io sento nei dì più mesti e soli
la bestemmia dell'angelo e mi sospinge l'anima
che irride al suo tormento, ai canti, ai carmi, ai voli;
o l'umile orazione e a turbinar m'attira
dell'esule dimone nella profonda spira
che riede a Dio, fedel. dell'estro ideator.
Ecco perché m'affascina E sogno un'Arte eterea
l'ebbrezza di due canti, che forse in cielo ha norma,
ecco perché mi lacera franca dai rudi vincoli
l'angoscia di due pianti, del metro e della forma,
ecco perché il sorriso piena dell'Ideale
che mi contorce il viso che mi fa batter l'ale
o che m'allarga il cuor. e che seguir non so
Ecco perché la torbida Ma poi, se avvien che l'angelo
ridda de' miei pensieri, fiaccato si ridesti,
or mansueti e rosei, i santi sogni fuggono
or violenti e neri; impauriti e mesti;
ecco perché con tetro allor, davanti al raggio
tedio, avvincendo il metro del mutato miraggio,
de' carmi animator. quasi rapito, sto:
O creature fragili e sogno allor la magica
dal genio onnipossente! Circe col suo corteo
Forse noi siamo l'homunculus d'alci e di pardi, attoniti
d' un chimico demente, nel loro incanto reo.
forse di fango e foco E il cielo, altezza impervia,
per ozioso gioco derido e di protervia
un buio Iddio ci fe'. mi pasco e di velen.
E ci scagliò sull'umida E sogno un'Arte reproba
gleba che c'incatena, che smaga il mio pensiero
poi dal suo ciel guatandoci dietro le basse immagini
rise alla pazza scena d'un ver che mente al Vero
e un dì a distrar la noia e in aspro carme immerso
della sua lunga gioia sulle mie labbra il verso
ci schiaccerà col pie'. bestemmiando vien.
E noi viviam, famelci Questa è la vita! L'ebete
di fede o d'altri inganni, vita che c'innamora,
rigirando il rosario lenta che pare un secolo,
monotono degli anni, breve che pare un'ora;
dove ogni gemma brilla un agitarsi alterno
di pianto, acerba stilla fra paradiso e inferno
fatta d'acerbo duol. che non s'accheta più!
Talor, se sono il demone Come istrion, su cupida
redento che s'india, plebe di rischio ingorda,
sento dall'alma effondersi fa pompa d'equilibrio
una speranza pia sovra una tesa corda,
e sul mio buio viso tal è l'uman, librato
del gaio paradiso fra un sogno di peccato
mi fulgureggia il sol. e un sogno di virtù.
Analisi
Questa poesia è pervasa dal concetto di dualismo, un tema che a Boito, in quella parentesi
giovanile che per lui fu la Scapigliatura, fu fondamentale; la tematica principale della lirica, la
lacerazione causata da due opposti inconciliabili, riprende motivi baudelairiani (ricordiamo la
poesia “Spleen”, di Baudelaire, che fu un'ispirazione per la Scapigliatura).
Fin dai primi versi, Boito fa largo uso di antitesi, con le quali trasforma persino un angelo in un
demonio che scende verso gli inferi, e, viceversa, il demone in una creatura umile che ascende al
cielo. La contrapposizione tra queste due figure, diventa ancor più evidente quando Boito descrive
la “bestemmia dell’angelo che irride al suo tormento”, e “l'esule dimone che riede a Dio”.
Il contrasto tra queste due creature non è l'unico elemento di dualità che crea una separazione
aspra e stridente: persino Dio viene posto in antitesi con se stesso, dipinto come una divinità crudele
che ha creato l'uomo per compiacersi della sua sofferenza.
Un terzo elemento di forte contrapposizione è il dualismo reale-ideale, tema molto caro agli
scapigliati, e ben evidente nell'undicesima e nella quattordicesima strofa; Boito scrive del suo
desiderio di un'arte eterea e pura, che possa cantare l'ideale, ma sottolinea l'impossibilità di ciò (si
tenga presente che la Scapigliatura ebbe il merito di introdurre in Italia i caratteri propri del
Romanticismo europeo, ma, di fatto, non fu in grado di svincolarsi dalla tradizione poetica dal
punto di vista formale). Occorre quindi cantare la realtà, che è negazione del Vero (inteso
filosoficamente come essenza profonda della realtà, ben lontano dal vero storico manzoniano);
nasce così una poesia aspra e sgraziata, che rende solamente più stridente il contrasto tra vero e
Vero.
La lirica di Boito, quindi, è un manifesto non solo del movimento Scapigliato, ma anche del
profondo dissidio interiore dell’intellettuale, nonché della scissione io-mondo, già presente
nell’esperienza leopardiana, e del concetto di dualismo come rapporto personale con la realtà
circostante. Latino
Il dualismo rappresenta un tema centrale nella letteratura di ogni tempo; se ne possono cogliere
distintamente i tratti nel periodo storico precedentemente esaminato, o, ad esempio, possiamo
riconoscerlo nell'Inghilterra di fine '800 come cardine del romanzo “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Una
delle trattazioni più affascinanti, a mio parere, è la favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nei
libri IV V VI delle sue Metamorfosi.
L'autore
Apuleio, di cui non si conosce con certezza il praenomen, è un autore latino vissuto nel II sec. d.C.,
ed è forse una delle figure più misteriose della letteratura dell'epoca.
Di lui si sa che nacque a Madaura, nella provincia dell'Africa proconsularis, e che studiò a
Cartagine, ad Atene e a Roma; egli era, quindi, un intellettuale ricco di interessi, ed una figura
poliedrica. Uno degli eventi che contribuiscono alla sua fama di mistero è il processo per magia che
è costretto a sostenere nel 158; Apuleio, infatti si era unito in matrimonio con la madre di un
compagno di studi, e alla morte di questo, i parenti, temendo di perdere la ricca eredità che
apparteneva a Pudentilla (questo era il nome della donna), accusano l'autore latino di averla sedotta
con arti magiche. Da questo processo Apuleio venne assolto, anche grazie alla sua notevole abilità
di oratore.
Dopo il processo, lo scrittore tornò a Cartagine, dove ottenne varie dignità (come quella di
sacerdos provinciae del culto imperiale, o di sacerdote e propagandista del culto di Asclepio) e dove
proseguì la sua brillante carriera di conferenziere (i Cartaginesi giunsero ad innalzare statue in suo
onore). Infine, la sua morte va collocata probabilmente dopo il 170 d.C., dal momento che da
quest'anno in poi non abbiamo più notizie sul suo conto.
Apuleio rappresenta una figura completa e misurata di intellettuale; egli nei sui scritti prende le
distanze dalla ciarlataneria dei maghi e dei fattucchieri, ma anche dall'estremo opposto, dallo
scetticismo arrogante ed ottuso.
In un passo del “De deo Socratis” leggiamo:
«Tuttavia la folla degli ignoranti, non iniziata alla filosofia, priva di purezza e di vera capacità di
discernimento, sprovvista di senso religioso e incapace di verità, non ha troppo riguardo per gli
dei, o praticando un culto troppo ossequiente o atteggiandosi ad un troppo insolente disprezzo,
pavidi gli uni nella loro superstizione, presuntuosi gli altri nel loro disprezzo»
Da questo brano possiamo cogliere tre punti focali per capire l'esperienza dell'intellettuale
Apuleio; il rifiuto di un'eccessiva ritualità, che è ritenuta superficiale; la concezione di verità come
ricompensa per quella ristretta cerchia di iniziati disposti ad affrontare un lungo e duro percorso; in
terzo luogo, Apuleio vede la verità non come una conquista puramente intellettuale, al contrario,
essa trasforma l'uomo, lo purifica e lo eleva al divino.
L'opera
“Le metamorfosi” (Metamorphoseon libri) è l'unico romanzo latino pervenutoci integralmente, e,
assieme al “Satyricon” di Petronio, rappresenta l'unica testimonianza del romanzo latino; l'opera è
chiamata anche “L'asino d'oro”, un titolo che deriva dal De Civitate Rei di S. Agostino.
La storia centrale vede come protagonista Lucio e la sua trasformazione in asino a causa di un
esperimento mal riuscito, e dalle peripezie di questo che, nell'attesa di riassumere le sembianze
umane, si vede passare di mano in mano, mantenendo però raziocinio umano e riportando le sue
molteplici disavventure.
La narrazione principale, è però spesso interrotta da digressioni di varia lunghezza; la più
importante di queste è la favola di Amore e Psiche, che, per la sua posizione centrale e l'ampio
spazio che le è dedicato, costituisce un piano narrativo a sè, e rappresenta la chiave di lettura del
romanzo.
La favola Antonio Canova, "Amore e Psiche"
La favola ha inizio in una città imprecisata, in cui vi erano un re ed una regina che avevano tre
figlie; l'ultima di queste, Psiche, è tanto bella da non poter essere descritta da parole umane e da
suscitare la gelosia della dea Venere. Questa, divorata dall'invidia e dal risentimento, invia suo figlio
Amore (Cupido) perchè la faccia infatuare dell'uomo più vile della terra, in modo da disonorarla.
Nel frattempo, i genitori di Psiche consultarono un oracolo per conoscere le sorti della giovane che
non trovava marito; il responso è:
«"Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re,
su un'alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato,
ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando
per l'aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta.
Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno
i fiumi d'Averno e i regni bui."»
A malincuore, Psiche viene portata sulla cima di una rupe e lasciata al suo destino.
Tuttavia lo stesso Cupido si invaghisce della fanciulla, e la porta nel suo palazzo, dove ella viene
servita e riverita come una regina, e dove, ogni notte, riceve indimenticabili visite d'amore dalla
divinità.
Ma per non spezzare questo meraviglioso incantesimo, Psiche non può vedere il volto del
misterioso amante; per consolare la solitudine, la fanciulla ottiene di far venire nel palazzo le
sorelle; ma queste, invidiose della fortuna della loro parente, la istigano a spiare il vero aspetto
dell'amante. «La povera Psiche, ingenua e di cuor semplice com’era,