Sintesi
INTRODUZIONE

Fabrizio De Andrè nasce il 18 gennaio 1940 in una facoltosa famiglia genovese.
Dopo una difficile carriera scolastica lascia gli studi di giurisprudenza a soli sei esami dalla fine, mentre la sua carriera da cantautore era già iniziata a fianco ad artisti della cosiddetta “scuola genovese” tra cui Umberto Bindi e Luigi Tenco.
Fin dall’adolescenza frequenta il centro storico della sua città, dove incontra e conosce le persone più disagiate: prostitute e drogati, personaggi che influenzeranno negli anni molti dei suoi testi.

Fabrizio De Andrè è stato ed è tuttora una delle figure di maggior rilievo della storia nella canzone italiana; le sue canzoni l’hanno attraversata per circa quarant’anni - dalla fine degli anni 50’ alla fine degli anni 90’- contribuendo spesso a dimostrare quanto poco senso avesse la considerazione allora largamente diffusa che quella del fare canzoni fosse un’arte minore, di poca importanza.

Ed è proprio la sua originalità, la ribellione verso le idee più conformiste e il bisogno di parlare dei “vinti” che mi hanno fatto avvicinare sempre più ai suoi testi.


“Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. (Per paura che si perda il ricordo di me).”


“Questo nostro mondo è diviso in vincitori e vinti, dove i primi sono tre e i secondi tre miliardi. Come si può essere ottimisti?”

IL TESTAMENTO DI TITO

Tra il 1969 De Andrè lavora alla stesura dell’album “La buona novella”, pubblicato nel 1970.
Si tratta di un album la cui figura centrale è Cristo, considerato da Fabrizio “il più grande rivoluzionario della storia”. Il fatto che De Andrè avesse una certa visione, non proprio favorevole alla religione (pur avendone molto rispetto), ha fatto sì che anche i testi meno estremi fossero interpretati unicamente come blasfemi, portando così alla loro censura.
Con questo album De Andrè intendeva “umanizzare maggiormente le figure bibliche”, ripercorrendone il vissuto raccontato nei vangeli.
“Il testamento di Tito” vede come scenario la crocifissione e l’intero testo rappresenta il tentativo di confutare i 10 comandamenti, basandosi sull’esperienza diretta di Tito, il “ladrone buono” crocifisso insieme a Gesù e Dimaco.


« Durante il rapimento mi aiutò la fede negli uomini, proprio dove latitava la fede in Dio. Ho sempre detto che Dio è un'invenzione dell'uomo, qualcosa di utilitaristico, una toppa sulla nostra fragilità... Ma, tuttavia, col sequestro qualcosa si è smosso. Non che abbia cambiato idea ma è certo che bestemmiare oggi come minimo mi imbarazza »


«Poi ho pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo, il che è esattamente quello che ha fatto l'uomo da quando ha messo piede sulla terra »

LUDWIG FEUERBACH

E’ proprio l’idea del il bisogno di “inventarsi un Dio”, diventato solo qualcosa di “utilitaristico”, che lega l’ateismo di De Andrè alla filosofia di Feuerbach. Secondo Feuerbach, infatti, la religione costituisce una forma di alienazione: uno stato patologico per cui l’uomo si scinde da sè, proietta al di fuori di sè una potenza superiore (Dio), alla quale si sottomette anche nei modi più crudeli ed umilianti infatti, tanto più lo esalta, tanto più si umilia. Afferma quindi che non è Dio -l’astratto- ad aver creato l’uomo -il concreto-, ma l’uomo ad aver creato Dio. Quest’ultimo non sarà altro che la proiezione illusoria, l’ oggettivazione fantastica, delle qualità “più perfette” tipiche dell’uomo, motivo per cui sarà possibile parlare di “antropologia rovesciata”: conoscere e capire l’uomo studiando il Dio che questo venera.
E’ quindi bene studiare la religione, ma questa dovrà necessariamente essere superata dalla filosofia: l’ateismo rappresenterà così la riappropriazione della propria essenza da parte dell’uomo.
Feuerbach, inoltre, crede che l’uomo crei un Dio nel momento in cui si trova a vivere in una natura ostile: Dio diventa la risposta alle debolezze dell’uomo che, in cerca di qualcuno che possa ascoltare i risolvere i suoi problemi, si aliena nella religione.


“La religione costituisce la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo”

UNAMUNO

La oración del ateo

“Oye mi ruego Tú, Dios que no existes,
y en tu nada recoge estas mis quejas,
Tú que a los pobres hombres nunca dejas
sin consuelo de engaño. No resistes
a nuestro ruego y nuestro anhelo vistes.
...
¡Qué grande eres, mi Dios! Eres tan grande
que no eres sino Idea.”


La oración del ateo es un poema de Miguel de Unamuno, célebre filósofo y ensayista de la Generación del 98 que, en sus obras, utiliza con delicadeza la mezcla de poesía y filosofía para demostrar su agonía de carácter espiritual.
La obra, de carácter filosófico-religioso, subraya el sentimiento paradójico desarrollado por el “no creyente” delante de la búsqueda de la fe. El tema central del poema es la lucha entre hombre y Dios, razón y fe. De hecho, según Unamuno, el hombre siente el terror ante la nada y este terror le lleva de manera irracional, a aceptar la religión como una necesidad que lo conduce hacia la inmortalidad: el hombre sabe que no hay nada después de la muerte, pero el terror de la nada le lleva a creer en aquello que la razón niega. En el primero y segundo verso entendemos que Unamuno se dirige a un “Dios que no existe” y que, no obstante ser “nada” recoge las quejas de los hombres: de hecho podemos afirmar que Unamuno se considera ateo no por no creer en Dios, sino por dudar de su existencia.

LA GUERRA DI PIERO

“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.”

[...]

La guerra di Piero, composta nel 1964, verrà pubblicata nel 1966 nel primo album di De Andrè. Si tratta di un testo dalla struttura circolare: il ritornello, ripetuto all’inizio ed alla fine, ci svela già dai primi versi il finale. Il soldato, Piero - dal nome generico che rappresenta tutti i soldati morti in guerra-, è deceduto. Si trova in un “fosso”, identificato più avanti come il campo di papaveri nel quale verrà ucciso. Sono proprio i riferimenti floreali presenti nella prima strofa a darci indicazioni sulla morte: nessuno potrà portare né rose né tulipani sulla tomba anonima che non reca il suo nome. La canzone diventa quindi monumento al Milite Ignoto, militare morto in guerra il cui corpo non verrà mai identificato.


“Ci sono due uomini uno davanti all’altro, uno spara e si salva. L’altro non spara e muore. Ma chi vince? Vince sempre quello che non spara. Quello che non spara è Piero, l’altro non è nessuno.”

BERTOLT BRECHT

Fragen eines lesenden Arbeiters

Man kann das Thema der Anonymität auch in in der deutsche Literatur finden, wie zum Beispiel in “Fragen eines lesenden Arbeiters”, das ein Gedicht des deutschen Dichters und Dramatikers Bertolt Brecht ist. Dieses Gedicht wurde im Jahr 1935 veröffentlicht, als der Dichter im Exil in Dänemark war. Das Gedicht befindet sich am Anfang des dritten Kapitels der Svendborger Gedichte und besteht aus vier Strophen. Der Rhythmus ist frei und man findet kein Reimschema: in der Tat scheint das Gedicht fast wie ein Prosatext.
Das Zentralthema des Gedichts ist der Gegensatz zwischen den Sklaven und den Königen, die Leute, die die Macht hatten (z.B. Alexander, Philipp von Spanien…)
Ein Arbeiter stellt sich viele Fragen, als er ein Geschichtsbuch liest: er möchte wissen wer wirklich die historischen Städte -wie Theben, Babylon, Rom, Byzanz- gebaut hat.
Der Text besteht aus einer Reihe von Fragen jedoch werden keine Antworten gegeben: am Ende bleiben nur Fragen.
Man kann sagen, dass der Leser die Geschichte hinterfragen sollte. Man sollte nicht immer nur die Könige und die Mächtigen erwähnen, sondern auch diejenigen, die geholfen haben, die Kriege zu gewinnen oder die Städte und Paläste aufzubauen.


“So viele Berichte
So viele Sklaven”

GIUSEPPE UNGARETTI

Soldati

“Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.”

Il tema della guerra viene descritto con altrettanta incisione nella celebre lirica “Soldati”, composta da Ungaretti nel periodo finale della guerra. La poesia coglie, in soli quattro versi, la drammatica ed inevitabile condizione di precarietà, la fragilità e la paura che costantemente caratterizzano l’animo del soldato che combatte in trincea.
Ungaretti coglie il carattere comunitario di questa drammatica condizione di vita: il “Si sta” iniziale sottolinea la riscoperta del valore della fratellanza che caratterizza i soldati, accomunati dallo stesso tragico destino. Altro tema toccato da Ungaretti è quello dell’ incerta e logorante attesa, sottolineata dall’utilizzo di enjambement e versi estremamente corti, formati da non più di tre parole: i soldati, paragonati a foglie d’autunno che ormai stanno per cadere, vivono nel costante terrore del loro destino.
L’estrema brevità del testo, elemento che lo caratterizza, porta immediatamente il lettore alla riflessione.

BOCCA DI ROSA

“Bocca di Rosa” è una delle canzoni più famose scritte da Fabrizio De Andrè; contenuta nell’album Volume I pubblicato nel 1967. Il testo narra le vicende di Bocca di Rosa che, con il suo comportamento passionale, sconvolge la monotona quiete del paese di Sant’Ilario. Nel giro di poco tempo Bocca di Rosa si vedrà però costretta a cambiare paese dopo aver provocato “l'ira funesta delle cagnette a cui aveva sottratto l'osso”: sarà proprio l’invidia e l’odio nei suoi confronti che faranno mobilitare le “comare del paesino” affinché Bocca di Rosa potesse andarsene da Sant’Ilario, garantendo così il ritorno della solita tranquillità. Il finale della canzone, totalmente positivo per Bocca di Rosa, la vede arrivare alla stazione del nuovo paesino: è proprio lì che “molta più gente di quando partiva” la sta aspettando, chi per salutarla, chi per regalarle un fiore e chi per “prenotarsi per due ore”. Tra le interpretazioni del testo è molto diffusa quella secondo cui De André abbia voluto rappresentare con questa canzone quella libertà di pensiero e di espressione, che era anche una sua proprietà, sottolineando la chiusura mentale di una Italia ancora molto attaccata e legata a determinati clichè etici e morali.
“L'ipocrisia di certi comportamenti viene, quindi, smascherata dalla condotta poco ortodossa della nuova concittadina che viene celebrata dal popolo maschile e, allo stesso tempo, demonizzata dalle donne del paese che la vedono come la causa dei tradimenti dei loro uomini.”

“C'è chi l'amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l'uno né l'altro
Lei lo faceva per passione.”


PABLO PICASSO

Les Demoiselles d’Avignon

Il tema della prostituzione viene ripreso da secoli anche nell’arte pittorica. Ne è un esempio “Les Demoiselles d’Avignon”, dipinto realizzato da Pablo Picasso tra il 1906 e il 1907. Il soggetto del quadro è proprio la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. Si può facilmente notare la differenza tra le due donne al centro e le altre figure presenti: mentre le prime hanno un volto umano, sembrerebbe che quelle ai lati, specialmente quelle sulla destra, abbiano delle facce che ricordano delle vere e proprie maschere. Si tratta di maschere africane, che proprio in quegli anni, stavano arrivando in gran numero a Parigi e che suscitavano l’interesse di moltissimi artisti, tra cui anche quello di Picasso.
Elemento caratteristico della tela è la combinazione di molteplici vedute prese da differenti punti di osservazione: il criterio della visione simultanea sembra annullare qualsiasi logica anatomica.
Punto di riferimento dell’opera è sicuramente Cézanne: la riduzione della realtà alle sue componenti geometriche più semplici quali il cono, il cilindro e la sfera, l’abbandono della prospettiva tradizionale attraverso la moltiplicazione dei punti di vista e la riduzione della gamma cromatica fanno sì che l’opera rientri nella corrente del cubismo, segnata proprio dall’esposizione della tela nel 1907.
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