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italiano - l'inetto di Svevo
inglese - the darwiniam feminism in virginia Woolf
filosofia - l'evoluzione creatrice di Bergson
storia e sociologia - il social darwinismo
IL RAPPORTO TRA SVEVO E DARWIN: L’INETTO
Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, italianizzato in
Ettore Samigli dopo l'annessione all'Italia della Venezia Giulia
(Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928),
è stato uno scrittore e drammaturgo italiano. Fu autore di romanzi,
racconti brevi e opere teatrali in lingua italiana. In Svevo
confluiscono filoni di pensiero contraddittori e difficilmente
conciliabili: da un lato il positivismo, la lezione di Darwin, il
marxismo; dall'altro il pensiero negativo e antipositivista di
Schopenhauer, di Nietzsche e di Freud. Ma questi spunti
contraddittori sono in realtà assimilati da Svevo in un modo originalmente coerente: lo scrittore
triestino assume dai diversi pensatori gli elementi critici e gli strumenti analitici e conoscitivi
piuttosto che l'ideologia complessiva. Così dal positivismo e da Darwin, ma anche da Freud, Svevo
riprende la propensione a valersi di tecniche scientifiche di conoscenza e il rifiuto di qualunque
ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il destino
dell'umanità nella sua evoluzione complessiva. Svevo rifiuta sempre di aderire totalmente al
sistema teorico di Freud: accetta la psicoanalisi come tecnica di conoscenza, ma la respinge sia
come visione totalizzante della vita, sia come terapia medica. Il rifiuto della psicoanalisi come
terapia rivela nello Svevo de La coscienza di Zeno una difesa dei diritti dei cosiddetti "ammalati"
rispetto ai "sani". La nevrosi, per Svevo, è anche un segno positivo di non rassegnazione e di non
adattamento ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza
alle leggi morali, sacrificando la ricerca del piacere. L'ammalato è colui che non vuole rinunciare
alla forza del desiderio. La terapia lo renderebbe sì più "normale", ma a prezzo di spegnere in lui le
pulsioni vitali. Per questo l'ultimo Svevo difende la propria "inettitudine" e la propria nevrosi, viste
come forme di resistenza all'alienazione circostante. Rispetto all'uomo efficiente ma del tutto
integrato nei meccanismi inautentici della società borghese, egli preferisce essere un "dilettante",
un "inetto", un "abbozzo" aperto a possibilità diverse. È fondamentale l'influenza di Darwin, da cui
derivano il concetto di lotta per l'esistenza (letto in chiave deterministica), l'interesse per le leggi
della selezione naturale e l'idea centrale dell'inettitudine dell'uomo, che Svevo vede, con radicale
pessimismo, inevitabilmente costretto a una ricerca senza sbocchi e senza speranza. L'influsso è
evidente soprattutto nei saggi sveviani di fine Ottocento, come L'uomo e la teoria darwiniana,
dove da geniale dilettante egli prende confidenza con le teorie del filosofo tedesco, preannuncio
dell'approdo alla cultura naturalistica e al verismo e nelle prime prove narrative, dove prende
forma in maniera chiara il "mito pessimista" dell'inetto. La teoria darwiniana della selezione
naturale vedeva il più forte favorito sul più debole; Svevo fonde con originalità darwinismo e
psicoanalisi, arrivando a sostenere nella Coscienza il primato dell’inetto sull’uomo affermato e di
successo. Zeno è un “abbozzo” di uomo, cioè un essere che con la sua mescolanza di positivo e
negativo ha la possibilità di evolversi e la cui condizione finisce con l’essere un privilegio in
opposizione ai solidi borghesi cristallizzati in una forma immutabile. È quanto si legge anche nel
saggio sveviano sulla teoria di Darwin del 1907. 3
THE DARWINIAN FEMINISM IN VIRGINIA WOOLF
In a position of active passivity, Woolf’s characters present a
frighteningly comedic response to war: submitting to degradation,
not just to martial violence but to natural violence, including the
queerly sadomasochistic pleasures of sex. Such sexual submission,
Leo Biryani writes, offers “the terrifying appeal of a loss of the
ego, of a self-debasement” that, by shattering the ego’s
“sacrosanct value of selfhood,” may also prevent “sexuality [from]
becoming a struggle for power.” In Between the Acts, this
degradation emerges through evolutionary tropes of atavism that
derive from Darwin’s theories of natural selection and variation in,
among other texts, The Origin of Species (1859; 1872), The
Variation of Animals and Plants under Domestication (1868), and
the first volume of The Descent of Man, and Selection in Relation
to Sex (1871). Woolf offers these atavistic tropes in earnest; the parotic element of her
evolutionary art derives from Darwin’s misogynist renderings of sexual selection in the second
volume of Descent. Claims like the following, for example, have long made the idea of a Darwinian
feminism seem like a contradiction in terms: Man is more powerful in body and mind than
woman, and in the savage state he keeps her in a far more abject state of bondage than does the
male of any other animal; therefore it is not surprising that he should gain the power of selection.
Women are everywhere conscious of the value of their beauty; and when they have the means,
they take more delight in decorating themselves with all sorts of ornaments than do men.
Whereas most of Descent’s second volume details how sexual selection works on the logic that
females are attracted to their more beautiful male counterparts, Darwin reserves this reductive
characterization of beauty-conscious females for the human species, perhaps under the pressure
of Victorian gender standards. Regardless of his motivations, Darwin makes beauty, rather than
any other aesthetic state, the paradigm of sexual reproduction amongst all species, and he depicts
all females in the thrall of males, whether to their beauty or their power. For Homo sapiens,
Darwin’s alarming conclusion from these explorations is that “man has ultimately become superior
to woman” a conclusion upon which Hitler seizes in his eugenic practices. 4
Critiche alla teoria evoluzionistica: l’evoluzione
creatrice
L’evoluzione creatrice è l’opera con la quale Bergson ottenne grandissima
fama, suscitando un vasto dibattito nella cultura europea. Il filosofo
tentò in questo libro una sintesi metafisica di tutto il suo pensiero,
attraverso un confronto con l’evoluzionismo corrente, e quindi con uno
dei fronti più importanti del positivismo ottocentesco. La soluzione
proposta dal filosofo appare ingegnosa. Egli immaginò uno slancio vitale
originario che avrebbe investito la materia bruta. Da questo incontro
sarebbero sorti gli esseri viventi, le cui caratteristiche diverse sarebbero
state in origine confuse nell’unico slancio. L’incontro con la materia avrebbe determinato
un’esteriorizzazione di quelle caratteristiche originariamente compresenti. Di qui l’evoluzione per
fasci divergenti, attraverso biforcazioni continue, che però conserverebbero in linee evolutive tra
loro lontane, tracce della comune origine (famoso l’esempio dell’occhio di certi molluschi la cui
struttura è analoga a quella dell’occhio dei mammiferi). Così nel primo capitolo, L’evoluzione della
vita, Bergson si confronta con altre teorie dell’evoluzione, e in particolare con due modelli
esplicativi: il meccanicismo e il finalismo. Entrambi gli schemi eliminano di fatto l’intrinseca
imprevedibilità dell’evoluzione. Secondo il meccanicismo, conoscendo tutte le cause attuali si
potrebbero dedurre le forme future della vita. Bergson, al contrario, è convinto che con la vita vi
sia una forte sproporzione tra le cause e gli effetti. Nel secondo capitolo, Le direzioni divergenti
dell’evoluzione della vita, che Bergson descrive le diverse linee evolutive e il percorso che conduce
all’uomo. Nello slancio originario sono compresenti virtualmente tutti i viventi (sebbene in una
forma non paragonabile a quella che assumeranno in seguito). Ad un certo momento, avviene una
divaricazione tra i viventi caratterizzati dallo stato di torpore (i vegetali) e i viventi contraddistinti
dalla mobilità (gli animali). Bergson è consapevole che le cose sono più complesse. E così, per
Bergson, le piante tendono al torpore, e gli animali all’attività. A loro volta, gli animali conoscono
nuove divaricazioni. La più importante è quella tra gli artropodi e i vertebrati, al cui culmine vi
sono gli imenotteri, da un lato, e l’uomo dall’altro. Essi sono i portatori al massimo grado di due
forme diverse di conoscenza: l’istinto e l’intelligenza. Bergson definisce l’istinto la facoltà di
utilizzare strumenti organici. L’animale che si muove per istinto, trova già davanti a sé (o meglio, in
sé) lo strumento di cui ha bisogno e che gli consente un’esecuzione perfetta del lavoro da
compiere: perfetta poiché vissuta dall’interno. E tuttavia l’istinto è gravato da una strutturale
rigidità; svantaggio questo che invece non possiede l’intelligenza, la quale è, all’opposto, la facoltà
di utilizzare strumenti inorganici. L’intelligenza conduce ad una conoscenza imperfetta, del tutto
esteriore, ma aperta, cioè non predeterminata. L’idea di fondo di questo capitolo è rappresentata
dal concetto di interruzione (che si rivelerà coincidente con quello di inversione). Bergson parte
dall’esperienza fondamentale che fa da sfondo all’intera sua ricerca: l’esperienza del proprio
divenire interiore. Egli nota come la concentrazione su se stessi conduca ad una contrazione del
passato nel presente, una compenetrazione di stati che rappresenta l’intera storia personale. È
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questa la precondizione degli atti liberi, come Bergson ha sostenuto nel Saggio sui dati immediati
della coscienza. Ma se, al contrario, ci lasciamo andare, vedremo il passato sfilacciarsi in una serie
di ricordi esteriori gli uni agli altri, come nello stato di sogno. Da un lato vi è dunque contrazione,
concentrazione, compenetrazione, dall’altro distensione, esteriorità. L’idea di Bergson è, allora,
che la distensione si trovi sulla stessa linea dell’estensione. Se la distensione è il rovescio della
contrazione, si può immaginare che la materia stessa non sia altro che un’interruzione del flusso
vitale, e dunque un’inversione rispetto alla direzione dello slancio. Si comprende così la
corrispondenza tra materia e intelligenza: entrambe nascono dallo stesso movimento. Il loro
rapporto si basa su di uno schema che rappresenta il limite ultimo di questo movimento, ossia la
spazialità. La materia, infatti, non è lo spazio, ma vi tende. L’intelligenza aderisce alla materia
proprio attraverso lo schema dello spazio, schema che fa da sfondo all’azione, e che struttura tutta
la sua logica. La nostra illusione sarà sempre quella di credere che la materia, le leggi fisiche, siano
dei fatti, delle realtà positive, quando invece rappresentano soltanto il negativo dello slancio
vitale. L’originario è dunque il diveniente, l’immateriale; la materia e lo statico sono soltanto dei
derivati, i prodotti di un rallentamento, un arresto (mai del tutto compiuto se non nell’idealità
dello spazio) dell’unico flusso del Tutto. Si comprende, dunque, come possano conciliarsi
evoluzione e creazione. L’evoluzione è davvero una creazione di forme nuove di vita da parte dello
slancio, al fine di liberarsi da quella parte dello slancio stesso che ha interrotto il suo cammino, lo
ha rallentato, e si è strutturato di fatto come un’inversione. E poiché la materia nasce da un
ritardo della stessa Vita-Coscienza originaria, si può dire che da questa sia stata creata. Ci si
potrebbe chiedere, allora, che cosa fosse il grande slancio di vita e coscienza prima di incontrare la
materia, alla quale ha dato esistenza, se non Dio. Dio, definito così, non ha niente di compiuto; è
vita incessante, azione, libertà. La creazione, così concepita, non è un mistero, ma la
sperimentiamo all’interno di noi stessi quando agiamo liberamente. 6
LE CONSEGUENZE : IL SOCIAL DARWINISMO
In sociologia il darwinismo sociale identifica una filosofia che ritiene che il concetto di "struggle for