Sintesi
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Il Don Giovanni, modello dell’esteta.
Introduzione
“Te l’ho detto mille volte. Ho una disposizione naturale a lasciarmi portare verso tutto quel che mi attrae..”
Don Giovanni, Johannes; opera teatrale di Molière, opera filosofica di Kierkegaard, che pure hanno il minimo comune denominatore nella tipologia di protagonista: il seduttore. Che quest’ultimo sia creazione letteraria, personaggio storicamente esistito, o semplice maschera filosofica, poco importa; solo all’apparenza, tutti sembrano assomigliarsi tra loro. Ognuna di queste figure rappresenta uno dei modi di essere dello stesso personaggio.
Don Giovanni, seduttore estensivo, elementare, ed immediato, vive ed agisce d’impulso; gode del momento. Si fa promotore della filosofia oraziana del carpe diem (che possiamo ritrovare in ambito artistico nel movimento impressionista, grazie alla capacità, degli artisti che ne fanno parte, di intrappolare l’attimo nella tela). Continuamente ama e continuamente tradisce; in questo unico modo egli riempie la propria esistenza, apprezza e disprezza, è sedotto dalle bellezze e seduce chi bellezza possiede, in un gioco senza implicazioni morali, sentimentali o rimorsi.
Dissacratore, egoista, ingannatore, il Don Giovanni ama per gioco e per piacere, perché altro non vuole e altro non trova da strappare al proprio secolo. Di quest’ultimo critica anzi i vizi, primo fra tutti l’ipocrisia, la finzione, di cui egli “è portatore sano”: seppur egli in prima persona inganni, simuli, dissimuli,  lo fa dietro la  sua maschera  naturale, quella del libertino; e questa è nota a tutti; egli è spregiudicatamente se stesso. Don Giovanni critica, invece, senza riserve, il perbenismo della buona società da cui orgogliosamente si esclude:
“L’ipocrisia è un vizio di moda e tutti i vizi di moda passano per virtù; la parte dell’uomo dabbene è la migliore di tutte le parti che si possano recitare. Oggi la professione d’ ipocrita dà frutti eccellenti. (…)”
Egli escluso da questi frutti eccellenti, decide di adeguarsi:
“Insomma ho trovato il vero modo di fare impunemente quello che mi pare. (…) sarò l’assertore delle ragioni del cielo, e, sotto questo comodo pretesto, incalzerò i miei nemici, li accuserò di empietà. (…) cos’ si ha da approfittare delle debolezze degli uomini; così uno spirito illuminato si adegua ai vizi del suo secolo.”
Don Giovanni raggiunge l’ipocrisia, e per questo, più che per l’impunità con cui per anni ha ingannato, egli è punito dal cielo che lo fulmina.  Quando insomma anch’egli diventa colpevole di sovrapporre una maschera di falsità al suo volto e non manca di puntare il dito contro altri, quando si veste del maggior vizio del proprio secolo, è lì che cade la punizione del cielo (nell’opera teatrale di Molière).
Se Don Giovanni tradisce la morale quando segue spregiudicatamente la propria indole e fa infuriare il cielo quando si veste d’ ipocrisia,   Giovanni Giacomo Casanova non smette di servirsene per sembrare galante e restare comunque inserito, al di là di intrighi, scandali e imprevisti, all’interno della società.
Nel suo carattere è evidente l’impronta della società settecentesca, nonostante l’ambiente in sé per sé non produca reali influssi sulla sua indole. Casanova vive la propria vita liberamente e, orgoglioso di questo, fa di essa un’opera d’arte in cui raccoglie le invidiate, curiose, biasimate avventure della propria vita.
A livello filosofico, Kierkegaard assume il seduttore come emblema dello stadio estetico della vita di un uomo, della fase caratterizzata dal rifuggire la vita con ogni “divertissement”, nel cogliere l’attimo, nella rinuncia alla scelta. Sullo sfondo del Cristianesimo, il seduttore, nel momento ultimo di disperazione, si rende conto che nel libertinaggio egli ha mancato di vivere; il prediligere la filosofia del “carpe diem”, laica e immorale, fa di lui fondamentalmente un disperato.

Le diverse crisi che ad un certo punto rendono un’epoca sull’orlo della decadenza, il vuoto di valori che producono, si riflettono in maniera funzionale nel personaggio del seduttore; si pensi ad esempio alla figura di Andrea Sperelli, protagonista de “Il piacere” di D’Annuzio, di cui lo stesso autore dirà:  “nel personaggio di Andrea Sperelli c’è assai di me stesso colto sul vivo”; corruzione, falsità, inganni, vita mondana, amori e sterile ricerca del piacere: al di là della loro condannabilità, non viene espresso altro che la condizione dell’uomo privo di forza morale, di certezze, che si getta nella vita e non conosce la vita, che cerca la gioia e non riesce a trovarla nel proprio tempo.
Impressionismo
Sdegnati per i criteri selettivi del Salon, nel 1874 alcuni giovani artisti fondarono una “Società anonima cooperativa” che intendeva allestire mostre libere. Ne facevano parte C. Monet, C. Pissarro, P. Cézanne, P.-A. Renoir, E. Degas, l’italiano G. De Nittis e molti altri. La prima mostra fu inaugurata a Parigi, nello studio del fotografo Nadar. Tra le 165 opere esposte, divergenti dai modelli accademici, vi era “Impressione: levar del sole” di Monet, il quadro a cui si deve il nome del gruppo. Gli impressionisti non scrissero nessuna teoria sull’arte, ciascuno di loro mantenne la propria individualità, condividendo però con gli altri alcune scelte fondamentali: l’osservazione diretta del vero e l’esecuzione dei quadri prevalentemente en plein air; la rappresentazione della vita contemporanea di cui erano stati già interpreti Courbet e Manet; l’interesse per la luce naturale e la sua riproduzione mediante il colore.
Gli impressionisti diedero vita ad una pittura nuova, che si concentrò non tanto sui contenuti dei singoli soggetti, quanto sulla modalità di rappresentarli.
Essi volevano riprodurre sulla tela le sensazioni e le percezioni visive che il paesaggio comunicava loro nelle varie ore del giorno e in particolari condizioni di luce.
Con l’impressionismo si afferma una concezione dinamica della realtà, e quindi dell’arte, espressa attraverso una rivoluzionaria tecnica pittorica e volta a fissare gli irripetibili istanti dell’esperienza: per questo possiamo affermare che essi hanno rielaborato in maniera artistica la filosofia del carpe diem oraziano.

Da Orazio a Kierkegaard
Carpe diem (cioè "cogli l’attimo fuggente", vivi alla giornata e credi nel domani il meno possibile)è una famosa massima di Orazio tratta dalla sua opera “Odi”.
La «filosofia» oraziana del carpe diem si fonda sulla considerazione che all'uomo non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo. Solo sul presente l'uomo può intervenire e solo sul presente, quindi, devono concentrarsi le sue azioni, che, in ogni sua manifestazione, deve sempre cercare di cogliere le occasioni, le opportunità, le gioie che si presentano oggi, senza alcun condizionamento derivante da ipotetiche speranze o ansiosi timori per il futuro. Si tratta di una «filosofia» che pone in primo piano la libertà dell'uomo nel gestire la propria vita.
Dal carpe diem oraziano prende spunto l’esteta, figura umana particolare, studiata nel corso degli anni da molti pensatori. Uno di questi fu Søren Kierkegaard (filosofo danese, 1813 -1855).

Secondo Kierkegaard si può esistere in tre diversi modi che si escludono fra loro.
Le possibili tappe sono definite come «sfere di vita» chiuse, autonome e reciprocamente impermeabili, fatte di situazioni che non evolvono: si può vivere tutta l'esistenza in una sola dimensione, si può progredire ma anche regredire. La dialettica di Kierkegaard è, perciò, diversa da quella di Hegel: non ammette sintesi, cioè conciliazione e armonia fra gli opposti, non ammette la continuità di un unico processo dialettico, ma solo passaggio brusco da un opposto all'altro. I tre stadi dell’esistenza sono: lo stadio estetico, quello etico e, infine, quello religioso.

Lo stadio estetico

Lo stadio estetico è quello in cui l'uomo manifesta indifferenza nei confronti dei princìpi e dei valori morali. L'esteta non crede nelle leggi etiche tradizionali. Ritiene invece fondamentali i valori della bellezza e del piacere e a essi subordina tutti gli altri valori (anche e soprattutto quelli morali). L’esteta è teso solo al soddisfacimento di nuovi desideri e considera il mondo come uno spettacolo da godere. Si lascia vivere momento per momento: si abbandona al presente fuggendo legami con il passato (rinunciando al ricordo) e con il futuro (non avendo speranza). Vive nell’istante, cioè vive per cogliere tutto ciò che vi è d’interessante nella vita, trascurando tutto ciò che è banale, ripetitivo e noioso.
Il tipo dell'esteta è per Kierkegaard il “seduttore”, rappresentato dal personaggio di Don Giovanni, il leggendario cavaliere spagnolo prototipo del libertino, immortalato nell'omonima opera di Mozart. Egli non si lega a nessuna donna particolare perché vuole poter non scegliere: il seduttore è sciolto da ogni impegno o legame e vive nell'attimo, cercando unicamente la novità del piacere. Seduce migliaia di donne senza riuscire ad amarne davvero nessuna; è la figura che incarna la sensualità, l’erotico.
Ma Kierkegaard esprime un giudizio negativo sull'esteta. Infatti, chi non sceglie e si dedica solo al piacere cade ben presto nella noia, cioè nell’indifferenza nei confronti di tutto, perché, non impegnandosi mai, non vuole sentitamente nulla. La noia è, infatti, uno stato esistenziale che sorge quando una persona è demotivata. Inoltre, se l’esteta si ferma, cioè se smette di ricercare il piacere e riflette lucidamente su se stesso, è assalito dalla disperazione. Poiché ha scelto di non scegliere non si è impegnato in un programma di vita. Egli non è nessuno, è nulla. Ha rinunciato a costruirsi un'identità, una personalità definita. Avverte così, con disperazione, il vuoto della propria esistenza, senza senso e senza centro: la disperazione è il terrore del vuoto, del non essere altro che niente.
Da Kierkegaard a D’Annunzio

“nell'arte d'amare egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nell'ipocrisia.”

Come Kierkegaard, anche Gabriele D’Annunzio scrive un’opera sulla figura dell’esteta, attraverso il suo romanzo “Il piacere”.
Lo scrittore italiano fu uno dei maggiori esponenti del Decadentismo.
Il termine “decadente” fu, in origine, usato in senso dispregiativo, per indicare giovani poeti che vivevano fuori dalle norme comuni, considerati simboli di una decadenza sociale che disprezzava il progresso e la fede nella scienza del positivismo. Più tardi passò a designare la dilagante decadenza della società materialista di fine secolo.
Questo movimento diede origine a diverse correnti o poetiche particolari.
Fra le tante ricordiamo:
- l’estetismo;
- il superomismo;
- l’antropomorfismo.

L’estetismo
L'estetismo è un movimento artistico, soprattutto letterario, sorto in Francia nella seconda metà dell'800. Questa corrente culturale si fonda sull'imperativo dell’ “l'arte per l'arte”, vedendo dunque, in questa, l'unico e sommo fine della letteratura. L’estetismo si basa sul culto della bellezza e tende a rendere l’artista eccezionale. L’unico valore morale che deve muovere quest’ultimo è il “bello”: nascono così la figura del dandy, l'eccentrico che si diverte a stupire il pubblico con atteggiamenti trasgressivi, e il “dandismo”, uno stile di vita basato sull’eleganza e sulla raffinatezza del comportamento esteriore.

Il maggiore esponente dell’ estetismo, in Italia, è Gabriele D’Annunzio, che tratta la propria teoria nella sua opera “il Piacere”, composta nel 1889.

Il protagonista del romanzo è il conte Andrea Sperelli (l’alter ego di Gabriele), un “dilettante”, un gentiluomo raffinato, frequentatore assiduo di festini sontuosi nei salotti e nei ritrovi eleganti: votato al “culto della bellezza”, ha sostituito il senso estetico al senso morale.
Egli possiede un’ “anima camaleontica, mutabile, fluida, virtuale”, che rivela una coscienza priva di centro.
Come l’ “io” del protagonista si rivela multiplo e inafferrabile, così la narrazione si fa fluida e discontinua.
Alle radici della parola dannunziana sta perciò una visione dell’esistenza come “trama scucita” di apparizioni effimere, collezione eterogenea di istanti isolati.
Andrea ricerca, quindi, così tanti piaceri che non capisce più nemmeno cosa vuole e non sa più chi egli è.
Succube degli insegnamenti del padre, da cui apprende la massima “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte.”, egli non può essere considerato un “superuomo”, semmai un “inetto”: non agisce per volontà, segue soltanto le orme del padre.

Da D’Annunzio a Wilde
Another important exponent of the Aesthetic movement was Oscar Wilde.
The Aesthetic movement reflected the sense of frustration and uncertainty of the artist, his reaction against the materialism and the moral code of the bourgeoisie, his need to redifine the role of art.
Art had no reference to life, and therefore it had nothing to do with morality, and need not be didactic.
Wilde adopted “the aesthetic ideal”, as he affirmed in one of his famous conversations: “My life is like a work of art”. He lived in the double role of rebel and dandy (he can be distinguished from the bohemian: while the bohemian allies himself to the proletariat, the dandy is a bourgeois artist who remains a member of his class).
His aristocratic elegance is a symbol of the superiority of his spirit.
Wilde’s interest in beauty had no moral stance. He affirmed in the Preface of his novel (“The Picture of Dorian Gray”): “There is no such thing as a moral or immoral book. Books are well written or badly written. That is all”.
In this way he rejected the didacticism of Victorian novel in the first half of the century .

He believed that only “Art as the cult of Beauty” could prevent the murder of the soul. Wilde perceived the artist as an alien in a materialistic world, an outcast.

La “Belle Epoque”
Wilde, così come molti altri artisti, operò in un’età chiamata “belle époque”, che fu un periodo di pace e di sviluppo vissuto dalla borghesia europea tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la Prima guerra mondiale. Il nome di “bella epoca” è dovuto a un mito creato a posteriori, che ne sottolineò gli aspetti di creatività e di spensieratezza.
La Prima guerra mondiale mise dolorosamente fine a questa “innocenza di vita”, come la definì il poeta boemo Rilke, e rappresenta dunque un sicuro termine di periodizzazione; più discusso è invece il criterio della datazione iniziale, a seconda che si voglia fare riferimento al 1880, anno di grande importanza dal punto di vista finanziario, o alla Exposition Universelle di Parigi del 1900 nella quale trionfò l'illuminazione elettrica, o ancora ai dati della biografia dello scrittore francese Marcel Proust (1871-1922), massimo interprete del periodo. Capitale riconosciuta della belle époque fu Parigi, la ville lumière.
Dopo l'inaugurazione obbligata ad Atene, la prima sede delle Olimpiadi moderne, nel 1900, fu Parigi; il bridge, ma anche il tennis e lo sci, importati dall'Inghilterra, rappresentarono una nuova autentica occupazione per la società "bene", mentre la bicicletta rimase un mezzo di lusso fino al 1900. Erano un'attrazione le tecniche di illusionismo di Meliès, le prime pellicole dei fratelli Lumière, la quantità di circhi (Nouveau Cirque) i cui spettacoli fastosi, eroici e divertenti ispirarono i pittori Degas, Seurat e Toulouse-Lautrec.
La borghesia parigina, esperta frequentatrice di ristoranti d'eccezione, si appassionava al teatro e all'opera, ma esprimeva disinteresse verso le tendenze più significative dell'arte, a cominciare dagli impressionisti.
Gli artisti si dimostrarono, in gran parte, sensibili al fascino dell’ “l’arte per l'arte”, all'ispirazione della bellezza e dell'atmosfera serena, esprimendo così il desiderio dei contemporanei di non essere coinvolti o addolorati dalla vita. Il successo parigino di D'Annunzio ne fece un simbolo di questo rovesciamento della vita nello spirito.
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