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Sintesi

Introduzione Bellezza che nasce dal dolore, tesina



Siamo la somma di tutto quello che è successo prima di noi, di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi, di tutto quello che ci è stato fatto. Siamo ogni persona, ogni cosa, la cui esistenza ci abbia influenzato, o che la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti. Siamo il risultato delle nostre esperienze, delle nostre sofferenze, della nostra rabbia e delle nostre gioie. Siamo conquista. Siamo instabili imperfetti. Così. Umani e per questo vivi.

La tesina mira a descrivere il tema della bellezza che nasce dal dolore. Essere vivi ci espone all’esperienza della vita, alla sua complessità, alla sua meraviglia come anche al suo orrore. Qualcosa che il genere umano stenta continuamente ad accettare perché comporta un dolore troppo grande, perché ci mette a confronto con emozioni e sentimenti importanti, intensi, più o meno terribili, perché tollerare il dolore che alcune esperienze comportano mette a nudo la nostra piccolezza, la nostra vulnerabilità, la nostra pazienza, la nostra salute.
Ad ognuno di noi è capitato di imbattersi in periodi bui, momenti più o meno lunghi d’ombra in seguito ad eventi dolorosi o improvvisi. La perdita, un lutto. Un cambiamento. In questi momenti sembra che niente abbia più senso, ci si sente svuotati, privi di energia, impotenti e senza speranza. Spesso si prova rabbia per il destino che si è “accanito su di noi”, per la vita crudele. Ma è proprio in questi periodi d’ombra che possiamo trovare la nostra luce, il nostro tesoro nascosto. Quando si parla di bellezza in relazione al dolore ci si riferisce proprio a questo: alla valenza positiva della sofferenza che ci aiuta a scoprire le parti più belle e profonde di noi. Certo è che si cresce anche e soprattutto attraverso la gioia ma la vita purtroppo, non è fatta solo di cieli azzurri e prati verdi.
Dobbiamo essere capaci di danzare durante una tempesta e non aspettare necessariamente che passi, e trovare la fogliolina verde nel deserto più arido, colorare con le tempere i muri grigi della mente e sorridere e distruggere i limiti che la vita vuole imporci. Grazie alla crisi ci si può reinventare e trovare energie creative per ridisegnare la nostra esistenza.

Collegamenti


Bellezza che nasce dal dolore, tesina



Filosofia: Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Soren Kierkegaard, Slavoj Zizek. Dalai Lama. Cristianesimo e Buddhismo.
Italiano: Giacomo Leopardi.
Inglese: John Keats.
Musica: L.V. Beethoven, Fabrizio De André.
Arte: Frida Kahlo, vita e opere.
Estratto del documento

Noi ricerchiamo ciò che ci fa star bene

Certo è che l’esigenza primaria di ogni individuo è un’esigenza di benessere, di espansione

fiduciosa delle proprie potenzialità. Ed è alleandosi con questo pensiero che noi possiamo

collaborare ai processi di maturazione della psiche individuale e guardare al percorso doloroso

come un tentativo di far fronte ai propri fantasmi, i propri ostacoli, manifestando insieme al

conflitto il desiderio di difesa.

Già Aristotele asseriva che tutti gli uomini cercano la felicità, sin da piccoli.

Freud sosteneva che il fine del principio di piacere è la felicità. Tale aspirazione si sa che è in

continuo conflitto col mondo interno: la realtà impone agli uomini di rinunciare al piacere, essa

frustra tale desiderio. Ma le frustrazioni e l’ostilità del mondo intero non dovrebbero essere

sufficienti per spegnere in un’anima umana la voglia di lottare per conquistare la felicità, dal

bimbo che piange fino ai limiti dello sfinimento perché desidera il seno materno all’innamorato

che attraversa tempeste per la sua amata.

Se ripercorriamo le tappe dello sviluppo umano, dalle prime fasi dell’esperienza scopriamo che

sin dagli inizi della vita noi coloriamo l’esperienza affettivamente. Per il lattante, buono e cattivo

sono le uniche forme attraverso cui viene percepita l’esperienza. Qualcosa è buona se è

gratificante, gradevole, piacevole, carezzevole, se apporta una sensazione di calma, di benessere,

di appagamento. La fame, la sete, il freddo, il bagnato, lo sporco, il rumore, gli stimoli eccessivi

sono cose cattive, che generano angoscia, che dispiacciono. La madre cattiva non è

necessariamente una madre deprivante, semplicemente è colei che non corrisponde adeguatamente

ai bisogni del bambino, che gli lascia sperimentare troppo a lungo l’assenza del piacere. Se poi

costituzionalmente questo bambino è insofferente alla frustrazione, se non riesce a tollerare

minimamente che la soddisfazione venga differita, allora sarà estremamente esposto ad affetti

aggressivi che, proiettati sull’agente delle cure, trasformeranno l’esperienza dell’altro in

un’esperienza persecutoria cattiva.

La sofferenza può essere interpretata come una negazione di se stessi, negazione avvenuta in 9

un’epoca molto importante per la formazione della personalità, qual è appunto la prima infanzia

Questa modalità infantile di fare esperienza dell’altro riguarda spesso anche individui adulti e in

analisi avviene che il lavoro subisca particolari arresti dovuti all’intolleranza da parte del paziente

verso l’atteggiamento analitico, sentito come privativo e frustrante. In questi casi l’esperienza,

come nel caso del bambino, è sentita come “cattiva” e soltanto in seconda istanza l’individuo si

renderà conto del senso di rispetto, di attenzione per i suoi tempi di maturazione e per la sua

autonomia, contenuti nel dosaggio di vicinanza e di distanza dell’analista.

Quando bramiamo qualcosa scavalchiamo montagne pur di raggiungerla, sebbene il nostro destino

sarà soffrire. In realtà dal dolore non si guarisce, anche se - e oggi più che mai- chi soffre chiede di

essere aiutato a non patire più.

(1928); Il concetto di inconscio collettivo (1936); Ricerche sul simbolismo del Sé (1951).

9 Eros e Pathos Aldo Carotenuto, 1991,678 16

Il deserto e la forza delle parole

Per il paziente desideroso di guarire, l’analisi produce paure e resistenze.

Il lavoro analitico opera un mutamento dell’assetto raggiunto, giocando a favore di una messa in

crisi del soggetto, dei suoi precedenti valori e delle convinzioni più radicate. Propone

all’individuo il passaggio del deserto, con tutti i suoi rischi e i pericoli che esso comporta. È pur

sempre un viaggio con una guida, ma non può non suscitare ansie e resistenze.

Le sofferenze sono per noi la scuola delle passioni dell’anima e sin in dall’origine, il bambino si

10

nutre di parole quanto di pane e perisce di parole

per questo la parola, anche laddove tutto sembra ammutolire, resta la sola via di accesso al dolore.

Il dolore è il testimone di quest’avventura, – questa follia per cui l’uomo si crede uomo – in effetti

miracolosa, di essere esistiti per, attraverso, in vista di un altro. Se possiamo anche dire che il

sintomo è la parola del malato o che è la verità del desiderio che grida nel sintomo, allora la cosa

che bisogna fare è dare la parola al soggetto. L’analisi può essere il luogo d’asilo dei supplicanti,

luogo d’ascolto di un disagio inevitabile in cui si avverte, a volte – in mezzo alla chiacchiera

sommessa e continua con cui giustifichiamo noi stessi– che la volontà di vita vacilla. Lì allora

possiamo tentare la scommessa di aiutare a non soffrire troppo della fragilità dell’esistenza,

dell’inconsistenza stessa di questo grumo che noi siamo, frutto di un’alchimia di identificazioni,

tenuti insieme da legami amorosi. L’analisi può essere il luogo dove il grido di sconforto primario,

del tempo dell’incontro col mondo che si ripete ogni volta che qualcuno parla a qualcuno, possa

trovare un ascolto ed un rilancio che gli restituisca la parola.

È possibile non soffrire troppo del dolore di esistere?

Il labirinto può essere un luogo abitabile?

Il cammino può risultare tanto interessante quanto la meta?

La vita, può fare a meno di un perchè?

Questioni che possono essere articolate quando le voci della sofferenza trovano infine accesso alla

parola. Ci si potrebbe accorgere di ciò che, troppo impegnati a difenderci, non riusciamo a vedere:

che la gioia – per definizione è sempre pazza – c’è, accade, nonostante la causa della vita appaia

spesso indifendibile.

10 J. LACAN, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du je (1949), in Ecrits, cit., p. 99. Jacques Lacan (1901-1981) è lo

psicoanalista francese famoso per aver posto il suo insegnamento sotto l'insegna di un ritorno a Freud. Egli si è dato come obiettivo quello

di chiedersi a quali condizioni la psicoanalisi fosse possibile, di interrogarla a partire dall'esperienza clinica, di condurre la logica della

scoperta freudiana fino alle sue ultime conseguenze e, infine, di applicarsi alla formazione dello psicoanalista perché possa essere

all'altezza del suo compito. Lacan ha fatto ricorso ai vari saperi dello scibile per comprendere ciò che Freud chiamò inconscio. L'asse del

suo insegnamento è pertanto sempre centrato sulla pratica clinica della nevrosi, delle perversioni e della psicosi. Fondò una sua propria

società che chiamò Scuola Freudiana, l'Ecole freudienne de Paris, perché uno psicoanalista è e deve essere sempre in formazione, e

formazione in linea con la scoperta di Freud, ossia l'inconscio.

Il suo insegnamento, perseguito per più di trent'anni, è trasmesso nel volume degli Ecrits e dalla serie dei diversi volumi del suo

Séminaire, A. Di Ciaccia, «Lacan, Jacques», Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, vol. II,

Einaudi, Torino, 2007, pp. 629-633) 33 Cfr. J. LACAN, Le Séminaire. Livre VII, L’éthique de la psychanalyse.

J. LACAN, Seminario IV. La relazione d’oggetto, Einaudi, Torino 1996, p. 204.

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Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità.

F. Nietzsche, Ecce Homo

La Porta Rossa

Tecnica mista su tela, cm 80x100, 2013 Emilio Alberti, Labirinti

Non esistono altre strade per la propria maturazione psicologica che quelle che attraversano luoghi

incerti e faticosi, le tante “selve oscure” dell’iniziazione alla psiche, selve paurose e buie analoghe

a quella della celebre Divina Commedia di Dante Alighieri, la quale non è altro che l’allegoria del

peccato e del dolore in cui ogni uomo può perdersi nel suo cammino durante questa vita. Dante

plasma la vita umana, la vicenda dell’uomo che smarritosi nel peccato raggiunge la

consapevolezza del proprio errore attraverso un percorso tutto in salita, ma che gli donerà

consapevolezza di sé e la salvezza, in un viaggio disseminato di fatica, dolore, ricordi, grande

sofferenza. Un viaggio che è la vita. Il messaggio del poeta è chiaro e forte: è necessario avere la

forza di uscire da soli e consapevoli dalla selva per incamminarsi da soli verso il monte, verso la

vita.

Passo dopo passo, l’uomo persegue un sentiero dove solo con grande forza d’animo riuscirà a

superare lo spavento e ad uscire con dignità da quella situazione così amara e angosciosa.

È lecito e naturale che un uomo smarrisca se stesso a causa degli errori compiuti, a causa della

sofferenza e del dolore ma se gli verrà data e si concederà un'altra possibilità, saprà trarre profitto

dalla sua amara esperienza per insegnare agli uomini l'amore per il bene, la giustizia e la verità

delle cose. Egli, specchio d’ogni essere umano, per far fronte alla sofferenza e alla difficoltà, è

costretto a un lungo excursus nel quale dovrà trovar la fiducia in se stesso, nella propria capacità

per risollevarsi e saper distinguere il bene dal male. Il sole, cioè la natura, aiuterà a capire la

differenza tra verità e falsità.

Il sole è quella illuminazione interiore che dà la forza per riemergere dall'abisso, è la coscienza

conforme a natura, che improvvisamente si risveglia, intuendo che deve opporsi con energia alla

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11

artificiosità dei rapporti umani

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;

ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,

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dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte

[…]

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno

che tu mi segui, e io sarò tua guida,

e trarrotti di qui per loco etterno,

ove udirai le disperate strida,

vedrai li antichi spiriti dolenti,

ch’a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti

nel foco, perché speran di venire

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quando che sia a le beate genti

Anelito alla completezza

11 La Divina Commedia, scritta in terzine incatenate di versi endecasillabi, in lingua volgare fiorentina, composta tra il 1304 e il 1321

circa, (anni del suo esilio, voluto da Bonifacio VII, in Lunigiana e Romagna a causa della sua adesione ai Guelfi Bianchi in contrasto con

la politica dei Neri –pro espansionismo papale- i quali occuparono la Firenze trecentesca) è l'opera più celebre di Dante, nonché una delle

più importanti testimonianze della civiltà medievale; conosciuta e studiata in tutto il mondo, è ritenuta da alcuni il più grande capolavoro

della letteratura di tutti i tempi. Il poema è diviso in tre parti, chiamate cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali

composta da 33 canti (tranne l'Inferno, che contiene un ulteriore canto proemiale). Il poeta narra di un viaggio immaginario, attraverso i

tre regni ultraterreni che lo condurrà fino alla visione della Trinità. La sua rappresentazione immaginaria e allegorica dell'oltretomba

cristiano è un culmine della visione medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica. L’opera, nella sua immensità è, tra le tante

cose, un emblematico viaggio nell’esperienza del dolore. L' aver scorto un colle rischiarato dalla luce divina non è che il primo passo del

percorso di redenzione, di Dante e dell’umanità.

12 Vv. 1-9 Inferno Canto I, Proemio, La Divina Commedia, Dante Alighieri

Nell'età di mezzo della vita umana mi ritrovai in una buia boscaglia perché avevo smarrito il giusto percorso.

Ahimé, non è affatto facile descrivere questo bosco inospitale, impervio, difficile, del quale il solo pensiero mi fa tornare il timore! [la

selva] È tanto angosciante quasi quanto la morte; ma per dire ciò che di buono lì incontrai, parlerò [prima] delle altre cose che lì ho viste.

13 Vv. 112-120 Inferno Canto I, Proemio, La Divina Commedia, Dante Alighieri

Per cui, riguardo te, penso e comprendo sia meglio che tu mi segua e io ti sia guida, portandoti da qui nell'oltretomba; in cui ascolterai

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