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La tesina è un approfondimento sulle due modalità della vita dell'uomo, l'avere e l'essere. In conclusione affermo che l'avere è connaturato all'uomo così tanto da non poter riscattare la sua natura.
filosofia- Marx
excursus filosofico di altri autori
filosofia- Freud
italiano- luigi pirandello
Avere o essere? Questa sarebbe la domanda che si porrebbe oggigiorno
l'Amleto di Shakespeare al posto del famoso “to be or not to be”.
Secondo lo psicanalista e sociologo tedesco Erich Fromm, che, nel saggio
“avere o essere?” pubblicato nel 1976 con il titolo “to Have or to Be?”, ha
ampiamente trattato questo argomento, sono proprio queste due realtà che
dividono la coscienza e l'agire dell'uomo moderno. A decidere quale modalità
avrà' il sopravvento e' la struttura sociale con le sue norme ed i suoi valori.
Fromm a questo proposito afferma che lo stesso inconscio individuale è creato
e determinato dalla società per la quale l'uomo si trova a reprimere la sua
coscienza per il vivere sociale.
Nel saggio sopra citato Fromm prende in esame l'essere in quanto modalità
esistenziale, come essenza prima di ogni esistenza umana, che tuttavia si trova
ad essere soffocata dai suoi opposti: in tal caso si distinguono due forme di
essere, una contrapposta all'avere, e l'altra all'apparire.
L'essere è per definizione il non-avere
Alla base della modalità dell'avere si trova principalmente l'istinto di sopravvivenza:
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l'uomo ha dovuto sempre sopperire alle proprie mancanze o alle difficoltà climatico-
atmosferiche mediante il possesso di cose che siano stati vestiti, ripari o cibi. Questo
istinto normale si è sviluppato attraverso il confronto tra individui diversi, mediante
la formazione di piccoli gruppi a carattere difensivo e protettivo -archetipi di società
-e attraverso la condivisione comune dei beni, ben presto superata.
Da ciò l'inevitabile spinta di autoaffermazione è sorta prevalentemente a causa della
differenza di possedimenti: chi aveva di più si poteva permettere più cose, ricopriva
una posizione di potere governando gli altri che non possedevano quanto lui. La
conseguenza più logica di questa analisi socio-civile nel primo arco temporale dello
sviluppo degli ominidi è una banale equazione :
Avere = possesso = potere
Se questa corrispondenza è riscontrabile nelle società antiche dove i principali scambi
commerciali avvenivano tramite il baratto e il concetto di denaro era ancora un
abbozzo, nelle società più nuove si scorge un enorme incremento di tale equazione.
Nel medioevo l'autoaffermazione personale si realizzava attraverso il possedimento di
una marca o di una contea reale o l'ostentazione di cultura attraverso le biblioteche
private, fase iniziale della mercificazione del sapere. Quel periodo fu caratterizzato da
una fervente attività amanuense con la quale si si sono ricondotte alla sfera del
possesso anche le lingue antiche come il greco o il latino, traducendo a dismisura gli
eeee e ee
stati d'essere mihi est o con io ho.
Fra il XVI e il XIX secolo, negli anni cioè del massimo sfruttamento degli schiavi
africani, il potere si misurava con il controllo della tratta Africa-America, andandosi
così ampliando l'equazione precedente in
Avere = possesso = potere = dominio sugli altri
L'uomo ha convissuto con queste due realtà da sempre, e si potrebbe definirle
pertanto connaturate alla nostra stessa esistenza, se non fosse che, con l'avvento
dell'era moderna,una di queste, quella dell'avere, si è sviluppata in grado esponenziale
a discapito di quella dell'essere. La società occidentale industrializzata e capitalistica,
in cui appunto vigono le leggi del capitale e dello sviluppo industriale, ha ingigantito
il primordiale bisogno di autoaffermazione e l' istinto di sopravvivenza facendoli
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diventare un bisogno di superiorità e un istinto di sopraffazione.
L'affermare la propria superiorità, che deriva da una causa che in termini psicologici
moderni potremmo definire di debolezza psichica e dell'autostima e che trova la sua
matrice nell'egoismo individuale, si realizza nell'ostentazione di beni e averi.
Il possesso di tali beni e averi per l'uomo rappresenta poi motivo di un insano senso
di piacere: si deve avere delle cose per poterne godere. Mentre per Epicuro il piacere
era il sommo bene da ricercare, nell'era moderna invece rappresenta avere successo,
avere fama o avere molti soldi.
Inoltre verso questi possedimenti, che siano materiali come una ditta, un conto in
banca o un animale domestico o che siano astratti come l'affetto di una persona o la
salute o il lavoro o qualità individuali (tutt'oggi ci si rivolge a questi stati di essere
con “ho una malattia” oppure “ho un bel lavoro” e “ho molta pazienza”) l'uomo è
stato spinto dalla volontà di sicurezza. Si tratta di una volontà che, dimostrata
seguendo le orme di Shopenhauer, ingloba in sé un senso di privazione e quindi
diviene mancanza: l'uomo cerca di avere (cose) perché non ha (sicurezze).
Come mostra Fromm, la dimensione dell'avere costituisce una sicurezza in quanto
l'uomo per natura è incerto nell'affrontare l'ignoto dal momento che “conosciamo ciò
che abbiamo”. Ed è proprio quest'ultimo principio che ha scatenato il desiderio di
avere cose con cui “lottare” con l'altro.
L'istinto di sopraffazione poi è strettamente legato all'esigenza di superiorità , ne
condivide la stessa matrice psichico-attitudinale e costituisce la sua realizzazione nel
concreto: il bisogno intimo di superiorità si manifesta nella sopraffazione
materialistica di altri uomini attraverso gli acquisti e il denaro. I così chiamati uomini
di affari però si sentono padroni del denaro ma non lo sono in realtà: Fromm dimostra
che è una realtà capovolta perché gli uomini credono di controllare il denaro e invece
è proprio quest'ultimo che controlla loro. È il processo alla base degli investimenti
finanziari che, più si è sicuri dei propri impieghi, più aumenta la probabilità della
perdita. Perciò chiunque si interessi morbosamente al proprio capitale e al proprio
guadagno perde la dimensione del reale, dal momento che impronta le sue attività e la
sua intera vita all'ampliamento o alla stabilità del suo avere. Il concetto “se uno non
ha nulla non è nulla” esplica questo scambio tra soggetto e oggetto, illustrando anche
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che l'uomo, volendo essere qualcuno, si spinge ad acquistare sempre di più. Il
consumo massimo di beni e dei servizi e del lavoro è alla base del capitalismo del XX
secolo regolato dal ciclo dell'acquisto formulabile in :
Fromm dice che il capitalismo non può essere considerato solo un semplice
andamento economico regolato dal capitale privato, ma invece una vera e propria
disposizione individuale tale per cui l'uomo è portato a vedere ogni cosa come un
possibile consumo. Questa visione è strettamente conseguente al rapporto di possesso
e proprietà che l'uomo ha instaurato con l'intero mondo, e in funzione di cui aspira a
impadronirsi di ogni cosa, come se volesse inghiottire il mondo intero.
Questa propensione si può ritrovare nell'attitudine del bambino, nella fase orale
individuata da Freud, a mettersi in bocca le cose che desidera e che già i primitivi
cannibali avevano mostrato nel divorare il cuore di un uomo valoroso per acquisirne
la forza o il coraggio.
Per Marx, vissuto quasi 100 anni prima, il capitalismo non era altro che un tipo di
società che si differenziava dagli altri per la sua produzione di merci che non risultava
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essere finalizzata al consumo, bensì all'accumulazione di denaro possibile attraverso
il concetto di plus-valore. Il capitalismo di Marx dunque era retto dalla formula
schematica D-M-D' in cui il capitalista investiva Denaro in una Merce per ottenere
alla fine più Denaro' e il valore del suo guadagno non era altro che il lavoro
dell'operaio sfruttato e non retribuito, ossia il plus-valore. Il ciclo D-M-D' generava
inevitabilmente un'affannosa ricerca alla maggior quantità possibile di plus-valore.
Proprio per questo principio il capitalismo risultava una società retta dal profitto
privato anziché dalla logica dell'interesse collettivo. La proprietà privata era ed è
tutt'oggi il mezzo a cui ricorre l'uomo per essere qualcuno, oltre ad essere l' elemento
essenziale per il raggiungimento del profitto. Una volta individuata come causa prima
dell'ingiustizia sociale tra la classe imprenditoriale e la classe proletaria, Marx definì
tale proprietà come, da una parte, il risultato del lavoro espropriato e, dall'altra, il
mezzo con il quale il lavoro si aliena, la realizzazione di tale espropriazione.
Riprendendo il termine alienazione da Hegel, per cui era il movimento dello stesso
Spirito fuori di se per poi tornare in sé arricchito, e da quella religiosa di Feuerbach
per cui era il processo con cui l'uomo proiettava le sue qualità migliori nella figura di
Dio a cui si sottometteva, Marx la definisce come l'autoestraniazione di natura socio-
economica del salariato. All'interno della società capitalistica il lavoratore è alienato
sia rispetto al prodotto della sua attività, in quanto egli produce un oggetto (il
capitale) che non gli apparterrà mai ,sia rispetto alla sua stessa attività che diventa per
lui un lavoro forzato e che lo porta ad essere un mero strumento, sia rispetto alla sua
essenza in quanto non libero di scelta e infine rispetto al prossimo perché l'altro è il
capitalista con cui è in conflitto. La causa del meccanismo di alienazione risiede nella
proprietà privata dei mezzi di produzione che consente al capitalista di sfruttare gli
strumenti-operai nella logica del profitto personale. L'esistenza della proprietà privata
duramente condannata da Marx è criticata anche dal sociologo Fromm in quanto la
brama di acquisire una nuova proprietà o di mantenerne una vecchia fa nascere il
desiderio di usare violenza allo scopo di depredare gli altri per non essere a nostra
volta vittime.
Dall'ossessione dei capitalisti, e più in generale dei borghesi, verso le proprietà
scaturisce una progressiva perdita di identità. Per sopperire alla paura della morte e
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alla paura di perdere queste proprietà materiali, gli uomini, invece che ricorrere alla
sdrammatizzazione della morte su esempio di Epicuro, hanno ritenuto più valida la
ricerca di proprietà -per loro- indistruttibili come la gloria e la fama della notorietà
che li immortalizzasse allo stesso modo di come era avvenuto per i sovrani egizi
tramite le piramidi.
Siamo ora secondo Fromm, nella fase in cui a determinare l'esistenza dell'uomo vi
sono l'avere cose, il possesso, il risparmio, il consumo di oggetti e il guadagno di
denaro. L'uomo moderno infatti si è così ancorato alle proprietà, proteggendosi negli
averi per lui indistruttibili, quali il nome, l'indole o i legami di parentela tanto da
condurre la propria vita all'insegna del motto “io sono ciò che ho”.
L'essere e il problema della sua definizione
Il concetto di essere si rivela più complesso. 7
Il problema della definizione dell'essere ha contribuito a costituire la filosofia, dal
momento che sin dagli albori, l'uomo si è posto la domanda “qual è il senso della
vita? E chi sono?”. La ricerca della prima risposta risiede nella filosofia metafisica
che si occupa dello studio delle realtà trascendenti con il fine di fornire una
spiegazione delle cause prime della realtà ,mentre della seconda risposta se ne occupa
l'ontologia che è la branca della metafisica che studia le strutture fondamentali e
necessarie dell'essere in quanto essere.
Uno dei primi filosofi a concentrare la propria speculazione filosofica nel campo
ontologico fu, nel sesto secolo a.C, Parmenide che, alla questione dell'essere nella
sua totalità, si prefisse di porvi risposta con l'enigmatico “l'essere è e il non essere
non è”. Con questa affermazione il filosofo presocratico ha definito che l'essere è la
sostanza, unica ed omogenea, che, compenetrando tutte le cose, costituisce il cosmo
stesso. Risulta così un concetto dell'essere immobile e statico che verrà modificato
successivamente dal filosofo Eraclito mediante la cosiddetta filosofia del divenire
fondata sul “panta rei” (tutto scorre).
Anche il grande filosofo Aristotele nel IV secolo, tentando di analizzare la
difficoltosa questione, si trovò a dover stabilire che l'essere è impredicabile e la sua