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Sintesi
Apparenza e realtà

Luigi Pirandello, è uno dei più grandi scrittori e drammaturghi del Novecento, uno dei pochi autori capaci di esprimere, attraverso la complessità della sua opera, una analisi sulle contraddizioni di quella che viene considerata la realtà.
Nato a Girgenti (Agrigento) nel 1867 da una agiata famiglia, Pirandello dopo gli studi liceali intraprese gli studi letterali che, dopo alcune controversie, lo portano a laurearsi in Filologia nel 1891 a Bonn. La permanenza in Germania, durante il periodo di studi universitari, portò il giovane Pirandello a confrontarsi con la cultura tedesca ed in particolare con i suoi autori romantici che esercitarono una profonda influenza sulla sua opera e sul suo pensiero. Stabilitosi a Roma dopo la laurea, egli si dedicò interamente allo studio e alla letteratura divenendo uno dei personaggi di spicco degli ambienti culturali romani soprattutto grazie all’amicizia con alcuni intellettuali siciliani tra cui Ugo Fleres e Luigi Capuana.
Le sue opere spaziano dal romanzo alle composizioni teatrali, esprimendo attraverso un linguaggio dotto ma immediato la complessità del suo pensiero che, in particolare, si sofferma su una critica alle tradizionali strutture sociali e all’ipocrisia dell’apparire. Pirandello si fece interprete, attraverso i suoi scritti, della crisi delle certezze positiviste e della perdita di fiducia nella possibilità di sistemare il reale entro precise categorie conoscitive. Bisogna ricordare che il periodo storico nel quale Pirandello visse e operò si caratterizza come un momento di grande confusione non soltanto dal punto di vista politico e sociale, ma anche da quello filosofico e letterario. Problemi inquietanti si affacciavano, in quel tempo, nell’animo dell’uomo che oscillava continuamente tra sentimenti di speranza e scetticismo. Al positivismo che aveva esaltato l’intelletto umano come capace di costruire un nuovo mondo di felicità sociale e di grande progresso, subentrava agli inizi del Novecento il clima inquieto del decadentismo con la sua ansia metafisica, il gusto dell’ignoto e dell’inconscio, le molte incertezze e contraddizioni.
Pirandello, partecipe di questo clima di smarrimento conoscitivo e valoriale, non si limitò a rappresentare quel disagio ma cercò una chiave di lettura per intraprenderne le contraddizioni per riderne e al tempo stesso compatire la sofferenza umana che ne derivava.

Gli studi e le influenze culturali
L’infanzia di Pirandello trascorse tra la villa paterna di Girgenti, che porta il suggestivo nome di Cavuso (termine dialettale che lo stesso autore tradurrà con “il caos”) e Porto Empedocle dove si trovavano le miniere di famiglia e dove egli venne a contatto con la dura realtà popolare descritta in letteratura per la prima volta dal suo conterraneo Giovanni Verga. Da adolescente scrisse una tragedia in cinque atti, “Barbaro” e qualche anno dopo le prime poesie influenzate da Carducci e pubblicate in seguito nella raccolta Mal Giocondo (1889).
Nel 1903 una allagamento della miniera di zolfo del padre provocò il dissesto economico della famiglia. Ciò ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore poiché alla notizia del disastro, sua moglie, che già godeva di un fragile equilibrio psichico, sprofondò irreversibilmente nella follia. La convivenza con la donna, ossessionata da una patologica gelosia, costituì per Pirandello un tormento continuo che può essere visto come il germe della sua visione negativa dell’istituzione familiare. Con la perdita delle rendite paterne mutò anche la condizione sociale ed economica di Pirandello che fu costretto a lavorare duramente e a produrre numerosissimi romanzi ed opere teatrali e talvolta cinematografiche, un tipo di attività che lo declassò agli occhi dell’ambiente intellettuale più erudito. Tutti questi episodi che sconvolsero la vita dell’autore siciliano, si rivelarono decisivi anche ai fini della sua visione del mondo sempre più critica e negativa nei confronti della vita piccolo borghese.
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto con il mondo teatrale con la rappresentazione di due atti unici da parte di una compagnia di Roma. Scoppiata la Grande Guerra, lo scrittore in nome delle sue posizioni patriottiche si schierò a favore dell’intervento considerandolo come una sorta di compimento del processo risorgimentale. Ma la guerra incise dolorosamente sulla sua vita anche perché i suoi due figli Stefano e Fausto si trovarono coinvolti come soldati aggravando ulteriormente il già triste clima familiare.
Dal 1920 il teatro pirandelliano cominciò a conoscere il successo del pubblico attirando consensi anche nell’ambiente fascista che lo sostenne in maniera cospicua- la sua adesione al fascismo ebbe tuttavia caratteri ambigui e difficilmente definibili; da un lato il suo conservatorismo politico e sociale lo spingeva a vedere nel fascismo una garanzia di ordine, dall’altro invece il suo spirito antiborghese lo induce a scoprirvi l’affermazione di una genuina energia vitale. Da intellettuale acuto egli si rese ben presto conto del carattere di vuota esteriorità del regime fascista, della retorica pomposa dei suoi riti ufficiali e, pur evitando ogni forma di rottura o di dissenso, accentuò il suo distacco. D’altronde, la critica delle istituzioni, propria della visione pirandelliana, la critica delle maschere imposte, non poteva risparmiare il regime che della falsità del meccanismo sociale era un esempio rappresentativo.
Negli ultimi anni della sua vita, lo scrittore si dedicò alla pubblicazione delle sue opere, raccolte in numerosi volumi. Nel 1934, in virtù di questa grande e prestigiosa produzione, gli fu consegnato il Premio Nobel per la Letteratura, culmine della sua carriera e simbolo del suo genio artistico e letterario.

La concezione del mondo. L’umorismo e il vitalismo
“Il nostro spirito – scrive Luigi Pirandello – consiste di frammenti, o meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento così che ne risulti una nuova personalità” . Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica secondo cui la realtà è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, dunque l’uomo non è che una parte di questo universale ed eterno fluire della vita.
Per Pirandello la realtà tutta è “vita”, un eterno divenire che scorre come magma incandescente; tutto ciò che si stacca da questo flusso è destinato a morire. Allo stesso modo, la vita dell’uomo se smette di mutare, di ricercarsi, di evolversi, cristallizzandosi in una unica forma, comincia, nella visione dell’autore siciliano, a morire. La forma individuale in cui ognuno pensa di cristallizzarsi costruendosi un’identità nella professione, nel carattere, nello status sociale non è che pura illusione perché, come sostiene lo stesso Pirandello, “tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi” . Infatti, pur non considerando i continui cambiamenti interiori, l’altro che ci vede secondo la sua prospettiva particolare ci attribuisce già di per sé una determinata forma che sarà inevitabilmente diversa da quella che cerchiamo di far trasparire. Tutto ciò emerge, nell’opera pirandelliana, in particolare nel romanzo Uno, nessuno e centomila che, come vedremo più approfonditamente in seguito, esprime la capacità di vedere oltre l’apparenza delle cose smascherandone ogni finzione o falsità.
Da questa visione complessiva della vita e delle dinamiche relazionali scaturiscono, in Pirandello, anche la concezione dell’arte e la poetica che emergono attraverso numerosi suoi saggi, tra cui, il più celebre ed emblematico è, sicuramente, l’umorismo (1908). In quest’opera Pirandello cerca di ripercorrere la storia della comicità dai greci fino al Settecento e approda, infine, a una sua definizione dell’umorismo come sentimento del contrario, cioè come capacità dell’intelligenza umana di cogliere le contraddizioni del mondo e della storia attraverso la comicità. L’arte umoristica, secondo l’autore siciliano, evidenzia gli aspetti più grotteschi delle azioni umane e dei personaggi, mettendo a nudo e smascherando il contrasto tra vita e forma, tra apparenza e realtà.
In Pirandello, la critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela così inadeguata al mistero della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito di mostrare l'inadeguatezza degli strumenti di interpretazione della realtà. L'arte, espressione del dubbio, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti.
L’umorismo è per Pirandello quel sentimento che coglie nell’individuo una compresenza di poeta e critico insieme, cioè di colui che sa abbandonarsi al sentimento ma, al tempo stesso, che riesce, con acuta razionalità, ad indagarlo fino in fondo, scoprendone eccessi e falsità e smascherando quei tratti artificiosi ed illusori che caratterizzano ogni gesto umano. La vita infatti è, nella concezione pirandelliana, un insieme di oggettività ed illusione, di sincerità e falsità e, dunque, non può essere rappresentata come semplice e razionale. L’arte che ritrae la vita deve perciò essere scomposta, slegata, ricca di particolari reali; per questo, l’opera di Pirandello non è eccessivamente curata dal punto di vista estetico o stilistico ma si pone al di fuori degli schemi tradizionali, arricchendosi di temi moderni e di paradossi sempre più strani. Solo così, per il nostro autore, l’uomo getta la maschera e appare nella sua realtà ridicola e pietosa insieme. Secondo Pirandello, l’unica possibilità di rappresentare il mondo caotico e dominato dal caso nel quale vivono gli esseri umani è quella offerta dall’umorismo perché, a differenza del comico che muove semplicemente al riso, l’umorismo coglie l’assurdità delle vicende umane, provocando simultaneamente il riso e la pietà.
Il teatro
Pirandello si dedicò alla composizione teatrale sin dall’inizio della sua carriera di scrittore anche se il successo, tramite questo genere letterario, gli venne solo dopo la Prima Guerra Mondiale. La sua opera teatrale si rivelò, sin dalle sue prime rappresentazioni, in contrasto sia con il teatro dannunziano, che esaltava le virtù e l’immagine di un superuomo di matrice classica, sia dal borghese naturalismo delle opere ottocentesche. In Pirandello, sin dalle sue prime commedie, c’è sempre un personaggio che si fa portavoce del suo pensiero e del suo modo di intendere la vita e l’essere umano, imponendosi nella commedia come elemento portatore di una forza innovativa capace di sconvolgere le convenzioni e i modi di agire di tutti gli altri, di proporre punti di vista nuovi capaci di suscitare anche atti rivoluzionari. Nel tentativo di comprendere e smascherare l’animo umano e il suo agire, Pirandello riuscì a superare, con la sua opera teatrale, il modello tipico del protagonista del teatro tradizionale sconvolgendo le strutture teatrali codificate, sostituendo al “carattere” il personaggio. Conseguenza di questo modo di intendere questa particolare opera d’arte è un tipo di rappresentazione aperta all’interpretazione, sempre nuova e sempre diversa, attraverso la messa in scena di episodi non ancora compiuti o di personaggi dal carattere non perfettamente delineato come fossero fantasmi che chiedono agli attori di dar loro sulla scena la vita che l’autore non ha voluto infondergli. Questo tipo di impostazione stilistica simboleggia chiaramente i conflitti propri dell’esistenza umana attraverso le diatribe e le ostilità che si svolgono continuamente tra i personaggi delle sue opere. Il suo spirito di innovazione arriva, addirittura, a coinvolgere nell’azione scenica figure del tutto estranee alla compagnia teatrale, come i tecnici, gli spettatori o il direttore di compagnia. La sua ricerca di nuove forme teatrali culminò in alcune opere, da lui definite “miti”, in cui gli schemi naturalistici sono del tutto superati e tutto è simbolo dell’eterna sofferenza umana.
In Pirandello, l’opera teatrale, per sua natura caratterizzata da un maggiore pathos dovuto alla vivacità dei dialoghi, è quella che meglio esprime il pensiero e i drammi della sua concezione del mondo, una visione caotica e multiforme che trova nell’esuberanza delle scene la sua rappresentazione più simbolica.
L’opera pirandelliana che forse più di tutte rappresenta questa sua concezione del teatro e, di conseguenza, dell’umana esistenza, è Sei personaggi in cerca d’autore in cui l’autore mette in scena il rifiuto, sconvolgendo direttamente i modelli e le convezioni teatrali del suo tempo. I sei personaggi a cui allude il titolo (ovvero un padre, una madre, un figlio e una figliastra, una bambina e un giovinetto) sono nati vivi dalla mente di un autore che, però, si rifiuta di scrivere la trama del loro dramma borghese. Presentatisi su un palcoscenico, dove una compagnia sta provando un’opera, questi personaggi chiedono che qualcuno dia loro quella forma che il loro autore non volle dargli. Seguendo questa impostazione, Pirandello mette così in scena non il dramma dei personaggi ma, piuttosto, la sua impossibilità di scrivere una rappresentazione esasperatamente romantica e difficilmente rappresentabile attraverso lo strumento teatrale. La sfiducia verso il linguaggio del teatro è presente, nella concezione pirandelliana, sin dalle origini della sua opera così come egli stesso aveva evidenziato nel 1908 nel saggio Illustratori, attori e traduttori.
Accolto inizialmente male dal pubblico italiano, il nuovo stile promosso da Pirandello, assolutamente rivoluzionario ed anticonformista, ebbe in poco tempo un grande successo anche a livello internazionale ponendosi come il principio di un nuovo stile che vede “il teatro nel teatro”, ovvero una rappresentazione in cui il protagonista è il teatro stesso, con i suoi drammi e i suoi problemi.
Il romanzo umoristico
I temi tipici dell’opera pirandelliana, ossia la critica delle strutture sociali convenzionali o della personalità umana intesa come maschera ma anche la tendenza a sottolineare gli aspetti assurdi e paradossali dei comportamenti umani, ricorrono anche nei romanzi. Influenzato del verismo, nei romanzi di Pirandello ritroviamo l’ambiente piccolo borghese che richiama alcune situazioni di Giovanni Verga, in cui i protagonisti sono personaggi della vita semplice delle contrade siciliane, pescatori, contadini, solfatari … insomma dei soggetti che lottano per vivere e sopravvivere. A differenza dei personaggi della tradizione verista, rassegnati ed inerti, i soggetti pirandelliani si presentano tuttavia come anime inquiete e tormentate, ossessionate dal desiderio di evadere da un’esistenza che percepiscono come crudele e inappropriata ai loro bisogni.
Il corpus romanzesco di Pirandello cresce in un arco di tempo che va dal 1893, anno in cui pubblica L’esclusa, al 1926 quando completa la stesura ventennale di Uno, nessuno e centomila. La sua produzione, che come abbiamo già accennato risente largamente delle influenze del verismo e del naturalismo, è estremamente fedele alla sua visione del mondo tanto che, anche nel ricalcare lo stile dei suoi maestri – tra cui spiccano Verga e Capuana – egli sottolinea come queste correnti di pensiero, essendo eccessivamente legate alla mera descrizione della realtà, mortifichino e limitino la creatività e l’estro dell’artista. Molto forte, anche nell’opera romanzesca di Pirandello, è l’elemento umoristico che emerge, soprattutto, dalle osservazioni del narratore che, nei suoi romanzi, assume un ruolo determinante facendosi portatore di un punto di vista diverso da quello del protagonista, una prospettiva spesso critica e beffarda che mette in evidenza le esuberanze e i limiti dei personaggi e delle situazioni. Proprio per questo, l’opera narrativa dello scrittore siciliano può essere descritta come romanzo umoristico.
I protagonisti delle storie pirandelliane, nella loro condizione immediata si dispongono come figure comiche di una umanità piccola ed infelice che aspira ad emanciparsi da una vita grigia e anonima e a trovare uno status più rappresentativo ed appagante attraverso un salto di classe. Il personaggio umoristico di Pirandello è spesso un “saggio” che si spende per cercare la verità attraverso situazioni eccezionali. Mattia Pascal, per esempio, racconta al lettore la sua straordinaria avventura e l’esperienza paradossale della “doppia morte”.
Il fu Mattia Pascal è il terzo romanzo di Pirandello, un’opera che presenta già in forme pienamente mature i temi tipici dello scrittore e sperimenta soluzioni narrative singolari. Il titolo del romanzo è particolare, poiché allude sia al celebre pensatore francese Blaise Pascal sia alla pazzia espressa attraverso il nome proprio Mattia (follia). Fu pubblicato nel 1904, a puntate, sulle rivista La nuova antologia e, nello stesso anno, in volume. La storia narra di un personaggio piccolo borghese, imprigionato nella trappola di un famiglia insopportabile e di una misera condizione sociale che, per un caso fortuito, si trova finalmente libero e padrone di sé. Dietro l’apparenza di un romanzo tradizionale, caratterizzato da una struttura narrativa ordinata e da un tono pacato e dimesso, Il fu Mattia Pascal operò un radicale scardinamento delle regole del naturalismo ottocentesco in cui al racconto impersonale e oggettivo di un narratore onnisciente venne sostituita la narrazione in prima persona di un narratore dubbioso e autoironico, non solo incapace di distinguere tra realtà e apparenza, ma addirittura incerto della propria identità. In effetti, Pirandello è cosciente di non poter scrivere un romanzo tradizionale in un’età che ha visto crollare le certezza in una totalità ordinata del reale. Mattia Pascal, ripropone inizialmente la fisionomia di tanti altri eroi della narrativa pirandelliana, specie delle novelle: il piccolo borghese prigioniero di una trappola sociale costituita da una famiglia oppressiva e da un lavoro frustrante che divengono metafore di una condizione esistenziale assoluta, di una trappola metafisica che mortifica e spegne la mobilità della vita. Particolare è, in quest’opera, il modo in cui viene descritta che famiglia, presentata sia come luogo di serenità e amore che come gabbia che imprigiona e genera sofferenza ed infelicità. La trappola delle istituzioni sociali che imprigionano il flusso vitale, la critica dell’identità individuale che si rivela inconsistente, la metafora della maschera convenzionale sovrapposta a un variare indistinto di strati psicologici continuamente in divenire sono temi cari all’autore siciliano, temi che, proprio ne Il fu Mattia Pascal emergono con estremo vigore. Le identità del protagonista sono due, Mattia Pascal e Adriano Meis, entrambe sono assolutamente inconsistenti e vane. Fra le due identità non c’è possibilità di sintesi, l’unico risultato è quello di un immagine, di un’ombra che non appartiene ad un corpo e che, dunque, non può esistere. Nell’epilogo del romanzo, dopo una serie di pittoresche avventure, l’eroe non si limita più a ricoprire una condizione negativa ma trasforma la sua mancanza di identità in una condizione positiva, in liberazione completa dalla vita, da ogni limitazione mortificante che costringe l’essere umano ad assumere delle maschere dalle quali non si sente rappresentato. La realtà, attraverso il gioco paradossale del caso, viene, in quest’opera, distorta, ridotta ad un meccanismo bizzarro, ma al di là del riso che questo suscita vi è la sofferenza del protagonista sia quando è imprigionato nella trappola della vita sociale sia quando ne è escluso. Mattia Pascal può dirsi il capostipite dei personaggi “pirandelliani”: una vittima impotente della casualità degli eventi, privo di un’identità definita, un essere che scopre l’impossibilità di realizzare la propria aspirazione alla felicità e infine dichiara esplicitamente l’inconoscibilità della verità. Il significato più profondo del romanzo è l’impossibilità di vivere senza una forma; si può rinunciare alla propria identità ma, bisogna essere consapevoli che, subito dopo, un’altra “maschera” si sostituirà alla prima. La forma, dunque, non è tanto una scelta ma una necessità.
Anche attraverso i romanzi, viene ancora una volta sottolineato, in Pirandello, l’assunto secondo cui l’unica possibilità di rappresentare il mondo è quella offerta dall’umorismo che, in quanto sentimento capace di cogliere tutte le sfaccettature dell’animo umano, si colloca come unica via di verità.
Uno, nessuno e centomila: essere e apparire nell’opera di Pirandello
Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo di Pirandello, un’opera che ha un ruolo fondamentale nella produzione artistica del suo autore che ci ha messo più di vent’anni per ultimarlo, tanto che suo figlio lo definì una sorta i testamento letterario.
La storia prende inizio da un fatto banale: Vitangelo Moscarda, il protagonista del romanzo, si sente dire dalla moglie che il suo naso pende un po’ a destra. Vitangelo, che fino ad allora pensava di avere un naso perfetto, rimane colpito dalle affermazioni della moglie che gli riconosce un aspetto, dunque un modo di essere, diverso da quello che egli ha sempre immaginato. Da quel momento il protagonista è costretto a constatare che ogni cosa è arbitraria, che non esiste un solo Vitangelo Moscarda ma tanti, almeno quanti sono gli esseri umani con i quali egli viene a contatto.
Come già ne Il fu Mattia Pascal, al centro dell’ultimo romanzo di Pirandello si colloca nuovamente il problema dell’identità. Il racconto è retrospettivo: il protagonista, conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo e, prendendo spunto dalle intuizioni che emergono dall’episodio del naso, comincia a commettere ogni sorta di stranezza. In lui nasce un vero e proprio orrore per la prigione delle forme, ovvero per tutta quella serie di finzioni e apparenze dietro cui si nasconde l’inconoscibile mistero dell’animo umano, un mistero che lo rende ignoto non solo agli altri ma, ancor più, a se stesso generandogli un forte senso di solitudine e di smarrimento.
La forma impostagli, che Moscarda non riesce proprio a tollerare, è quella dell’uomo cattivo e senza scrupoli che gli viene dall’essere stato figlio di un vero e proprio usuraio, una persona che ha fatto la sua fortuna sfruttando gli altri con cattiveria e cinismo. Prima di essere vittima di questa crisi esistenziale, che lo risveglia dalle illusioni che egli si era creato mettendolo dinanzi alla realtà, Vitangelo aveva condotto una vita fatta di beata incoscienza, spendendo le sue giornate da perfetto perdigiorno, in preda alla pigrizia e adagiandosi nel benessere che gli era pervenuto dall’eredità paterna. Attraverso una serie di gesti pazzi, bizzarri e sconcertanti, il protagonista di questa singolare vicenda, si propone di distruggere tutte le immagini di sé che gli altri hanno arbitrariamente costruito, nel tentativo di far emergere una verità che, in effetti, nemmeno lui conosce. La pazzia, di cui si ammanta Vitangelo Moscarda per sanare il suo dramma, è un tema ricorrente nei personaggi pirandelliani, usato per scardinare il meccanismo delle forme, delle convenzioni e degli istituti sociali che imprigionano la vita nel suo fluire. L’immagine che il protagonista di quest’opera vuole distruggere è, anzitutto, quella dell’usuraio che vive delle altrui sofferenze, un’immagine che egli rifiuta totalmente rivelando il suo antagonismo nei confronti del padre, una figura da reprimere e abbattere. Senza la pretesa di costruire un’identità alternativa a quella che egli possiede e che, evidentemente, percepisce come inappropriata al suo essere, Moscarda vuole semplicemente distruggere quello che è di fronte agli altri, preoccupandosi unicamente di apparire diverso da quello che in effetti è. Tutta la sua rocambolesca vicenda, che lo porta al dissesto economico, familiare, psicologico e sociale, rivela il tentativo di Moscarda di ribellarsi al sistema delle convenzioni sociali, di demolire un sistema che, tuttavia, lo lascia sconfitto. lui che voleva distruggere tutte le forme impostegli deve, alla fine, accettare l’ennesima forma che la comunità gli attribuisce (quella del pazzo e dell’adultero) e scontare, per essa, una pena immeritata. Tuttavia, proprio in questa sconfitta Moscarda trova una forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano. Se prima la consapevolezza di non essere nessuno gli dava un senso di tremenda solitudine, ora egli accetta di rifiutare ogni identità personale, addirittura il proprio nome, abbandonandosi gioiosamente al fluire mutevole della vita.
Ho scelto questo romanzo, come emblema dell’opera pirandelliana in relazione al tema del mio percorso – l’apparenza e la realtà – perché, a mio avviso, in quest’opera, lo scrittore siciliano ben rappresenta la mutevolezza della realtà che, in effetti è tutta impregnata di forme e apparenza, spesso lontana dalla realtà. Il desiderio del protagonista di andare oltre le etichette che la società gli impone è, a mio avviso, un richiamo forte ad ogni essere umano che, soprattutto nella realtà contemporanea, spesso si limita a vedere l’altro solo come un insieme di esteriorità trascurando l’aspetto più interiore e profondo. Richiamare il pensiero di Pirandello, ancor di più nel mondo attuale, vuol dunque dire, a mio avviso, confrontarsi con un autore che aveva ben intravisto le potenzialità e i limiti delle relazioni umane richiamando, ciascuno di noi, a rapportarsi autenticamente con noi stessi e con gli altri, secondo sentieri di realtà e non di mera apparenza.
Il treno ha fischiato. Analisi del testo
La novella Il treno ha fischiato fa parte di una raccolta di storie intitolata Novelle per un anno, dedicata alla dimensione della piccola borghesia.
La storia, che narra di Belluca, un uomo imprigionato nella trappola della forma, così come spesso accade ai protagonisti pirandelliani. Sin dalle prime righe, emerge il tipico ambiente piccolo borghese delle novelle pirandelliane, angustiato da insopportabili miserie e sofferenze, descritto tuttavia non in chiave verista ma metaforica. Come spesso avviene nelle opere dell’autore, la condizione sociale piccolo borghese diviene emblema di una condizione metafisica dell’uomo. Il protagonista, che assume le vesti contingenti della squallida condizione impiegatizia è prigioniero di un meccanismo ripetitivo che mortifica la spontaneità della vita. Il suo lavoro di computista, che non gli concede mai un attimo di respiro e lo segrega totalmente dalla vita è la prima delle facce della vita di Belluca, la seconda è invece rappresentata dalla sua famiglia che lo opprime e lo soffoca.
Attraverso un processo di esagerazioni, Pirandello porta la vicenda all’assurdo facendo così diventare una rappresentazione della condizione medio borghese una sagace scomposizione umoristica. Il protagonista, che si sacrifica per dar da mangiare alla famiglia anziché essere esaltato, così come vorrebbero alcune corrente di pensiero, viene messo sotto una luce assurda e ridicola facendo così scattare, nel lettore, il celebre sentimento del contrario.
Dopo una vita di alienanti sacrifici, la sua vita viene sconvolta dal fischio di un treno che scatena in lui la pazzia, una pazzia vista però come epifania della sua natura più profonda, facendo assumere all’eroe coscienza della vita che scorre fuori dalla trappola. La follia, dominata pur sempre da una logica, è per Pirandello un varco attraverso cui i suoi personaggi riescono ad evadere dalla pantomina della vita.
Tuttavia, questa sua presa di coscienza non si traduce in totale astensione dalla vita comune o in rifiuto eversivo delle norme sociali ma, dopo un momento di crisi, Belluca ritorna alla monotonia del suo lavoro reinserendosi in quel meccanismo alienante da cui voleva fuggire. Quello che ora gli consentirà di sopportare il peso delle forme sociali sarà la fantasia, una preziosa valvola di sfogo attraverso cui egli riuscirà ad affrontare positivamente il domani. Va sottolineato, comunque, come l’immaginazione non è vista da Pirandello come la soluzione alle maschere dell’esistenza ma, piuttosto, come una semplice consolazione.
La critica
L’attività di Pirandello come novelliere e romanziere, non è stata accompagnata da una critica che abbia saputo cogliere il significato autentico del suo “realismo” centrato su un accumulo di particolari, immerso nell’atmosfera greve e opaca della vita piccolo borghese.
Negli anni della guerra, periodo in cui lo scrittore comincia ad imporsi come autore di teatro, con testi paradossali e provocatori, Pirandello riuscì ad ottenere una buona risonanza da parte del pubblico pur suscitando reazioni violente tra chi non riusciva ancora a comprendere la complessità della sua opera.
Accusato di eccessiva “astrattezza”, di giocare a freddo sui paradossi, in lui viene visto un “filosofo” più che un “poeta”, stigmatizzando il fatto che i suoi personaggi tendevano, più che a raccontare delle storie, a realizzare delle virtuose rapsodie dell’animo umano.
Il successo vero e proprio giunse all’autore siciliano solo verso la fine della sua vita e culminò con la consegna, nel 1934, del Premio Nobel per la Letteratura a soli due anni prima della morte. Da allora, l’opera pirandelliana non smette di essere studiata ed interpretata, rivisitata e riscoperta facendo del suo autore uno dei maestri della narrativa internazionale.
Al di là dell’aspetto contenutistico, particolarmente apprezzato (soprattutto dal De Sanctis) fu lo stile ed il linguaggio delle opere di Pirandello, ricercati ed eloquenti fino al parossismo. La violenta scelta dei vocaboli, la crudezza delle espressioni fu infatti vista dal celebre critico come una manifestazione delle nuova realtà sociale del tempo, espressa compiutamente da un autore che ha saputo coglierla, contemplarla ed infine raccontarla .
Da segnalare, la grande fortuna che l’opera Pirandelliana ottenne anche all’estero, in particolare in Paesi quali Stati Uniti, Grecia, Portogallo ed Argentina nei quali le sue opere vennero apprezzate anche quando in Italia ancora non riscuotevano il meritato successo.
















Filosofia
Arthur Schopenhauer.
Il mondo come volontà e rappresentazione



Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer fu uno dei più grandi avversari dell’idealismo ed, in particolare, delle concezione filosofica di Hegel, che egli definì “una buffonata filosofica”. Punto di incontro di esperienza filosofiche eterogenee, tra cui spiccano gli studi su Platone, Kant e la spiritualità indiana, Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788 da una facoltosa famiglia di commercianti. La madre, Johanna Trosiener, era una scrittrice abbastanza nota che, tuttavia, il filosofo non apprezzò molto criticandone la vita mondana e la condotta immorale. Schopenhauer condusse, al contrario, una vita morigerata e solitaria, dedicandosi alla conoscenza dei classici latini e greci e iniziando, sin da giovane, lo studio delle filosofie orientali. Frequentò l’Università di Gottinga e si laureò a Jena nel 1813.
Nel 1820, dopo aver pubblicato qualche opera, tra cui spicca Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), che inizialmente non incontrò nessun successo finendo addirittura al macero, egli iniziò l’attività di libero docente all’Università di Berlino ma i suoi corsi (tenuti nello stesso orario di quelli di Hegel) ebbero scarso successo, tanto da fargli abbandonare l’insegnamento dopo un semestre. Lasciata Berlino, viaggiò in Svizzera, Italia e Germania e lì ritornò nel 1925 con l’intenzione di riprendere i corsi ma lo scarso seguito e l’epidemia di colera lo indussero a rinunciare definitivamente alla carriera accademica. Uomo coltissimo e gran viaggiatore, nel 1831, per sfuggire all’epidemia di peste scoppiata a Berlino, egli si stabilì a Francoforte dove trascorse il resto della sua vita. Nel 1836 riprese l’attività filosofica dando alle stampe il saggio Sulla volontà nella natura, alcune dissertazioni di etica ed una nuova edizione de Il mondo come volontà e rappresentazione, stavolta accolto con maggiore successo.
L’ultimo decennio della sua vita, in cui finalmente raggiunse una certa fama, vide la pubblicazione di alcuni saggi naturalistici ed una terza edizione della sua opera più importante. L’influsso di Schopenhauer sulla cultura a lui successiva è stato grande, basti ricordare il suo enorme ascendente sul poeta italiano Giacomo Leopardi che alla sua filosofia si ispirò largamente nel corso di tutta la sua opera.
Il mondo come rappresentazione
La filosofia di Schopenhauer si pone come un intreccio tra diverse influenze culturali tra cui spiccano l’illuminismo, il romanticismo e la tradizione religiosa cristiana e, soprattutto, orientale. Le influenze filosofiche più rilevanti gli vennero tuttavia dal pensiero di Kant, da cui Schopenhauer deriva la distinzione fondamentale tra fenomeno e noumeno anche se poi si discosta radicalmente dall’accezione kantiana per il significato che egli attribuisce a questi due concetti. Infatti, per Kant il fenomeno è l’unico dato conoscibile all’intelletto umano mentre il noumeno assume la funzione di un concetto limite; per Schopenhauer il fenomeno, inteso come rappresentazione, è pura apparenza mentre il noumeno, inteso come volontà, è in qualche modo conoscibile.
Scrive Schopenhauer all’inizio della sua opera maggiore: “Il mondo è una mia rappresentazione” : ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante. L’uomo, secondo il filosofo tedesco, può avere una conoscenza del mondo solo astratta e riflessa, e quando perviene a tale coscienza, allora si può dire che lo spirito filosofico è entrato in lui.
Schopenhauer parte dall’assunto che il mondo sia una nostra rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quelle che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro alla nostra coscienza, così come insegna la filosofia moderna. Il mondo è rappresentazione e la rappresentazione ha due metà essenziali ed inseparabile: il soggetto e l’oggetto. Il soggetto della rappresentazione è ciò che tutto conosce senza essere conosciuto da alcuno, il soggetto è dunque il sostegno del mondo, la condizione universale di ogni fenomeno. L’oggetto della rappresentazione è invece ciò che è conosciuto e condizionato dalle forme a priori dello spazio e del tempo. Il soggetto e l’oggetto sono inseparabili, ciascuna delle due metà non ha senso né esistenza se non per mezzo dell’altra e in ordine all’altra, ovvero ciascuna esiste con l’altra ed in essa si dilegua.
Se il mondo è rappresentazione di un singolo soggetto, perché parliamo di un mondo e non di tanti mondi quanti sono i soggetti? Come riusciamo a distinguere i sogni dal mondo reale se entrambi sono rappresentazione? Per Schopenahauer, tutto ciò è possibile perché, come ha insegnato Kant, il conoscere avviene attraverso delle forme essenziali che stanno a priori della nostra coscienza, ma mentre per Kant esistevano molteplici forme a priori, per Schopenhauer esistono solo tre forme: spazio, tempo e causalità. Secondo queste intuizione, Schopenhauer considera il mondo come una rappresentazione, la vita come un sogno, ovvero un insieme di apparenze ingannevoli. Ma, al di là del sogno, esiste la realtà vera sulla quale l’uomo (che a differenza degli animali è naturalmente portato a stupirsi della sua esistenza) non può fare a meno di interrogarsi.
La volontà infinita
Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Ma questa distinzione viene intesa da Schopenhauer in un senso che non ha nulla a che vedere con l’originale kantiano. Per Kant il fenomeno è la realtà, l’unica realtà accessibile alla conoscenza umana, mentre il noumeno è il limite di questa conoscenza. Schopenhauer intende invece come fenomeno l’apparenza delle cose, mentre come noumeno la realtà che si nasconde dietro il sogno e l’illusione. Mentre per Kant il noumeno è irraggiungibile, inconoscibile, per il filosofo di Danzica esiste una via d’accesso a questo mistero.
Schopenhauer indica come via d’accesso al noumeno la volontà: non la volontà finita, individuale e consapevole, ma bensì la volontà infinita, una ed indivisibile, che vive nell’uomo come in ogni altro essere della natura.
Mentre per Hegel la realtà è ragione, per Schopenhauer la realtà si identifica con la volontà irrazionale; l’agire non è che una oscura ed indistruttibile volontà di vivere: questa è la realtà profonda che si intuisce attraverso l’apparenza della rappresentazione. La volontà è l’essenza di ogni individuo e, nel tempo stesso, del mondo intero. È la volontà che anima ogni forza della natura così come ogni azione dell’uomo: dietro ogni cosa, dalla forza di gravità al volere cosciente dell’essere umano, si cela la medesima essenza che differisce solo nel suo apparire.
Quello di volontà è il concetto centrale della filosofia di Schopenhauer: l’essenza di ogni essere non è altro che volontà. A questa verità l’uomo può pervenire solo ricercando nel profondo di se stesso e squarciando quello che Schopenhauer definisce il velo di Maya, ovvero quel velo di illusione che ammanta le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo ingannevole e confuso. Questo compito è affidato, anzitutto, al filosofo il cui scopo deve essere quello di svelare l’intimo segreto del mondo.
Ma cosa intende Schopenhauer per volontà? Per il filosofo tedesco, la volontà non è una facoltà legata alla ragione ma una essenza inconscia, irrazionale, indistruttibile e universale, pura vitalità, istinto puro, vita eterna ed infinita, senza spazio né tempo, pur riconoscendo se stessa rimane un volere cieco e senza scopo.
“La volontà – scrive Schopenhauer – è la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto, è quella che appare nella forza naturale, cieca, è quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo, l’enorme differenza che separa i due casi non concerne se non il grado della manifestazione, l’essenza ciò che si manifesta ne rimane assolutamente intatta” .
Il pessimismo
L’essenza del mondo, per Schopenhauer, come abbiamo visto, è volontà; la volontà è conflitto e lacerazione, dunque dolore. E l’assenza di bisogni è noia. “La vita – scrive Schopenhauer – oscilla tra il dolore e la noia; è l’oggettivazione più perfetta della volontà di vivere; per questo la sua essenza è ‘volere e aspirare’; l’uomo è volontà e bisogni e dunque dolore. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand’anche gli riesca con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio alla morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui il peggiore di tutti gli scogli, ai quali è scampato” . Dalle parole del filosofi di Danzica, si evince chiaramente come la sua visione del mondo sia tutta orientata verso un estremo pessimismo, che permea ogni suo pensiero e ogni sua deduzione filosofica. Secondo le sue intuizioni, ogni essere umano conduce la sua esistenza dedicandogli ogni possibile cura, cercando di sfuggire dalle angosce e dagli ostacoli, nell’illusione di sfuggire ad un destino che, comunque, dovrà finire in maniera tragica e dolorosa per mezzo della morte. Anche l’amore, che apparentemente è un sentimento piacevole, è una strategia di cui si serve la volontà al fine di far riprodurre la specie, servendosi delle lusinghe e del fascino per raggiungere il proprio scopo. Non v’è modo di sfuggire a questo dominio del Volere sull’esistenza; neanche il suicidio può salvare l’essere umano da questa egemonia, poiché anche in questo gesto estremo si nasconde la volontà. La vita è dunque assolutamente priva di ogni senso, l’uomo è schiavo di una volontà che non è guidata dalla ragione.
La liberazione dal dolore
Il supremo compito morale di ogni essere umano, per Schopenhauer, consiste nel liberarsi dal dolore. La salvezza non viene da Dio, ma bensì da noi stessi, dal riconoscere l’origine del male nella volontà e dalla rinuncia al volere, dal dimenticare gli affanni della vita per contemplare la bellezza artistica, dal provare compassione per l’altro, dal praticare l’ascesi. Questo processo di redenzione si attua in varie tappe:
Contemplazione estetica. Nella contemplazione o creazione estetica è possibile strappare l’oggetto dal torrente universale del divenire, sottrarlo ad ogni connessione con lo spazio e il tempo, dunque dalla volontà. Il soggetto che contempla l’oggetto si perde nell’intuizione dell’artista, sottraendosi così dal dominio della volontà. La gioia estetica, estinguendo nell’uomo il desiderio dell’azione, sopprime la causa del dolore. Tra tutte le arti, Schopenhauer predilige, in particolare, la musica come arte capace di parlare al cuore di chiunque, come linguaggio universale non astratto ma ricco di contenuti reali, caratterizzato da una perenne limpida determinatezza.
La compassione. La compassione è, per Schopenhauer, un sentimento etico fondamentale, attraverso il quale è possibile identificare la nostra sorte con la sorte altrui, sentendo come nostre le sofferenze altrui. Compassione e condivisione del dolore sono l’essenza della virtù, poiché aprono il cuore alla carità e all’amore del prossimo; e l’amore più grande si manifesta sacrificando se stessi per gli altri.
Estratto del documento

suscitando reazioni violente tra chi non riusciva ancora a comprendere

la complessità della sua opera.

Accusato di eccessiva “astrattezza”, di giocare a freddo sui paradossi, in

lui viene visto un “filosofo” più che un “poeta”, stigmatizzando il fatto

che i suoi personaggi tendevano, più che a raccontare delle storie, a

realizzare delle virtuose rapsodie dell’animo umano.

Il successo vero e proprio giunse all’autore siciliano solo verso la fine

della sua vita e culminò con la consegna, nel 1934, del Premio Nobel

per la Letteratura a soli due anni prima della morte. Da allora, l’opera

pirandelliana non smette di essere studiata ed interpretata, rivisitata e

riscoperta facendo del suo autore uno dei maestri della narrativa

internazionale.

Al di là dell’aspetto contenutistico, particolarmente apprezzato

(soprattutto dal De Sanctis) fu lo stile ed il linguaggio delle opere di

Pirandello, ricercati ed eloquenti fino al parossismo. La violenta scelta

dei vocaboli, la crudezza delle espressioni fu infatti vista dal celebre

critico come una manifestazione delle nuova realtà sociale del tempo,

espressa compiutamente da un autore che ha saputo coglierla,

contemplarla ed infine raccontarla .

Da segnalare, la grande fortuna che l’opera Pirandelliana ottenne anche

all’estero, in particolare in Paesi quali Stati Uniti, Grecia, Portogallo ed

Argentina nei quali le sue opere vennero apprezzate anche quando in

Italia ancora non riscuotevano il meritato successo.

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Filosofia

Arthur Schopenhauer.

Il mondo come volontà e rappresentazione

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Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer fu uno dei più grandi avversari

dell’idealismo ed, in particolare, delle concezione filosofica di Hegel,

che egli definì “una buffonata filosofica”. Punto di incontro di

esperienza filosofiche eterogenee, tra cui spiccano gli studi su Platone,

Kant e la spiritualità indiana, Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788

da una facoltosa famiglia di commercianti. La madre, Johanna

Trosiener, era una scrittrice abbastanza nota che, tuttavia, il filosofo non

apprezzò molto criticandone la vita mondana e la condotta immorale.

Schopenhauer condusse, al contrario, una vita morigerata e solitaria,

dedicandosi alla conoscenza dei classici latini e greci e iniziando, sin da

giovane, lo studio delle filosofie orientali. Frequentò l’Università di

Gottinga e si laureò a Jena nel 1813.

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Nel 1820, dopo aver pubblicato qualche opera, tra cui spicca Il mondo

come volontà e rappresentazione (1818), che inizialmente non incontrò

nessun successo finendo addirittura al macero, egli iniziò l’attività di

libero docente all’Università di Berlino ma i suoi corsi (tenuti nello

stesso orario di quelli di Hegel) ebbero scarso successo, tanto da fargli

abbandonare l’insegnamento dopo un semestre. Lasciata Berlino,

viaggiò in Svizzera, Italia e Germania e lì ritornò nel 1925 con

l’intenzione di riprendere i corsi ma lo scarso seguito e l’epidemia di

colera lo indussero a rinunciare definitivamente alla carriera

accademica. Uomo coltissimo e gran viaggiatore, nel 1831, per sfuggire

all’epidemia di peste scoppiata a Berlino, egli si stabilì a Francoforte

dove trascorse il resto della sua vita. Nel 1836 riprese l’attività filosofica

dando alle stampe il saggio Sulla volontà nella natura, alcune

dissertazioni di etica ed una nuova edizione de Il mondo come volontà e

rappresentazione, stavolta accolto con maggiore successo.

L’ultimo decennio della sua vita, in cui finalmente raggiunse una certa

fama, vide la pubblicazione di alcuni saggi naturalistici ed una terza

edizione della sua opera più importante. L’influsso di Schopenhauer

sulla cultura a lui successiva è stato grande, basti ricordare il suo enorme

ascendente sul poeta italiano Giacomo Leopardi che alla sua filosofia si

ispirò largamente nel corso di tutta la sua opera.

Il mondo come rappresentazione

La filosofia di Schopenhauer si pone come un intreccio tra diverse

influenze culturali tra cui spiccano l’illuminismo, il romanticismo e la

tradizione religiosa cristiana e, soprattutto, orientale. Le influenze

filosofiche più rilevanti gli vennero tuttavia dal pensiero di Kant, da cui

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Schopenhauer deriva la distinzione fondamentale tra fenomeno e

noumeno anche se poi si discosta radicalmente dall’accezione kantiana

per il significato che egli attribuisce a questi due concetti. Infatti, per

Kant il fenomeno è l’unico dato conoscibile all’intelletto umano mentre

il noumeno assume la funzione di un concetto limite; per Schopenhauer

il fenomeno, inteso come rappresentazione, è pura apparenza mentre il

noumeno, inteso come volontà, è in qualche modo conoscibile.

Scrive Schopenhauer all’inizio della sua opera maggiore: “Il mondo è

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una mia rappresentazione” : ecco una verità valida per ogni essere

vivente e pensante. L’uomo, secondo il filosofo tedesco, può avere una

conoscenza del mondo solo astratta e riflessa, e quando perviene a tale

coscienza, allora si può dire che lo spirito filosofico è entrato in lui.

Schopenhauer parte dall’assunto che il mondo sia una nostra

rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere

le cose per quelle che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si

trovi dentro alla nostra coscienza, così come insegna la filosofia

moderna. Il mondo è rappresentazione e la rappresentazione ha due metà

essenziali ed inseparabile: il soggetto e l’oggetto. Il soggetto della

rappresentazione è ciò che tutto conosce senza essere conosciuto da

alcuno, il soggetto è dunque il sostegno del mondo, la condizione

universale di ogni fenomeno. L’oggetto della rappresentazione è invece

ciò che è conosciuto e condizionato dalle forme a priori dello spazio e

del tempo. Il soggetto e l’oggetto sono inseparabili, ciascuna delle due

metà non ha senso né esistenza se non per mezzo dell’altra e in ordine

all’altra, ovvero ciascuna esiste con l’altra ed in essa si dilegua.

3 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Mursia, Milano, 1969.

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Se il mondo è rappresentazione di un singolo soggetto, perché parliamo

di un mondo e non di tanti mondi quanti sono i soggetti? Come

riusciamo a distinguere i sogni dal mondo reale se entrambi sono

rappresentazione? Per Schopenahauer, tutto ciò è possibile perché, come

ha insegnato Kant, il conoscere avviene attraverso delle forme essenziali

che stanno a priori della nostra coscienza, ma mentre per Kant

esistevano molteplici forme a priori, per Schopenhauer esistono solo tre

forme: spazio, tempo e causalità. Secondo queste intuizione,

Schopenhauer considera il mondo come una rappresentazione, la vita

come un sogno, ovvero un insieme di apparenze ingannevoli. Ma, al di

là del sogno, esiste la realtà vera sulla quale l’uomo (che a differenza

degli animali è naturalmente portato a stupirsi della sua esistenza) non

può fare a meno di interrogarsi.

La volontà infinita

Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione

kantiana tra fenomeno e noumeno. Ma questa distinzione viene intesa da

Schopenhauer in un senso che non ha nulla a che vedere con l’originale

kantiano. Per Kant il fenomeno è la realtà, l’unica realtà accessibile alla

conoscenza umana, mentre il noumeno è il limite di questa conoscenza.

Schopenhauer intende invece come fenomeno l’apparenza delle cose,

mentre come noumeno la realtà che si nasconde dietro il sogno e

l’illusione. Mentre per Kant il noumeno è irraggiungibile, inconoscibile,

per il filosofo di Danzica esiste una via d’accesso a questo mistero.

Schopenhauer indica come via d’accesso al noumeno la volontà: non la

volontà finita, individuale e consapevole, ma bensì la volontà infinita,

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una ed indivisibile, che vive nell’uomo come in ogni altro essere della

natura.

Mentre per Hegel la realtà è ragione, per Schopenhauer la realtà si

identifica con la volontà irrazionale; l’agire non è che una oscura ed

indistruttibile volontà di vivere: questa è la realtà profonda che si

intuisce attraverso l’apparenza della rappresentazione. La volontà è

l’essenza di ogni individuo e, nel tempo stesso, del mondo intero. È la

volontà che anima ogni forza della natura così come ogni azione

dell’uomo: dietro ogni cosa, dalla forza di gravità al volere cosciente

dell’essere umano, si cela la medesima essenza che differisce solo nel

suo apparire.

Quello di volontà è il concetto centrale della filosofia di Schopenhauer:

l’essenza di ogni essere non è altro che volontà. A questa verità l’uomo

può pervenire solo ricercando nel profondo di se stesso e squarciando

quello che Schopenhauer definisce il velo di Maya, ovvero quel velo di

illusione che ammanta le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo

ingannevole e confuso. Questo compito è affidato, anzitutto, al filosofo

il cui scopo deve essere quello di svelare l’intimo segreto del mondo.

Ma cosa intende Schopenhauer per volontà? Per il filosofo tedesco, la

volontà non è una facoltà legata alla ragione ma una essenza inconscia,

irrazionale, indistruttibile e universale, pura vitalità, istinto puro, vita

eterna ed infinita, senza spazio né tempo, pur riconoscendo se stessa

rimane un volere cieco e senza scopo.

“La volontà – scrive Schopenhauer – è la sostanza intima, il nocciolo di

ogni cosa particolare e del tutto, è quella che appare nella forza naturale,

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cieca, è quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo,

l’enorme differenza che separa i due casi non concerne se non il grado

della manifestazione, l’essenza ciò che si manifesta ne rimane

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assolutamente intatta” .

Il pessimismo

L’essenza del mondo, per Schopenhauer, come abbiamo visto, è volontà;

la volontà è conflitto e lacerazione, dunque dolore. E l’assenza di

bisogni è noia. “La vita – scrive Schopenhauer – oscilla tra il dolore e la

noia; è l’oggettivazione più perfetta della volontà di vivere; per questo la

sua essenza è ‘volere e aspirare’; l’uomo è volontà e bisogni e dunque

dolore. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l’uomo

cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo, che

quand’anche gli riesca con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò

appunto si accosta con ogni suo passo ed anzi vi drizza in linea retta il

timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio alla morte. Questo è

il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui il peggiore di tutti gli

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scogli, ai quali è scampato” . Dalle parole del filosofi di Danzica, si

evince chiaramente come la sua visione del mondo sia tutta orientata

verso un estremo pessimismo, che permea ogni suo pensiero e ogni sua

deduzione filosofica. Secondo le sue intuizioni, ogni essere umano

conduce la sua esistenza dedicandogli ogni possibile cura, cercando di

sfuggire dalle angosce e dagli ostacoli, nell’illusione di sfuggire ad un

destino che, comunque, dovrà finire in maniera tragica e dolorosa per

mezzo della morte. Anche l’amore, che apparentemente è un sentimento

piacevole, è una strategia di cui si serve la volontà al fine di far

4 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Mursia, Milano, 1969.

5 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Mursia, Milano, 1969.

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riprodurre la specie, servendosi delle lusinghe e del fascino per

raggiungere il proprio scopo. Non v’è modo di sfuggire a questo

dominio del Volere sull’esistenza; neanche il suicidio può salvare

l’essere umano da questa egemonia, poiché anche in questo gesto

estremo si nasconde la volontà. La vita è dunque assolutamente priva di

ogni senso, l’uomo è schiavo di una volontà che non è guidata dalla

ragione.

La liberazione dal dolore

Il supremo compito morale di ogni essere umano, per Schopenhauer,

consiste nel liberarsi dal dolore. La salvezza non viene da Dio, ma bensì

da noi stessi, dal riconoscere l’origine del male nella volontà e dalla

rinuncia al volere, dal dimenticare gli affanni della vita per contemplare

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