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Il primo tipo di approccio può essere chiamato anche “logico-insiemistico”: esso ha troppo spesso
l’effetto di collocare, nella mente degli studenti, in primo piano l’idea di insieme definito da proprietà
naturali, che lo qualifica come unità semantica, e fa dimenticare i particolarissimi vincoli a cui è sog-
getto. Gli esperimenti condotti dagli autori citati con un gruppo di discenti adulti hanno rivelato che del-
la nozione di gruppo è stata trasmessa solo la superficie: gruppi vengono considerati isomorfi quando
hanno la stessa cardinalità, sottoinsiemi vengono ritenuti sottogruppi quando sono formati da elementi
omogenei (le simmetrie assiali di un poligono regolare, oppure i numeri dispari). La nozione di gruppo
viene quindi identificata, al pari della lettera “a”, con un’idea, immediata ed unitaria, oppure anche un
esempio concreto.
Come rilevato da Hazzan (1994), l’esempio concreto si sostituisce al concetto generale soprattutto a
causa della falsa suggestione dei termini, come “prodotto”, “potenza”, che sono presi in prestito dal
campo dei numeri reali, e vengono però utilizzati nelle definizioni formali: è allora inevitabile che il vuo-
to semantico di quella che vorrebbe essere una designazione generale, decontestualizzata, venga
riempito in quel modo, con gli oggetti che vengono porti su un piatto d’argento. Uno dei casi più tipici
e frequenti riguarda il concetto di “inverso” di un elemento g di un gruppo moltiplicativo, che viene
troppo spesso denotato 1/g, come un rapporto di quantità, il risultato di una divisione, anziché come
un elemento legato a g da una precisa identità. Un altro caso ci viene riferito da Nardi (2000), che ha
lavorato con un gruppo di studenti universitari. Uno di questi ha difficoltà a capire il concetto di “ordine
di un elemento”. Egli ha recepito, in maniera fin troppo efficace, il concetto statico-insiemistico di “or-
dine di un gruppo” che adombra quello di “ordine di un elemento”. La docente cerca di favorire la
comprensione dicendo che l’ordine di g è l’ordine del sottogruppo generato da g, ma ciò non aiuta lo
studente ad orientarsi. Tuttavia, egli sa che, nel caso considerato, esiste un numero n tale che le po-
tenze di g, prese successivamente, cominciano a ripetersi dopo l’n-esima, e quindi basta elencarle fi-
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no all’n-esima per avere tutti gli elementi del sottogruppo generato da g. L’idea dinamica e operativa
non riesce a raccordarsi con la designazione statica di “ordine”, e subentra una frattura. Il linguaggio
verbale presenta anche altre controindicazioni, come rilevato in un mio precedente intervento (1999):
esso induce infatti un fuorviante aspetto di sequenzialità, che falsa l’effettivo sistema di relazioni con-
tenute in un enunciato. Questo può essere, in realtà, articolato in diverse direzioni, oppure del tutto
privo di direzioni, come nel caso della logica dei predicati, in cui la freccia dell’implicazione viene erro-
neamente presa per un’indicazione del verso in cui deve procedere il ragionamento.
Sembra allora opportuno studiare altri registri espressivi, ad esempio, quello figurato. Qui, però, il di-
segno scaturisce da una convenzione, che ne rende non immediata la decodifica. E, per questo, può
creare equivoci, poiché viene istintivo dare dell’immagine un’interpreta-zione letterale. Ciò è anche
frutto della naturale esigenza di trovare un substrato materiale del concetto, che non sia solo una me-
tafora vaga e, magari, un po’ artificiosa.
All’estremo opposto si colloca il linguaggio puramente simbolico, che, per contro, produce il rischio di
un apprendimento meccanico, privo di spessore concettuale.
3. Come si deve insegnare l’algebra?
La strada più adeguata è, neces-sariamente, quella che asseconda le esigenze degli studenti, emerse
dalle esperienze effettuate. Tali esigenze si possono riassumere in uno slogan: non basta operare,
occorre operare materialmente. Questa proposta si può interpretare alla lettera, nel senso del ricorso
ai materiali manipolativi: Huentick (1996), ha introdotto, agli studenti della California State University,
la teoria dei gruppi facendoli giocare con le configurazioni di tre elastici tesi tra due file di chiodi.
In senso più generale, invece, la materia è un oggetto che chiunque può manipolare secondo il pro-
prio desiderio, che può analizzare liberamente, senza dover passare attraverso i percorsi obbligati di
regole artificiose. È un oggetto che, come quelli concreti, pur non essendo necessariamente “auto-
definente” (una pianta, un animale), ha, perlomeno, delle vie d’accesso “auto-definite” (una stanza
chiusa, una stanza buia, un labirinto): chi guarda l’oggetto non sa immediatamente cosa sia, o cosa
celi al proprio interno, ma sa come procedere per esplorarlo.
Contemporaneamente, però, l’oggetto riproduce fedelmente, senza omissioni o aggiunte, il concetto
astratto che rappresenta.
La modalità che meglio risponde a questi criteri è forse lo schema che visualizza, in maniera essen-
ziale, un sistema di relazioni. È un ritratto strutturato del concetto, un foto finish del processo colto un
attimo prima di essere incapsulato, che dunque rimane espanso, ma, al contempo, perviene ad una
sintesi. Esempi sono le tavole di composizione dei gruppi finiti, oppure le visualizzazioni delle radici
dell’unità come vertici di un poligono regolare, le cui regolarità corrispondono a proprietà algebriche.
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Ho usato, non a caso, il termine “ritratto” anziché “immagine” del concetto. Il riferimento è alla teoria di
Anna Sfard (1991), che invoca fortemente la complementarità della conoscenza operativa (dinamica,
sequenziale, differenziata) e della conoscenza concettuale (statica, simultanea, unitaria), che Sfard
paragona a quella di un viso noto: lo sappiamo riconoscere quando lo vediamo, ma non sapremmo
disegnarlo o descriverne i tratti a parole. Il ritratto strutturato è una sorta di ritratto cubista, che ne e-
strinseca i possibili percorsi di analisi.
Gli schemi che abbiamo proposto per la teoria dei gruppi sono tutti oggetti geometrici, che vengono
esplorati secondo modalità geometriche. Nel caso della tavola di gruppo si cercano le simmetrie che
esprimono la commutatività, la ciclicità, si intersecano segmenti per trovare risultati di operazioni, per
ricercare gli inversi, per verificare la chiusura di sottoinsiemi rispetto all’operazione, e così via. Poi esi-
stono le figure geometriche vere e proprie, come i poligoni regolari.
Dennis Almeida (1999) descrive una sperimentazione comparativa di introduzione della teoria dei
gruppi a due classi di studenti universitari. Ad una era stata somministrato un corso puramente forma-
le, all’altra i gruppi erano stati introdotti mediante visualizzazioni geometriche, utilizzando, ad esempio,
i gruppi dei movimenti del piano. Decisamente rivelatore è stato il divario tra gli esiti delle due classi
nel risolvere un esercizio in cui si chiedeva di trovare rotazioni del piano verificanti una condizione as-
segnata: chi ha seguito l’approccio analitico, basato sulla manipolazione di matrici ortogonali a coeffi-
cienti incogniti, si è immediatamente arreso di fronte alla complessità delle equazioni trigonometriche
risultanti. Chi, invece, si è affidato alle proprietà geometriche delle rotazioni, ha trovato una soluzione
sintetica ed elegante.
In questo caso, i “migliori solutori” sono quelli che hanno lavorato su di uno schema. Mi preme sottoli-
neare che “schema” qui non ha la valenza negativa di sistema rigido e ripetitivo di regole, ma di strut-
tura, le cui relazioni possono essere esplorate. E in ciò si realizza, da parte del solutore, una parteci-
pazione non solo attiva, ma anche creativa. Il solutore, infatti, deve orientarsi da sé, deve trovare da
sé la strada che conduce alla soluzione tra le varie, articolate possibilità offerte dalla figura. E qui arri-
viamo ad una sorta di paradosso, di provocazione: tradizionalmente, si tende a vedere una dicotomia
nell’approccio ai problemi matematici in termini di procedurale/concettuale, strumentale/relazionale,
dinamico/statico, analitico/sintetico. L’approccio che abbiamo descritto, invece, assomma in sé la rigi-
da concisione della figura con la libera elaborazione del solutore, che non è altrimenti codificabile. È
un processo non algoritmico, non sequenziale, che non progredisce necessariamente, ad ogni passo,
verso il traguardo, ma è una serie di tentativi e di scoperte.
4. A cosa serve l’algebra?
In termini più concreti, la geometria, tramite la visualizzazione, consente l’analisi di strutture e relazio-
ni, e quindi aiuta a scoprire l’algebra. L’algebra può essere definita, infatti, come studio delle relazioni
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che sono generate dai processi. D’altronde, gli aspetti relazionali e procedurali convivono nella stessa
opera di Al-Khuwarizmi: il “completamento” ed il “bilanciamento”, da un lato, trasformano le equazioni
in un modo che fa progredire verso la soluzione, dall’altro sono tese ad ottenere identità tra quantità
positive, atte ad essere tradotte in uguaglianze tra aree. Per Sfard (1991) l’espressione algebrica di
una funzione (equazione del grafico) è l’anello di congiunzione tra la curva (realizzazione puramente
relazionale) e l’algoritmo di tabulazione dei valori (realizzazione puramente procedurale). In questo
modo sarebbe stata raggiunta la sintesi tra la visione dinamica-quantitativa di Newton e quella statica-
simbolica di Leibniz, invocata da Gottlob Frege, nel 1904:
In tempi recenti la parola variabile è predominante nelle definizioni [di funzione]. Conseguentemente,
l’Analisi riguarderebbe i processi temporali, dato che prende in considerazioni le variabili. Ma, in effetti,
non ha nulla a che vedere col tempo; la sua applicabilità ai fenomeni temporali è irrilevante… non ap-
pena ci accingessimo a citare una variabile, ci scontreremmo con un qualcosa che varia nel tempo e
quindi