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Capitolo 13 dei Promessi Sposi
Ripartendo dai fatti con cui termina il capitolo precedente ma facendoli passare dall’ottica del vicario, questa parte del Romanzo inizia con le contromisure dello stesso.
Dopo un pranzo non goduto appieno, a quest’ultimo giunge la notizia da alcuni galantuomini (così chiamati perché volevano scongiurare qualsiasi forma di violenza) che una folla numerosa si sta dirigendo alla sua dimora con fare minaccioso; quindi, egli è costretto a barricarsi, e con lui i servitori sprangano le finestre e chiudono a chiave le porte.
Quindi viene riferito l’avviso portato al comandante delle truppe del castello Sforzesco, che manda alcuni soldati alla dimora del vicario; tuttavia, essi ritardano e non riescono a placare la rivolta; a questo punto, l’attenzione si sposta nuovamente sulla folla, con Renzo che stavolta è portato a immischiarvisi per via del piccolo impulsivo istinto di giustizia che è in lui da sempre.
Tuttavia il suo pensiero autonomo e razionale già messo in mostra nel capitolo XII ritorna quando ode la volontà di un vecchio mal vissuto, che brama di appendere il vicario a un paletto sulla porta dell’abitazione; ma, nel momento in cui il promesso sposo esprime il suo disappunto a riguardo, la folla si indigna e per poco non si accanisce contro di lui, che però beneficia dell'aiuto delle persone vicine a lui, le quali riescono a fargli da scudo e a far calmare le acque.
Nel frattempo giunge sulla scena anche il gran cancelliere Ferrer, di cui si sparge la voce per la quale egli sia pronto ad arrestare il vicario; viene qui riportato un intervento metanarrativo dell’autore, che divide il tumulto in due fazioni: quella dei moderati e quella “irritata e procellosa”, con una maggioranza di coloro che si trovano “nel mezzo” e si schierano con l’una o l’altra a seconda della situazione.
In questo caso, quindi, emerge una netta prevalenza di quella moderata.
L’attenzione si sposta ancora una volta su Renzo, a cui viene ingenuamente fatto credere che il gran cancelliere sia un galantuomo (si era chiesto di chi si trattasse, avendolo già sentito nominare nelle grida di Azzecca-Garbugli nel capitolo III); pertanto, si fa strada tra la folla e riesce a salutare Ferrer, diventando così inebriato dalla situazione da sentirsi quasi suo amico.
Lo stesso sostituto del governatore di Milano si diletta a salutare la folla ridente e a proclamare in continuazione “pane e giustizia”, per poi entrare nella dimora del vicario anche grazie all’aiuto e all’appoggio della folla.
Dopo aver portato con sé e tranquillizzato il vicario e aver addirittura raccolto l’applauso della folla, Ferrer ritorna in carrozza sulla via del ritorno, durante la quale è invaso da preoccupazioni riguardanti le reazioni dei suoi superiori una volta appreso l’accaduto; dall’altra parte, il vicario manifesta la sua propensione a evadere da una situazione del genere, anche a costo di diventare eremita.
Ma, dal canto del gran cancelliere, questi dovrà rispondere alle domande del governatore appena questo sarà di ritorno e, come riferito dal narratore, da questo momento in poi non si hanno più notizie del vicario stesso.