Concetti Chiave
- Lucio Anneo Seneca è un esponente di spicco della prosa romana, noto per la sua capacità di rinnovare la filosofia morale antica con un pensiero originale.
- Nonostante le difficoltà politiche, Seneca ha avuto un ruolo significativo a corte, prima come educatore di Nerone e poi come scrittore durante il suo ritiro forzato.
- Le opere di Seneca, tra cui dialoghi, trattati e tragedie, trattano temi come la virtù, la clemenza, la brevità della vita e le passioni umane, con una prosa vivace e incisiva.
- Le sue tragedie, che includono Medea e Fedra, esplorano le passioni incontrollate e i loro effetti catastrofici, mettendo in scena il contrasto tra ragione e furor.
- Nel corso dei secoli, Seneca è stato apprezzato per la sua saggezza e criticato per le sue contraddizioni, influenzando numerosi autori e movimenti culturali.
In questo appunto si descrive la biografia di Lucio Anneo Seneca, con analisi della sua formazione e in particolare modo delle sue opere letterarie più importanti.
Indice
Breve introduzione su Seneca
(4 a.C.
- 65 d.C.) - Seneca, insieme con Cicerone, è l’esponente più illustre della prosa romana. Riprende la filosofia morale antica, rinnovandola con il suo pensiero. Seneca è anche l’unico poeta tragico latino di cui possediamo interamente i suoi testi.
La vita di Seneca
Seneca è nato in Spagna e qui studia retorica e filosofia.
Da giovane aveva abbracciato una vita dedita alla contemplazione, poi abbandonata per non dispiacere il padre intraprendendo il cursus honorum (scalata politica delle varie cariche) ricoprendo la questura. Aveva ottime qualità oratorie e tutti lo ammiravano per questo. Ma i rapporti con gli imperatori erano difficili sin dall’inizio. Caligola progettava di farlo uccidere, ma era stato convinto a non farlo da una donna influente a corte che gli aveva detto che Seneca fosse malato e sarebbe morto di lì a poco tempo.
L’ostilità di Claudio era ancora maggiore: la moglie Messallina aveva convinto Claudio a far esiliare Seneca inventandosi che avesse una relazione clandestina con Giulia Livilla, sorella di Caligola. Fu condannato all’esilio in Corsica fino a quando la nuova moglie di Claudio, Agrippina, non lo richiamò perché lo voleva come maestro di suo figlio Nerone.
Seneca entra e sta per molto tempo in servizio nel palazzo imperiale. Quando Claudio muore e Nerone, non ancora diciottenne, è successore al trono, lui si trova a essere suo educatore e praticamente si trovava lui al governo dell’impero: le fonti confermano che inizialmente Seneca, Agrippina e il prefetto del pretorio Burro erano a governare l’impero. Seneca nutre la speranza di fare di Nerone un personaggio e un principe esemplare, speranza che trascriverà nel De clementia, ma che si rivelerà un’illusione. Il potere di Nerone diventa ben presto dispotico al quale si annettono anche intrighi e delitti che Seneca dovrà silenziosamente accettare.
Nel 59 Nerone, spinto da Agrippina, fa uccidere la madre ed è quasi certo che Seneca ne sia stato a conoscenza e, non avendo fatto niente per impedirlo, sia stato anche complice. Seneca rimane al fianco di Nerone anche dopo il matricidio. In alcuni frammenti è possibile decifrare una giustificazione della permanenza: dice che anche i sapienti fanno le stesse azioni degli stolti, ma con diverse intenzioni. Ma Seneca si fece sempre più insofferente al fianco di Nerone, che diventava sempre più spietato: nel 62 Burro muore e viene sostituito da Tigellino.
Seneca chiede a Nerone il permesso di abbandonare l’attività public e di ritirarsi a vita privata mettendo come scusa l’età avanzata e la saluta vacillante. Si concentra solo sugli studi, sulla lettura, sulla riflessione e sulla scrittura delle sue opere. Il 62 è l’anno del ritiro di Seneca, che lui chiama secessus e che dura fino alla morte, nel 65. Finalmente può vivere quella vita contemplativa che tanto desiderava nella giovinezza, ma che non aveva potuto vivere per far felice il padre. Durante questo periodo viene scoperta la congiura pisoniana (65) e Nerone individua tra i complici anche Seneca, il quale lo costringe a suicidarsi. Secondo il racconto di Tacito, Seneca affronta la morte con coraggio e serenità, ispirandosi alle “morti filosofiche” di Socrate e altri grandi sapienti del passato. Nerone andrà a dire che Seneca si è suicidato perché aveva raggiunto la somma sapienza.
Tante opere di Seneca sono andate perdute. Le orazioni sono completamente perse. Abbiamo scarsi frammenti di un trattato intitolato Moralis philosòphiae, libri e di testi di argomento filosofico. Molte opere non sue sono sotto suo nome vista la sue grande fama. Di dubbia autenticità abbiamo una raccolta di epigrammi.
per ulteriori approfondimenti sulla vita di Seneca vedi anche qua
I Dialogi
I Dialogi sono dieci opere di argomento filosofico in tre libri (nove opere in un libro e una, il De ira, in due libri). I dialoghi di Seneca non sono come quelli di Platone e di Cicerone (tra due o più personaggi, in una ambientazione storica e in una cornice drammatica): si parla sempre in prima persona avendo come unico interlocutore il dedicatario dell’opera.
I Dialogi di Seneca non sono dei veri dialoghi, ma l’influsso della diàtriba cinico-storica li rende vivacemente discorsivi e si dialoga con il destinatario introducendo a volte le obiezioni di un interlocutore fittizio oltre il dedicatario.
I dialoghi di genere consolatorio (o consolazioni o dialoghi consolatori)
La Consolatio ad Marciam: il discorso consolatorio rivolto a Marcia è l’opera più antica, scritta prima dell’esilio. Ha carattere retorico sia nei temi (convenzionali) sia nello stile. Seneca consola Marcia che ha perso il giovane figlio Metilio da tre anni. Seneca è dotato di molta sensibilità e di empatia, che lo porta a immedesimarsi nel dolore altrui. Di “consolazioni filosofiche” se ne leggevano greche, mentre l’iniziatore latino è Cicerone (Consolatio). Seneca, infatti, usa varie filosofie per consolare chi ha subìto un lutto e per arrivare alla conclusione che la morte non è un male, segue due strade: quella della morte come fine di tutto e quella della morte come passaggio a una vita migliore. Conclude la consolazione elogiando il figlio Metilio e immagina che ora sia in cielo accolto dal nonno Cremuzio (influssi del Somnium Scipionis di Cicerone). Seneca è stato in grado di rielaborare i luoghi comuni arricchendoli con la padronanza del suo lessico.
La Consolatio ad Helviam matrem: scritta durante l’esilio in Corsica, è il discorso consolatorio rivolto a sua madre Elvia, che soffre per la condanna e la lontananza di Seneca, suo figlio. Anche qui Seneca usa i topoi greci per convincerla che l’esilio non sia un male, ma solo un cambiamento di luogo, che non toglie all’uomo l’unico vero bene, e cioè la virtù. Il saggio ha come patria il mondo intero, perché tutti siamo cittadini del mondo (cosmopolitismo stoico), rifiutando ogni distinzione di razza e di nazione.
La Consolatio ad Polybium: scritta anche questa durante l’esilio, è il discorso consolatorio a un potente liberto dell’imperatore Claudio a cui muore un fratello. Riprende molti temi tela Consolatio ad Marciam essendo una consolatio mortis, come il corso necessario e immodificabile del destino, la dimostrazione razionale della morte che non è un male, l’insensatezza di piangere un morto, perché “o è felice o non esiste più” (aut beatus aut nullus est), quindi non prova sofferenza.
In realtà, Seneca approfittava di parlare di lutti per supplicare l’imperatore a richiamarlo dall’esilio, dato che l’encomio (elogio) è un elemento caratterizzante delle consolazioni, e lo fa nei confronti di Polibio, del fratello morto, ma soprattutto di Claudio, esaltandolo sperando nella sua grazia. Per questa ragione, molti rifiutano di attribuire la consolazione alla madre Elvia perché sarebbe incoerente con l’encomio, anche se non c’è nessuna tesi che sostiene la non attribuzione. In realtà, la consolazione a Polibio non è insincera; al contrario, è sincera, perché è la confessione di una sconfitta morale.
per ulteriori approfondimenti sui Dialogi vedi anche qua
I dialoghi puri (o dialoghi-trattati)
Il De ira: scritto subito dopo la morte di Caligola, in tre libri, Seneca cerca di combattere l’ira, la più odiosa e pericolosa passione. In contrasto con la filosofia dell’epoca (peripatetica) che giustificava l’ira in alcuni casi, Seneca, in linea con lo stoicismo, crede che l’ira sia inaccettabile e inutile in ogni occasione, perché annebbia la ragione e infatti ha manifestazioni simili alla follia. Suggerisce poi i rimedi all’ira: tra gli esempi presi dalla storia greca e romana, figura quello di Caligola, l’imperatore defunto, ricordando la sua ira, che lo rendeva una bestia assetata di sangue.
Il De brevitate vitae: La brevità della vita è scritta nel 49, l’anno in cui Seneca torna dall’esilio ed è dedicata all’amico Paolino. Seneca afferma che gli uomini sbagliano a lamentarsi per la brevità della propria vita, perché “la vita, se sai farne buon uso, è lunga”, ma molti uomini la sprecano con attività frivole e vane. Per questo, gli “occupati” (affaccendati) sono opposti al saggio, che sa come usare il suo tempo, ricercando cioè la verità e la saggezza. Chi pone degli obiettivi fuori di lui, non potrà mai assicurarsi l’autàrkeia, cioè l’autosufficienza, la libertà da ogni condizionamento esteriore, l’unica che può assicurare pace e serenità.
Il De vita beata: “La felicità” è scritta quando il filosofo era al potere al fianco di Nerone. L’opera è divisa in due parti: nella prima, di carattere teoretico (basato sulla teoria) e polemico, è esposta la dottrina morale stoica, secondo la quale la felicità dell’uomo si realizza vivendo secondo natura (per l’uomo “secondo natura” significa dire “secondo ragione”) e il sommo bene è la virtù (critica gli epicurei che credono che il sommo bene sia il piacere); nella seconda, di carattere anch’essa polemico, sono aggiunti anche pensieri personali. Seneca risponde alle critiche di chi crede che i filosofi siano incoerenti perché non vivono seguendo i loro precetti. Anche se non fa alcun nome, sappiamo dalle testimonianze di Tacito che sta cercando di difendersi dalle critiche rivolte a lui (e cioè quelle di possedere ricchezze sempre più grandi e di condurre una vita nel lusso, in grandissimo contrasto con la sua filosofia stoica di semplicità e naturalezza). Il filosofo non nega le accuse, ma si difende dicendo che non ha ancora raggiunto gli obiettivi che si propone (“quando attacco i vizi, prima di tutto attacco i miei: quando ne sarò capace, vivrò come si deve”). Sostiene che il filosofo non ama le ricchezze e che non soffre quando ne è privato, ma preferisce possederle per esercitare più facilmente le virtù.
Il De tranquillitate animi: sempre al fianco di Nerone scrive “La tranquillità dell’animo”, dedicata all’amico Anneo Sereno. Seneca nella scrittura immagina che Anneo si stia rivolgendo a lui, chidendogli consiglio e aiuto, perché si sente spiritualmente confuso e mosso da impulsi contrastanti. Seneca suggerisce alcuni metodi per risolvere l’inquietudine e raggiungere la tranquillità dell’animo, come impegnarsi attivamente per il bene comune, coltivare le amicizie, essere parsimonioso, non avere ricchezze e accettare serenamente le avversità e la morte.
Il De otio: ritiratosi, scrive “La vita contemplativa”, non sopraggiuntoci per intero. Si rivolge ancora ad Anneo Sereno, parlando dell’impegno e del disimpegno, chiedendosi se il saggio debba preferire la vita attiva (politica attiva) o la vita contemplativa. Il filosofo propende per l’otium seguendo lo stoicismo, perché è impossibile trovare uno Stato in cui il filosofo possa vivere coerentemente con il suo pensiero (è vicino all’epicureismo: sia lo stoicismo sia l’epicureismo sostengono che il filosofo può impegnarsi nella vita politica solo se le condizioni dello Stato permettano di vivere secondo i suoi principi, quindi mai).
Il De providentia: non sappiamo di preciso quando sia stata scritta “La provvidenza”. Seneca risponde a Lucilio (il dedicatario delle Epistole) che gli ha chiesto perché i buoni sono colpiti dai mali, se è vera la concezione stoica dell’universo retto dalla provvidenza, dalla giustizia divina. Come poi riprenderà Manzoni, Seneca risponde dicendo che in realtà non sono veri mali, quanto delle prove a cui gli dèi sottopongono i buoni per aiutarli a perfezionarsi moralmente.
Il De constantia sapientis: “La costanza del saggio” è dedicata ancora ad Anneo Sereno. In quest’opera Seneca dimostra la tesi stoica secondo cui il saggio non può essere colpito da alcuna offesa, perché la sua forza e la sua superiorità morale lo rendono invincibile di fronte a qualsiasi attacco esterno. Il saggio non subisce alcun danno, perché l’unico bene per lui sta nella virtù, che nessuno gli può togliere.
I trattati (o trattati puri)
I Trattati hanno la stessa impostazione formale dei dialoghi con impianto argomentativo e dialettico e anche qui l’autore parla sempre in prima persona rivolgendosi a un dedicatario con cui immagina di dialogare e discutere (anche vivacemente, secondo il canone della diàtriba). Ricorre molto spesso ad aneddoti e a esempi tratti dalla storia greca e romana. I trattati sono tre: il De clementia, il De beneficiis e le Naturales queastiones.
Il De clementia, trattato di filosofia politica: “La clemenza” è un trattato di filosofia politica in cui Seneca teorizza ed esalta la monarchia illuminata, per questo molto apprezzato soprattutto in età moderna. Si rivolge a Nerone, da poco imperatore, elogiandolo, perché anche disponendo del potere illimitato, lo sa usare bene perché possiede clemenza, la virtù più grande di un sovrano e di chi ha il potere e il dovere di punire. È proprio la clemenza che differenzia il re dal tiranno. Con la clemenza si genera poi un sentimento di amore e di rispetto nei confronti del sovrano, così che l’impero sia più stabile, mentre l’odio e la crudeltà generano tensioni, sofferenze e non permettono di raggiungere la pace. Il re buono, secondo lo stoicismo di Seneca, instaura con i sudditi un rapporto paterno: punisce controvoglia solo quando è necessario e sempre per il bene dei sudditi/figli, con soluzioni che siano sia punitive sia costruttive, così da ricevere la fedeltà dai sudditi.
Seneca si rende quindi conto che il principato sia una monarchia assoluta ed è per questo che pone come virtù politica per eccellenza non la giustizia (come credono Platone e Cicerone), ma la clemenza, che crea una necessaria dipendenza nei confronti di “chi sta sotto”, cioè i sudditi. I sudditi devono sottostare alle leggi, ma se non le rispettano tutto sta nella volontà del principe. Con questa consapevolezza, Seneca crede che il principato sia positivo e riconferma lo stoicismo (ritenendo che la monarchia sia la migliore forma di governo a patto che il re sia saggio). E Seneca elogia Nerone a cui attribuisce tutte le virtù, prima tra tutte la clemenza.
L’opera è un elogio del princeps. In realtà, Seneca non lo sta elogiando davvero, perché il principe è ancora giovane, ma gli sta consigliando indirettamente come dovrebbe comportarsi, offrendogli un modello esemplare, una proiezione perfetta di Nerone stesso.
Ma questo programma politico è labile e incerto, perché non regolato da garanzie legali o condizionamenti esterni. Tutto sta nella sola volontà del sovrano, di essere o non essere clemente, ma è quasi improbabile che un sovrano, con i poteri illimitati, diventi un saggio stoico.
Il De beneficiis, tra etica e politica: anche “I benefici” sono trattati politici, ma non solo. Sono sette libri dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Seneca consiglia modi di fare e di ricevere benefici seguendo lo stoicismo greco. Sono proprio i benefici (dati e ricevuti) a permettere la convivenza civile e la vita sociale. Sono descritti molti esempi e situazioni di aiuto reciproco, di doveri del superiore verso gli inferiori, della liberalità, della riconoscenza e dell’ingratitudine.
Le Naturales quaestiones, trattato di scienze naturali: le “Questioni naturali” sono scritte dopo il ritiro di Seneca. Sono un trattato sui fenomeni atmosferici e naturali in sette libri, dedicato a Lucilio. Nell’antichità i filosofi erano anche fisici, infatti anche le scienze naturali rientravano nel campo filosofico. La filosofia infatti era formata da tre parti: fisica, morale e logica.
Seneca crede che l’etica sia la parte più importante, infatti quest’opera ha uno scopo morale, quello di liberare gli uomini dalla paura dei fenomeni naturali scaturita dall’ignoranza (simile a Lucrezio). Vuole poi mostrare agli uomini i beni messi a disposizione dalla natura e l’uso che se ne può trarre, intenti che sono dichiarati nei prologhi e negli epiloghi di ogni libro. Seneca critica poi gli uomini che sprecano il tempo con occupazioni inutili invece di studiare la natura. Critica anche il modo di rendere la scienza e la tecnica degli strumenti per accrescere i vizi e la corruzione.
Esalta molte volte la ricerca scientifica e crede che sia il mezzo con cui l’uomo può alzarsi oltre ciò che è umano, arrivando fino alla conoscenza delle realtà divine. Conclude l’opera augurandosi che gli uomini studino più a fondo i fenomeni naturali, dichiarando la fiducia nel progresso esprimendo la certezza che in futuro il progresso scientifico porterà alla luce verità ancora ignote. L’uomo deve scoprire le cose che Dio gli “ha nascosto”, perché “Dio non ha fatto tutto per l’uomo”.
Le Epistole a Lucilio
Le Epistulae morales ad Lucilium sono l’opera filosofica più importante di Seneca, perché esprime la sua filosofia e la sua visione della vita e dell’uomo nel modo più maturo e personale. È una raccolta di lettere scritte dopo il ritiro dall’attività politica. Ne abbiamo 124 seppure alcune frammentate, divise in venti libri. Il destinatario è l’amico Lucilio Iuniore (a lui dedica anche il dialogo De providentia e il trattato Naturales questiones). Sono di varia estensione. Seneca, uomo ormai giunto alla vecchiaia, riflette sui problemi della filosofia morale, cercando di migliorare la sua stessa morale. Seneca consiglia e insegna all’amico più giovane tutto quello che ha imparato nella sua vita, per aiutarlo a raggiungere la sapienza che lo stesso Seneca ammette di non possederla ancora lui stesso. In realtà Seneca non scrive solo per se stesso e per l’amico, ma anche per i posteri (lo afferma in una delle prime epistole). Le epistole sono quindi letterarie, cioè pensate per essere pubblicate (è il primo epistolario letterario in latino, perché quelli ciceroniani non erano stati pensati per essere pubblicati).
Ma questo non significa che le lettere di Seneca siano fittizie: una delle caratteristica del genere epistolare è quella del riferimento personale ad avvenimenti della vita quotidiana. E questo aspetto è notevolmente sviluppato, differenziandosi di molto dalle sue altre opere filosofiche precedenti. Ma, come è tipico di Seneca, tutti i suoi episodi tratti dalla vita quotidiana hanno sempre una funzione moralistica: tutte le esperienze personali sono trasformate in occasioni di riflessioni.
Per esempio, nella lettera 53 Seneca racconta di un viaggio in nave (da Napoli a Pozzuoli) che gli ha procurato un forte mal di mare, favorendo così la riflessione sul confronto tra malattie del corpo e quelle dell’anima. Nella lettera 54 racconta di un attacco di asma che gli ha provocato una forte crisi respiratore e trae riflessioni sulla morte.
Caratteristica peculiare delle epistole di Seneca è che non sono ordinate secondo una struttura né un ordine, ma sono scritte liberamente, in maniera disinvolta e appunto colloquiale (addirittura, anche all’interno delle lettere si ha libertà passando da un tema all’altro di solito per associazione di idee, come se fosse un colloquio tra amici), così come il linguaggio usato, che non scade mai nel basso né tanto meno nel volgare: il linguaggio utilizzato è quello del sermo cotidianus, cioè una conversazione informale che si fa tra amici.
Ma un filo conduttore, che collega Lucilio al raggiungimento della saggezza, c’è: le prime epistole cercano di esortare il lettore che non ha ancora chiaro il suo “indirizzo filosofico” a seguire una strada che lo porti a scegliere la propria filosofia. Dalla lettera 30 del terzo libro, Seneca, felice dei progressi di Lucilio, abbandona l’ammaestramento ai principiante (che prevedeva anche il riassunto a fine lettera del suo contenuto con un paio di massime concise), passando a metodi di insegnamento più impegnativi. Ma i progressi di Lucilio sono sia di tipo intellettuale, sia di tipo morale, che più interessavano a Seneca. Infatti, Lucilio sceglie l’otium nel corso dell’epistolario.
Seneca esorta Lucilio a lasciare le occupazioni politiche (era impegnato come funzionario imperiale in Sicilia) per dedicarsi esclusivamente allo studio e alla ricerca della sapientia. L’esilio di Lucilio è felicemente realizzato a partire dall’epistola 82.
I contenuti
L’otium e il secessum (ritiro dalla vita politica) sono i temi conduttori dell’epistolario. Seneca si presenta come un uomo che ha fatto questa scelta troppo tardi, dopo aver perso molto tempo, cercando così di recuperarlo. Seneca ha capito che solo nella sapientia (che si raggiunge impegnandosi contro le passioni e gli impulsi che minacciano la pace dell’uomo) risiedono la vera gioia e i veri valori. Seneca ricerca quindi la virtù, che è il vero bene, e suggerisce a Lucilio di liberarsi dei falsi giudizi del popolo e di interrompere ogni attività frivola, moralmente inutile e fonte di distrazione. Evita i viaggi, la folla, limitandosi alla compagnia di pochi e scelti amici, dedicandosi a un dialogo continuo e fecondo con i grandi filosofi del passato.
Seneca illustra a Lucilio la dottrina stoica, anche se critica alcuni aspetti dello stoicismo e più volte se ne distacca rendendo autonoma e indipendente la sua capacità di giudizio. In più, nei primi libri cita spesso Epicuro (forse il filosofo più amato di Lucilio) per i temi del disimpegno (otium), dell’amicizia e della preparazione alla morte. Seneca immagina che Lucilio sia sorpreso dalle citazioni e subito spiega che la verità è proprietà di tutti, criticando chi giudica le affermazioni non in base al contenuto, ma in base a chi le pronuncia.
Insieme all’otium, i temi dominanti sono il tempo e la morte. Seneca è prossimo alla morte e si prepara a morire. È convinto che il compito del filosofo sia quello di liberarsi dalla morte: crede che chi abbia raggiunto lo scopo dell’esistenza, cioè la virtù, è pronto a morire in qualsiasi momento. Seneca ha finalmente raggiunto l’autàrkeia propria del saggio ed è libero.
Definisce stolto chi invece teme la morte, perché si ribella a una necessità naturale. Chi ha una visione quantitativa del tempo sbaglia. Se ne deve avere, invece, una qualitativa: non conta quanto, ma come si vive. È poi illogico avere paura della morte, perché o che ci riporti nel nulla come eravamo prima che nascessimo, o che ci porti in una vita migliore, in entrambi i casi ci libera dai mali dell’esistenza. Infatti, in determinati casi, come suprema scelta di libertà, può e deve essere arrecata volontariamente dal saggio.
Lo stile della prosa senecana
Nelle Epistole a Lucilio è usato un linguaggio colloquiale e confidenziale. Questo stile è utilizzato anche nei Dialoghi e nei Trattati. Per tutta la vita e in tutte le sue opere, l’autore scrive in prima persona rivolgendosi a un interlocutore reale o fittizio, impegnandosi in un dialogo appassionato e vivace, con il fine sia di convincere razionalmente il destinatario, sia di coinvolgerlo emotivamente. Mentre Cicerone credeva che l’oratoria fosse solo docère (informare e convincere) e delectare (catturare l’attenzione dell’interlocutore senza annoiarlo con il discorso), Seneca crede che compito dell’oratore sia anche quello di movère, cioè emozionare, per far aderire l’ascoltatore alla propria tesi. Lo stile della retorica però è simile a quello ciceroniano (asiano), basato sulla sententia, cioè la frase a effetto.
Ciò che caratterizza la prosa senecana e la differenzia da quella ciceroniana è l’organizzazione sintattica e fonico-ritmica del discorso, il cui nucleo è la frase, non il periodo. Non si usano più interminabili periodi, ma brevi proposizioni, prive di congiunzioni (ac, nam, sed…) che allungano e complicano lo scritto. Questi collegamenti invece erano amati e molto utilizzati da Cicerone, perché gli permettevano di fare collegamenti logici. Mentre Seneca lascia impliciti questi nessi, oppure li sostituisce con altri di tipo fonico-semantico (anafora e altre figure della ripetizione).
Lo stile senecano è quindi molto più conciso di quello ciceroniano, ma usa moltissimo la sua concinnitas, cioè l’attenzione alla forma che armonizza il testo, attraverso antitesi, paralelismo, ameoteleuto, anafora, poliptoto etc. La concinnitas non serve a creare periodi complessi, ma solo a creare sentenze morali in cui il pensiero è espresso nel modo più intenso e incisivo possibile (minimo di parole, massimo significato). Alcuni esempi: “Nasciamo diversi, moriamo uguali”.
Seneca è quindi molto attento alla forma (concinnitas) per creare frasi brevi e dense di significato.
Le tragedie
Abbiamo di Seneca dieci tragedie (le uniche non frammentate della letteratura latina). Nove di argomento mitologico e una è di ambientazione romana (pretesta), chiamata Octavia. Tra le nove di carattere mitologico, una è di incerta attribuzione, perché ha delle caratteristiche che la differenziano dalle altre, come la lunghezza, ed è l’Ercole sull’Eta. Ma anche Octavia è di incerta attribuzione, perché in una scena si parla della morte di Nerone, avvenuta dopo tre anni quella di Seneca (nel 68). Di seguito, le trame:
Agamennone (Agamemnon): riprende la tragedia di Eschilo, con l’uccisione di Agamennone, il re di Argo, che aveva conquistato Troia e torna con la moglie Clitennestra.
Ercole furioso (Hercules furens): riprende l’Eracle di Euripide, con Ercole furioso che massacra figli e moglie e che, quando rinsavisce, vuole uccidersi, ma è fermato da suo padre Anfitrione e dall’amico Tèseo.
Èdipo (Oedipus): riprende l’Èdipo re di Sofocle e lo cambia, perché Èdipo, il re di Tebe, viene a sapere di aver ucciso inconsapevolmente suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta.
Le Fenicie (Phoenissae): riprende di nuovo l’Èdipo, con i figli di Èdipo, Etèocle e Polinìce, che si odiano tra loro. Non è una tragedia completa, ma una serie di scene staccate.
Le Troiane(Tròades): riprende le tragedie di Euripide, come le Troiane, l’Ecuba e l’Andromaca; le donne troiane piangono e subiscono le conseguenze tragiche della loro sconfitta.
Tra le più riuscite:
- Medea: riprende la Medea di Euripide; Medea è furiosa perché è stata lasciata da Giàsone che si sposa con la figlia del re di Corinto, Creonte. Allora, con le sue arti magiche, fa morire Creonte e sua figlia. Nonostante l’amore materno, Medea odia l’uomo che l’ha tradita e uccide i loro figli, volando via su un carro trainato da serpenti alati.
- Fedra(Phaedra): riprende l’Ippolito di Euripide variando la trama, perché Fedra, moglie del re di Atene Tèseo, si innamora di suo figlio Ippolito e gli dichiara il suo amore, che la respinge e allora si vendica accusando Ippolito di aver usato la violenza. Un mostro marino fa morire Ippolito e Fedra confessa la sua colpa e si uccide.
- Tieste(Thyestes): Tieste ha conquistato la moglie e il regno di suo fratello Atreo. Atreo finge una riconciliazione e fa tornare Tieste e i suoi figli nella reggia per vendicarsi: uccide i suoi figli cuocendo le carni che fa mangiare al fratello durante un banchetto, poi gli rivela la verità atroce, vendicandosi con il dolore e lo sgomento del fratello.
Le caratteristiche
La cronologia è incerta. Si crede che siano stati scritti quando Seneca era accanto a Nerone per mostrargli gli effetti negativi del potere dispotico, dal momento che tutte le tragedie hanno la figura negativa del tiranno.
Non si sa se le tragedie siano state scritte per essere rappresentate in teatro o solo lette nelle recitationes in case private. Le caratteristiche, però, suggeriscono che siano fatte per la lettura davanti a un pubblico selezionato, perché nessuna tragedia rappresentava dal vero i delitti orribili, ma venivano solo raccontati nella messa in scena. E poi sicuramente gli imperatori non consentivano la rappresentazione perché in queste tragedie i sovrani sono in realtà odiosi tiranni.
Al centro delle tragedie ci sono anche le passioni sfrenate e non dominate dalla ragione con le relative conseguenze catastrofiche. La morale si ha proprio nell’intenzione di mostrare esempi di scontro degli impulsi contrastanti nell’animo umano. Da una parte c’è la ragione, sempre incarnata in personaggi secondari che cercano di spegnere l’ira o le forti passioni dei protagonisti; dall’altra parte c’è il furor, cioè l’impulso irrazionale, la passione, presentato stoicamente come “pazzia”, perché sconvolge l’animo umano.
Eppure lo spazio dato al furor è molto più grande di quello dato alla ragione oppure di quello che richiede di solito il genere tragico. Cioè, le tragedie di Seneca sono molto più tragiche di quelle di altri scrittori. A volte, troppo attento alla “psicologia delle passioni”, Seneca sembra dimenticare le finalità filosofico-morali. In più, rispetto alle tragedie greche che riprende, le sue sono più macabre e crude. In realtà, tutta l’attenzione per l’orrido costruita intorno ai protagonisti furiosi, serve per dare loro un senso negativo. Cerca di esagerare il truculento per insegnare la morale, cioè come comportarsi e che cosa si deve evitare. Ma il pathos e l’interesse per l’orrido si riscontrava già nei tragici latini arcaici e nello stesso poema di Lucano, quindi Seneca ha il gusto tipico della sua età.
Altra tipica caratteristica delle sue tragedie è l’interesse per la parola invece che per l’azione. Non cura la trama e inserisce elementi senza carica drammatica, come lunghe digressioni mitologiche e racconti o descrizioni. Tutte le vicende mitiche non sono scritte per la loro forza drammatica, ma solo per sviluppare topoi letterari. Ci sono allusioni a testi di autori greci, di Virgilio e Ovidio. Ci sono anche argomenti politici e morali come la colpa del delitto, il regnum e la fides. I personaggi stessi permettono di affrontare temi in base agli spunti che la mitologia offre, e non sono figure drammatiche con caratteri psicologicamente verosimili.
Il tono è solenne ed enfatico, rendendo difficile la comprensione al lettore moderno, infastidito dalla ripetitività concettosa e dagli elementi di stile. Nonostante questi eccessi “barocchi” (enfasi, esuberanza, toni accesi…), le tragedie più riuscite riescono a scavare nell’animo umano e il pathos con la suspense creano intensa emozione e commozione nel lettore. In più, grazie alle sue sententiae (poche parole, massimo significato), tipiche di Seneca, si ottengono risultati efficaci.
L’Apokolokyntosis
Diversa dal resto dei suoi lavori è l’interessante satira menippea (il nome dall’iniziatore Menippo), unica nel suo genere a essersi conservata per intero. Le caratteristiche del genere sono la mescolanza di versi e prosa e dalla mescolanza di serio e faceto (scherzoso). È stata introdotta a Roma da Varrone usata per svolgere temi diatribici di argomento morale. L’opera di Seneca è invece un pamphlet ironico, scritto per la morte di Claudio senza finalità o procedimenti filosofici. Seneca ha dovuto scrivere l’elogio funebre di Claudio per Nerone che l’ha letto pubblicamente, e in questa satira scrive invece la parodia di quell’elogio, dando libero sfogo all’odio e al disprezzo per Claudio, che l’aveva perseguitato e condannato all’esilio.
Il titolo latino è Ludus de morte Claudii, per sottolineare appunto lo “scherzo” letterario. Il titolo greco è di incerta interpretazione, perché kolokynte in greco significa “zucca”, quindi il titolo è stato inteso come “inzuccatura” o “trasformazione in zucca”, con implicito riferimento alla contrapposta apothéosis, cioè la “trasformazione in dio”. Ma Claudio nell’opera non subisce alcuna trasformazione, quindi alcuni credono che il titolo sia inteso come “deificazione di una zucca”, cioè divinizzare lo zuccone Claudio (secondo me l’interpretazione più probabile), altri ancora hanno inteso il senso come “fregatura”, ma tutte le ipotesi non sono dimostrabili.
Seneca comincia scrivendo di riferire fedelmente gli avvenimenti dopo la morte di Claudio. Racconta delle Parche che tagliano il filo della sua vita e di Apollo che canta gioioso per l’inizio del regno felice di Nerone. Sulla Terra tutti esultano e Claudio va in cielo da Giova e si presenta a lui, ma non viene capito perché parla in modo incomprensibile. Zeus quindi chiede a Ercole di scoprire chi sia il tipo ed Ercole, spaventato dall’aspetto mostruoso di Claudio, si prepara alla sua tredicesima fatica. Il testo è lacunoso fino a quando si legge che gli dèi stiano discutendo se divinizzare o meno Claudio. Entra nella discussione Augusto che attacca Claudio, suo nipote, rimproverandolo di aver ucciso molti membri della sua famiglia e chiede una severa punizione. Claudio viene trascinato agli Inferi e passa attraverso la Terra: assiste al suo funerale e capisce allora di essere morto. Vede Roma in festa e ascolta un ironico canto funebre in suo onore. Agli Inferi incontra tutte le sue vittime e viene sottoposto da loro a un processo simile a quelli che faceva lui in vita. È condannato a giocare in eterno ai dadi con un bussolotto forato. Poi Caligola lo reclama come suo schiavo e viene consegnato al liberto Menandro come suo aiutante.
L’opera è estremamente satirica e Seneca si muove con padronanza tra livelli linguistici e stilistici diversi, dal tono leggero e ironico al sarcasmo feroce.
Seneca nel tempo
In base alle culture del tempo è stato sia criticato sia inneggiato. La sua figura è piena di contraddizioni, perché si professava libero ma si era compromesso con il potere assoluto. Durante la sua vita è amatissimo per la sua vasta cultura e lo stile. Ma già dai contemporanei e poi dai posteri viene duramente criticato per le contraddizioni di ciò che predica e di come vive. Quintiliano critica fortemente lo stile dei suoi scritti perché ritiene causino la corruzione della gioventù. Sono d’accordo con lui Frontone e Aulo Gellio.
Era molto apprezzato in ambito cristiano perché condannava le superstizioni e riteneva importante l’esame di coscienza per il miglioramento morale. Anche se poi torna a essere condannato dagli stessi per le sue contraddizioni in vita. Agostino scrive che Seneca venera ciò che critica, pratica ciò che accusa e adora ciò che condanna.
Nel Medioevo le sue opere continuano a essere scritte e studiate. Petrarca lo ama moltissimo insieme con Cicerone e Virgilio.
Dal Cinquecento la sua fortuna cresce. Amato da Montaigne. Nel Seicento barocco, pieno di contraddizioni, Seneca è amatissimo sia per i messaggi morali sia per lo stile efficace. In questi secoli vengono anche rivalutate le sue tragedie, apprezzate per il forte pathos e hanno influenzato notevolmente il teatro italiano, inglese (Shakespeare) e francese (Corneille e Racine). Nel Settecento le sue tragedie sono amatissime dal tragedioso Alfieri, che rappresenta le passioni irrazionali e condanna ogni tirannia.
Durante il Romanticismo viene invece dimenticato perché non viene amata la sua figura poco coerente. Solo alcuni temi, come la condanna della tirannia, interessano gli scrittori come Foscolo.
Dal Novecento viene riscoperto perché i temi di allora hanno a che fare con i problemi attuali: il tempo che passa e non si ferma, la morte inevitabile e certa in confronto alle incertezze della vita (Heidegger), l’indagine per il proprio io, curando il benessere sia fisico sia spirituale (Foucault), il rifiuto della schiavitù e la condanna della guerra. Ma è soprattutto nel teatro che le sue tragedie hanno grandissimo successo.
Domande da interrogazione
- Chi era Lucio Anneo Seneca e quale fu il suo contributo alla letteratura romana?
- Quali furono le principali difficoltà politiche affrontate da Seneca durante la sua vita?
- Quali sono le caratteristiche principali dei "Dialogi" di Seneca?
- Qual è il tema centrale delle "Epistole a Lucilio" e come Seneca lo sviluppa?
- Come si distingue lo stile della prosa senecana rispetto a quello ciceroniano?
Seneca, nato nel 4 a.C. e morto nel 65 d.C., è considerato uno dei più illustri esponenti della prosa romana, insieme a Cicerone. È noto per aver rinnovato la filosofia morale antica con il suo pensiero e per essere l'unico poeta tragico latino di cui possediamo interamente i testi.
Seneca ebbe rapporti difficili con gli imperatori romani. Caligola progettò di farlo uccidere, mentre Claudio lo esiliò in Corsica su consiglio della moglie Messallina. Fu richiamato da Agrippina per diventare il maestro di Nerone, ma dovette accettare silenziosamente i crimini del giovane imperatore.
I "Dialogi" di Seneca sono dieci opere filosofiche che, a differenza dei dialoghi di Platone e Cicerone, sono scritti in prima persona e rivolti a un dedicatario. Sono caratterizzati da uno stile discorsivo e vivace, influenzato dalla diàtriba cinico-storica.
Le "Epistole a Lucilio" trattano principalmente dell'otium e del secessum, ovvero il ritiro dalla vita politica. Seneca consiglia a Lucilio di dedicarsi allo studio e alla ricerca della sapienza, riflettendo sui problemi della filosofia morale e cercando di migliorare la propria morale.
Lo stile della prosa senecana è caratterizzato da frasi brevi e dense di significato, a differenza dei periodi complessi e articolati di Cicerone. Seneca utilizza figure retoriche come l'anafora e l'antitesi per creare sentenze morali incisive, mantenendo un linguaggio colloquiale e confidenziale.