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Il tema della schiavitù in teatro

A portare questi temi sulla scena del teatro tragico era stato ancora una volta Euripide. Nelle sue tragedie, schiavi e barbari, o meglio schiave e donne barbare, perché i maschi nemici venivano per lo più uccisi, dunque non asserviti, assumono una centralità sconosciuta alla drammaturgia precedente, fino a svolgere ruoli da protagonisti. Come ha recentemente osservato Luciano Canfora, «se vi è una tragedia che può considerarsi, da cima a fondo, una tragedia della schiavitù» e del tema, inestricabilmente intrecciato, dell'opposizione tra "barbaro" e greco, questa è l'Ecuba. In questa tragedia, Euripide fa osservare come gli schiavi in effetti siano nati liberi, confutando così la tesi naturalistica, poi ripresa e compiutamente elaborata nel IV secolo a.C. da Aristotele, secondo cui, come sappiamo, la distinzione tra libero e schiavo si fonderebbe su una differenza naturale tra greco e barbaro, diversi nell'anima (razionale) e nel corpo. A causa del rilievo dato agli esclusi, il teatro di Euripide era stato duramente stigmatizzato da Aristofane (445-385 ca. a.C.), le cui commedie erano in sintonia con la visione del mondo del demos ateniese: nelle Rane, il grande commediografo mette Euripide alla berlina, accusandolo precisamente di aver dato nelle sue tragedie la parola alla «donna e Calilo schiavo». Quanto Aristofane cogliesse nel segno e quanto estranea al modo comune "democratico" di vedere fosse la sensibilità di Euripide risulta per esempio dalla citazione tratta dall'Ippolito, riportata nel primo paragrafo, dove è proprio una schiava, la nutrice di Fedra, a svolgere elevate considerazioni filosofiche sul destino ultraterreno degli uomini.

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