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Il tema della morte nelle "Troiane" di Euripide

- Introduzione -
Proprio mentre Atene si stava preparando alla fallimentare spedizione in Sicilia guidata da Nicia (415-13 a.C.), dopo numerosi anni di Guerra del Peloponneso, Euripide mise in scena, durante le Grandi Dionisie del 415 a.C., la celeberrima tragedia “Le Troiane” (inclusa in una trilogia comprendente le altre due tragedie “Alessandro” e “Palamede”, e il dramma satiresco “Sisifo”), nella quale riuscì ad esporre magistralmente gli orrori della guerra, cui gli Ateniesi da molto tempo erano costretti ad assistere, e nonostante ciò, continuavano a portare avanti il conflitto contro gli Spartani.
La tragedia si presenta sin dall’inizio avvolta in un’aura di morte, rovina, distruzione: la città di Troia è caduta dopo dieci lunghi anni di combattimenti sanguinosi, gli eroi troiani sono morti, il popolo è stato massacrato, le donne sono state prese come schiave dagli Achei. Sono proprio queste ultime le protagoniste della tragedia, dalle quali appunto essa deriva il proprio titolo: attraverso la costante presenza della ex-regina Ecuba, di Cassandra, di Andromaca, e del Coro di prigioniere troiane, Euripide descrive la catastrofe di una città, che era stata un tempo fiorente ed egemone, proprio come poteva esserlo Atene nel V secolo a.C., narrandone il dolore, e le vessazioni subite dall’arroganza dei conquistatori, peraltro destinati anch’essi a soffrire e perire sulla strada del ritorno in patria.
- Prologo
Il prologo della tragedia si apre con un monologo del dio Posidone, che dopo aver brevemente descritto la fondazione di Troia, si osserva intorno, notando che “I boschi sono deserti, i santuari degli dèi/ inondati di sangue; sui gradini dell’ara/ di Zeus Erceo giace il cadavere di Priamo” (vv. 15-17), conferendo già un chiaro inquadramento di quella che era la situazione della città al termine del conflitto: una città distrutta, disabitata, morta. Regna il deserto, si scorge del sangue presso i santuari, e addirittura il re Priamo, giace senza vita dopo che l’arrogante figlio di Achille gli ha tolto la vita. Il dio vuole lasciare la città, poiché nessuno può più attendervi in essa i dovuti sacrifici, in templi deserti e macchiati dalla tracotanza degli Achei: sente in lontananza che presso lo Scamandro, risuona il pianto delle Troiane, lì raccolte per essere imbarcate sulle navi greche, ed esser condotte via come schiave. Posidone scorge Ecuba in lacrime “che piange molto e per molti:/ ancora non sa quale triste morte ha colto/ sulla tomba pietrosa di Achille sua figlia, Polissena” (vv. 38-40), e lasciando la città, dice: “Ma ora addio, mia città, florida un tempo/ addio lisce mura turrite: sen non ti avesse distrutta/ Pallade, figlia di Zeus, tu saresti ancora salda” (vv. 4547). Troviamo quindi altre descrizioni di una città in rovina, con la regina piegata dalle lacrime, dai lutti, a cui se ne aggiungeranno altri come la notizia della morte della figlia Polissena, sgozzata barbaramente presso la tomba di Achille, come le riferirà più avanti Andromaca. Euripide già dal prologo, vuole ricordare agli Ateniesi come qualunque città, per una sorte avversa, può capitolare passando da un ruolo d’indiscussa superiorità alla rovina totale, come ben dimostra la vista della rocca di Troia abbandonata e data alle fiamme, e della regina, un tempo potente, e ora ridotta a piangere la prematura morte dei propri figli, del marito, e delle disgrazie che nonostante tutto continuano a incombere su di lei.
La tracotanza dell’esercito acheo, tuttavia, non è indifferente ad Atena che, pur avendo parteggiato per la caduta di Troia, chiede ora nel prologo l’aiuto di Posidone per fare in modo che i Greci soffrano un amaro ritorno in patria: Aiace infatti, trascinando via dal tempio Cassandra con la forza, ha commesso un atto sacrilego, che la dea intende punire. Il commento con cui Posidone chiude il dialogo con Atena, deve aver dato parecchio da pensare agli Ateniesi, che stavano per intraprendere una nuova campagna militare: “E’ uno stolto l’uomo che distrugge città:/ se condanna alla desolazione templi e tombe, rifugio dei morti/ non scampa per molto alla sua stessa rovina” (vv. 95-97). Il prologo si conclude con il lamento di Ecuba, a tal punto colpita da innumerevoli disgrazie che anch’essa non sa se serva a qualcosa piangere o meno.
- Parodo e Primo Episodio
Nella Parodo ritroviamo Ecuba e le giovani Troiane riunite presso il campo greco, in attesa di essere imbarcate fra continui lamenti e disperazione per la sorte futura avversa.
Nel Primo Episodio entra in scena l’araldo Taltibio, comunicando a quale eroe acheo le varie donne sono state assegnate. Ecuba domanda per il destino delle proprie figlie: apprende che Cassandra è stata scelta come concubina da Agamennone, che Polissena è stata posta presso la tomba di Achille, e che lei stessa dovrà essere la schiava di Odisseo, massima fra le umiliazioni che la regina di Troia potesse subire. Ecuba manda quindi a chiamare Cassandra, che giunge in scena invasata dal dio: gioisce per la propria sorte, chiama addirittura come “nozze” il fatto che Agamennone l’abbia scelta. Quindi rivela che in realtà ucciderà Agamennone, presagendo la rovina della sua famiglia (“lo farò morire, distruggerò la sua famiglia/ ed egli pagherà il fio per i miei fratelli e per mio padre…/ Ma di questo non voglio parlare: non canterò la scure che cadrà sul mio e sull’altrui collo, il matricidio che seguirà le mie nozze/ la rovina della casa di Atreo – vv. 359-364): Euripide ricorda così che nonostante Agamennone sia il supremo vincitore della Guerra, per la sua arrogante tracotanza, si è autocondannato alla rovina, dimostrando come un atteggiamento scorretto, anche in un conflitto, porti disgrazie tanto a chi lo intraprende, quanto a chi lo subisce. E la morte, si configura dunque come la massima punizione per aver osato mancare di rispetto gli dèi, i loro templi, e i loro funzionari come Cassandra. In questo primo episodio, Euripide rievoca tuttavia anche la concezione epica che si dava alla morte, tipica dei poemi omerici; attraverso Cassandra, infatti, afferma che Ettore ad esempio, attraverso la morte ha conquistato fama d’eroe. Aggiunge, inoltre, che “Chi è savio deve fuggire la guerra; ma se ne è costretto,/ la sua bella morte donerà alla patria/ una corona gloriosa, oppure infame, se perirà da vile” (vv. 400-403), ricordando agli Ateniesi che ormai, essendo da troppi anni la guerra avviata, la dovranno concludere degnamente, ma senza ulteriori spargimenti di sangue, per arrecare un prestigio maggiore alla città, e risparmiare alla Grecia altre disgrazie. Nelle ultime parti del primo episodio, Cassandra narra il destino che Odisseo dovrà affrontare, e, dopo aver salutato la madre, si imbarca sulla nave. Ecuba conclude con un altro lamento, in cui rievoca i fasti perduti, la gloria d’un tempo, tramutatasi in un presente doloroso e umiliante, con la prospettiva di un futuro non migliore, anzi.
- Primo Stasimo e Secondo Episodio
Nel primo stasimo il coro rievoca l’inganno del cavallo, acclamato dal popolo della città come un dono divino, fino a quando “un grido di strage” (vv. 556) si abbatte sulle case troiane a notte inoltrata, per l’arrivo dei soldati achei, che seminano morte e distruzione in una città che fino a poco prima da sola teneva testa all’intera Grecia.
Nel secondo episodio, troviamo Andromaca, moglie di Ettore, trasportata su un cocchio greco, con in grembo il figlioletto Astianatte; la donna assieme alla suocera Ecuba intonano nuovamente un lamento, per i numerosi lutti familiari che hanno dovuto subire, e ai quali si aggiungono ora i dolori della prigionia e della servitù: Ecuba invoca il marito affinché la conduca con sé nell’Ade, mentre Andromaca maledice il matrimonio di Paride “che con la sua passione diabolica portò rovina/ alla rocca di Troia”, e prosegue “ecco: cadaveri insanguinati/sono distesi davanti al tempio della dea Pallade/ preda di corvi; con il suo matrimonio/ Troia fu resa schiava” (vv. 597-600). Prosegue la descrizione di Euripide della città devastata, descrizione che doveva produrre nell’animo del pubblico di un’Atene in guerra un grande effetto, sia a livello personale, che collettivo (“Ora vedi la sua miserevole fine [di Troia]!” – Ecuba, vv. 603): Andromaca ed Ecuba infatti, oltre ai lutti familiari, scorgono dovunque il sangue dei loro sudditi, massacrati dalla furia della guerra; un tempo felici cittadini, e ora, per l’ambizione dell’uomo, ridotti a corpi esanimi e destinati ad essere preda di rapaci. Quindi Andromaca annuncia ad Ecuba l’ennesima disgrazia, ovvero la notizia della morte della figlia Polissena, presso la tomba di Achille: le due donne cominciano quindi a parlare della morte; Andromaca sostiene che ormai, in mezzo a tanta sofferenza, morire sia un destino migliore del vivere - “Con la morte le è toccato/ un destino più felice del mio, che ancora vivo” (vv. 630-631) -; Ecuba sostiene invece che “chi è morto non è più nulla/ mentre chi vede la luce nutre ancora speranza” (vv. 632-633). Andromaca, in risposta, afferma che “morire sia come non esser mai nati,/ e che la morte sia preferibile a una misera vita./ Il morto infatti non soffre, perché non ha coscienza dei mali./ Chi ha avuto fortuna, se cade in disgrazia/ si sente smarrito senza la buona stella che lo scortava./ Quella fanciulla è morta, e non conosce la sua sventura:/ proprio come se non avesse mai visto la luce./ E io, che conobbi una fama insigne/ e un’invidiabile fortuna, ho perduto ogni cosa.” (vv. 636-644). Nelle sue parole, possiamo trovare una visione della morte da parte di Euripide abbastanza chiara: è meglio morire, piuttosto che vivere una vita colma di mali, in quanto chi è morto, non ha coscienza dei mali. Sulla scena sopraggiunge quindi l’araldo acheo Taltibio, che comunica ad Andromaca la decisione dei capi greci, e soprattutto di Odisseo, di mandare a morte il piccolo Astianatte, gettandolo giù dalle mura della rocca di Troia - “Un balzo terribile, a rotta di collo/ troncherà d’improvviso il tuo respiro” (vv. 755-756) -. Andromaca, distrutta dal dolore, cede il piccolo all’araldo, che lo conduce via, mentre intanto Ecuba, si abbandona alla disperazione, non potendo fare altro per la morte del nipote, che percuotersi il petto, battersi il capo, e si domanda infine, quali ancora debbano essere le pene da soffrire – “Che cosa manca a che in tutto/ possiamo dirci distrutti?” (vv. 797-798).
- Secondo Stasimo e Terzo Episodio –
Nel secondo stasimo il coro rievoca il passato glorioso della città troiana, ma anche le passate sventure: la città, infatti, era già stata distrutta sotto il padre di Priamo, Laomedonte, per mano di Eracle. Invano sull’Olimpo, Ganimede (fratello di Priamo e coppiere degli Dèi) ricolma i calici di Zeus, poiché ormai la città è distrutta definitivamente: “Una piange lo sposo, un’altra i figli,/ un’altra ancora la vecchia madre” (vv.831-832), e tuttavia Ganimede mantiene sereno il suo volto, “mentre i Greci/ devastavano la terra di Priamo” (vv. 837838). Vana fu per Troia, la presenza di un suo principe fra i numi celesti.
All’inizio del terzo episodio, troviamo Menelao mentre ordina ai propri armati di condurre al proprio cospetto la causa di ogni rovina: Elena. Infatti, il re di Sparta è intenzionato ad ucciderla, compiendo così un atto di giustizia nei confronti dei molti morti che a causa di quella donna hanno perso la vita in battaglia. Menelao sin dall’inizio pone l’accento sul fatto che giunse a Troia “non per una donna,/ come si crede, ma per l’uomo che dalla mia casa/ rapì la mia sposa, traditori di ospiti” (vv. 865-867): ora che Paride è morto, ucciso da Filottete, Menelao ha ad ogni modo intenzione di uccidere Elena, “saziando la vendetta di chi perse i suoi cari a Ilio” (vv. 879), e riceve l’approvazione di Ecuba, che lo sta ascoltando. La vecchia regina, lo raccomanda inoltre di guardarsi bene dal rivolgere lo sguardo ad Elena, affinché il rimpianto non lo catturi, e chiede al re di poter controbattere a ciò che la donna dirà a sua discolpa. Elena argomenta abilmente la propria innocenza, contrastata da Ecuba in un vero e proprio a\gwén giudiziario, con accusa e difesa. Nel terzo episodio sostanzialmente, Euripide non lascia grande spazio alla tragicità che ha contraddistinto le parti precedenti dell’opera, ma troviamo un’improvvisa attenuazione del clima che si era venuto a creare, come spesso si può trovare in quest’autore. La morte viene trattata solo in riferimento ai fatti della guerra, alle vittime e ai lutti che ambo le fazioni hanno sopportato per il tradimento di una donna, che Menelao è intenzionato a uccidere in patria, come troviamo alla fine dell’episodio (vv. 1052-1059).
- Terzo Stasimo ed Esodo -
Dopo i toni più distesi del terzo Episodio, Euripide ci riporta improvvisamente, con il terzo Stasimo, nella dimensione tragica della distruzione e della morte, con un pathos via via sempre maggiore, che culminerà nell’Esodo: il Coro invoca Zeus, lo rimprovera per aver abbandonato nelle mani degli Achei la valle dell’Ida; la città, che fu un tempo radiosa, e ora è invece in preda alle fiamme, in mezzo a cui si aggirano urlando fanciulli orfani; e di aver lasciato il Tempio nonostante i sacrifici, giudicati per l’appunto vani. “Voglio sapere se vedi, Signore/ che siedi nell’etere sul tuo trono/ celeste, questa città rovinata,/ riarsa dall’impronta delle fiamme (vv. 1077- 1080)”: così recita il Coro, conferendo al lettore e, non dimentichiamoci, all’uditorio ateniese del tempo, una veduta d’insieme, quasi aerea, della città morta che brucia gli ultimi segni della sua potenza tra le fiamme greche. La morte è augurata dal Coro a Menelao, che ha fatto imbarcare Elena, principio di ogni male, senza toglierle subito la vita vendicando i lutti di dieci anni di guerra.
Il terzo episodio culmina in una cornice di morte, e di forte lutto familiare, oltre che nazionale: Astianatte, ultimo rifugio della vecchiaia di Ecuba, e ultima speranza di
risollevare la stirpe di Priamo, giace morto e deturpato fra le mani dell’araldo Taltibio che, fra le lacrime di compassione, consegna tristemente il corpicino alla nonna. Reca alla povera donna un messaggio di Andromaca: Astianatte dovrà ricevere gli onori funebri, ed essere sepolto protetto dallo scudo di suo padre. Euripide, con abile maestria, riesce a rendere questa scena, oltre che estremamente toccante, anche terribilmente realistica, quasi si proiettasse chiara e distinta dinnanzi allo spettatore come la pellicola di un film: possiamo solo immaginare quale doveva essere l’impressione del pubblico ateniese, e la reazione di ciascuno, all’assistere alla rappresentazione di questa scena, in un periodo in cui la guerra proseguiva da anni, dove i lutti già erano stati consistenti, e ai quali dovevano aggiungersene altri con la spedizione di Nicia in Sicilia prevista per l’anno corrente, il 415 a.C. . Le parole di Taltibio rivolte ad Ecuba, infatti, sono molto chiare ed esplicite, e risvegliano in chiunque una forte impressione: “Ti ho alleggerita di un’incombenza:/ attraversando le correnti dello Scamandro/ ho lavato il cadavere e ho pulito le sue ferite./ Ora vado a scavargli una fossa,/ perché la nostra collaborazione affretti/ l’imbarco e il ritorno in patria (vv. 1150-1155)”. Lo sfogo di Ecuba, è assai toccante: “Ponete a terra lo scudo levigato di Ettore,/ spettacolo per me amaro e non gradito./ Achei, voi date più peso alle armi che al cuore:/ cosa temevate da questo fanciullo per tramare contro di lui/ una morte tanto orribile? Forse che un giorno/ risollevasse Troia dalla rovina? […] Oh, mio adorato, quale fine infelice hai avuto!/ Se morivi in difesa della città, nel fiore degli anni/ dopo aver conosciuto le nozze e il divino potere,/ potevi dirti beato, ammesso che una di queste cose renda beati […] Infelice, le mura avite, opera del Lossia/ ti hanno miseramente deturpato il capo,/ i riccioli che tua madre tanto amava/ e sfiorava di baci: ora il sangue sprizza fuori/ dalle tue ossa rotte […], sei chiusa per sempre, boccuccia cara […], e ora non tu, ma io seppellisco il tuo giovane corpo:/ io che sono una vecchia ormai priva di patria e di figli (1156-1185)”. Le immagini di morte che Euripide descrisse quasi due millenni e mezzo fa, sono così chiare e nitide, precise e coinvolgenti, oltre che così cariche di pathos, da essere assolutamente immediate anche per noi: la tragedia, pateticamente parlando, si è sviluppata come una climax ascendente; ed è poi culminata nell’estremo dolore, con il lutto più pesante da sopportare, che può colpire chiunque a livello fortemente personale, e cioè la morte di un bambino, peraltro orrenda, e immotivata. Il tutto contornato dalla triste scena dell’anziana nonna, costretta dal destino a seppellire il nipote adorato, come recitano i versi del Coro “ah, il cuore, il cuore/ mi hai scosso! Un giorno dovevi essere/ per me il grande re della città! (vv. 1216-1217)”. Dopo la sepoltura del piccolo Astianatte, e il lamento di Ecuba congiunto a quello del Coro, rientra in scena Taltibio; tutto è pronto alla definitiva partenza da Troia, manca solo un ultimo passo: appiccare il fuoco perché la rocca crolli tra le fiamme, e invita inoltre la regina insieme alle Troiane superstiti, ad imbarcarsi sulle navi. Si conclude così la tragedia, con il lamento di Ecuba e del Coro: la regina, scortata da dei servi greci alla nave di Ulisse, urla il proprio dolore, mentre sullo sfondo, la rocca, si sgretola tra le fiamme.

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