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L’areté femminile

Vi è un’areté anche per la donna aristocratica, che in Omero si presenta come custode del costume e della tradizione e come garante della discendenza legittima. La donna contadina descritta da Esiodo partecipa, come l’uomo, del valore “lavoro”, perché è indispensabile erogatrice di un lavoro socialmente utile. Comunque alla base dell’areté femminile (dal punto di vista dei maschi) anche allora veniva posta la bellezza, come capacità di attrazione erotica, ma solo se ad essa si accompagnavano le virtù della “pudicizia” e della “domestica avvedutezza”, cioè la capacità di amministrare la casa.

Ma questo ruolo era davvero così ben valutato e apprezzato? Nei due poemi omerici, ad esempio, Ettore e Telemaco si rivolgono — rispettivamente — ad Andromaca e a Penelope praticamente negli stessi termini (“su, torna nelle tue stanze e pensa all’opere tue, telaio e fuso; e alle ancelle comanda di badare al lavoro”), ribadendo l’idea della sottomissione della donna all’uomo.
Non diverso è l’atteggiamento di Esiodo nei confronti della donna. Egli afferma l’importanza sociale del suo lavoro, ma la considera alla pari con altri fattori di produzione. Chi vuole guadagnarsi la vita — dice infatti il poeta — deve procurarsi tre beni primari: “una casa innanzi tutto, una donna e un bue per arare”. In tal senso, la donna non è altro che un bene strumentale, anche se importante. Né va dimenticato che presso le famiglie dei signori essa, quando non è preda e bottino di guerra, è considerata un bene di scambio, essenziale anzitutto per la realizzazione di legami di alleanza fra i diversi gruppi e, al momento del matrimonio, viene ceduta dai genitori in cambio di doni da parte del pretendente. Lontane origini ha anche il pregiudizio della donna fonte di ogni male

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