Concetti Chiave
- Caronte, figura mitologica greca, è il traghettatore delle anime nell'Inferno dantesco, un demone che traghetta i dannati attraverso il fiume Acheronte.
- Nella mitologia greca, Caronte è considerato una divinità minore, figlio dell'Erebo e della Notte, con il compito di traghettare le anime dei morti nel regno di Ade.
- Dante si ispira a Virgilio per la descrizione fisica e il ruolo di Caronte, riprendendo elementi dall'Eneide e inserendo il demone in un contesto drammatico e minaccioso.
- Nel Canto III dell'Inferno, Caronte appare come un vecchio con occhi infuocati, caratterizzato da un atteggiamento minaccioso verso le anime dannate e verso Dante stesso.
- L'ingresso di Caronte è accompagnato da un'atmosfera di sospensione e attesa, culminando in un tumulto di anime e lamenti che evidenzia il suo ruolo di guida verso le tenebre eterne.

Indice
Caronte, il traghettatore di anime
Nel terzo canto dell’Inferno Dante e Virgilio incontrano un essere mostruoso: è Caronte, “nocchier de la lividia palude” che ha il compito di traghettare sull’Acheronte, il fiume infernale, le anime dei dannati.
Nella mitologia greca Caronte, figlio dell’Erebo e della Notte, è una divinità minore, un ministro del dio infernale Ade. Proprio per la sua funzione di traghettatore delle anime dei morti, la superstizione popolare del mondo antico greco, etrusco e romano imponeva che, dopo le esequie, fosse collocato nelle tombe un obolo a lui destinato.
Il nome di Caronte sembra essere collegato all’aggettivo greco “charopos”, che è infatti il suo epiteto più comune; ma veniva da alcuni correlato allo stesso fiume Acheronte, che in greco può voler dire “senza tempo”. Due sono le opere liriche più significative nelle quali incontriamo lunghe descrizioni della figura di Caronte, una è l’Eneide di Virgilio, l’altra, la Divina Commedia.
Per ulteriori approfondimenti sulla figura mitologica di Caronte vedi qui
Caronte nell’immaginario dell’Inferno dantesco
Anche nella descrizione che ne fa Dante i tratti dominanti sono la vecchiaia e gli occhi infuocati. La fonte diretta del Caronte dantesco è proprio l’altra grande opera in cui egli appare: il canto VI dell’Eneide. Dante trae ispirazione da Virgilio per quanto riguarda sia la descrizione fisica del traghettatore di anime, sia per l’intero schema narrativo e dialogico in cui è inserito. Il poeta fiorentino non fa di Caronte un ritratto a tutto tondo, ma dissemina i particolari fisionomici lungo l’intero svolgimento della scena, valorizzandone così l’aspetto drammatico. L’ingresso improvviso del traghettatore infernale è preparato dall’atmosfera di sospensione e di attesa in cui è immerso Dante al principio dell’episodio. Una volta entrato in scena, Caronte viene descritto dapprima in maniera sommaria, poi via via sempre più espressiva, culminante nella caratterizzazione degli occhi di bragia. La descrizione si intreccia con le parole pronunciate dal demone in tono di minaccia e di condanna, anche nei confronti di Dante, e con la sua azione repressiva verso i dannati.
Per ulteriori approfondimenti sull’incontro di Dante con Caronte vedi qui
Canto III dell’Inferno: entra in scena il demone Caronte
All’inizio del canto III Dante e Virgilio sono all’entrata dell’Inferno, nella quale spicca la scritta “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. Davanti al fiume Acheronte ecco arrivare il demone Caronte, che trasporta le anime dei dannati, la “perduta gente”.
’Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.
Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: "Maestro, il senso lor m’è duro".
Ed elli a me, come persona accorta:
"Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’ hanno perduto il ben de l’intelletto".
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?".
Ed elli a me: "Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli".
E io: "Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?".
Rispuose: "Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: "Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume".
Ed elli a me: "Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte".
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti".
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: "Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti".
E ’l duca lui: "Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare".
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
"Figliuol mio", disse 'l maestro cortese,
"quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona".
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
Per ulteriori approfondimenti sul canto III dell’Inferno vedi qui
Domande da interrogazione
- Chi è Caronte nella mitologia greca e quale ruolo svolge nell'Inferno di Dante?
- Quali sono le fonti letterarie che descrivono Caronte?
- Come viene introdotto Caronte nel Canto III dell'Inferno?
- Qual è la reazione delle anime dannate all'arrivo di Caronte?
- Qual è il significato della frase "Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate"?
Caronte è una figura mitologica greca, figlio dell'Erebo e della Notte, che traghetta le anime dei dannati sull'Acheronte. Nell'Inferno di Dante, appare come un demone che trasporta le anime dei dannati, caratterizzato da vecchiaia e occhi infuocati.
Le due opere liriche più significative che descrivono Caronte sono l'Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante. Dante si ispira a Virgilio per la descrizione fisica e il ruolo narrativo di Caronte.
Caronte viene introdotto nel Canto III dell'Inferno quando Dante e Virgilio arrivano all'entrata dell'Inferno, davanti al fiume Acheronte. Caronte appare come un vecchio demone che trasporta le anime dei dannati, minacciando e condannando anche Dante.
Le anime dannate cambiano colore e battono i denti quando sentono le parole di Caronte. Esse bestemmiano e piangono mentre si avvicinano alla riva malvagia, pronte a essere traghettate.
La frase "Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate" è scritta all'entrata dell'Inferno e indica che chi entra deve abbandonare ogni speranza di salvezza. Essa rappresenta la condanna eterna delle anime dannate.