Euripide, Baccanti - Analisi e commento
AUTORE: Euripide
TITOLO: Baccanti
DATAZIONE ED ALTRO: Scritta tra il 407 a.C. e il 406 a.C. alla corte di Macedonia, l’opera fu rappresentata postuma alle Grandi Dionisie del 403 a.C., quando ottenne la vittoria in una trilogia di cui faceva parte anche l’Ifigenia in Aulide e un’altra tragedia oggi perduta. È possibile una primaria rappresentazione in Macedonia un anno prima della messa in scena ateniese.
Trama
La tragedia si apre con un prologo recitato dallo stesso Dioniso, sotto forma di straniero, che non esita però a ripetere la propria natura divina, ripercorrendo le tracce del proprio cammino dalla Lidia alla Grecia, nel tentativo di diffondere i propri misteri.
Giunge poi un altro messaggero ad annunciare la morte di Penteo, a colmare il vuoto che la consueta ellissi ha lasciato. Penteo ha chiesto aiuto a Dioniso per issarsi sulla cima di un albero, così da poter vedere al meglio il rituale delle baccanti. Lo Straniero scompare, la sua voce riecheggia nella valle desolata e silenziosa a incitare le baccanti, per aizzarle contro Penteo. Le baccanti lo tempestano di dardi, poi divellono l’albero circondandolo; Penteo, caduto, viene smembrato dalla madre, nonostante le proprie suppliche, nonostante un pentimento tardivo. Descrizioni brutalità, pulp, dipingono ferocemente un rituale in tutta la sua crudezza. La cosa migliore è coltivare gli dei. A coronamento dell’accaduto, il Coro invita a danzare e a celebrare il dio. Entra Agave che porta sul tirso il macabro trofeo, la testa del figlio. Le baccanti credono che sia un cucciolo di leone, ma l’esaltazione per l’impresa, dettata dal furor dionisiaco, viene interrotta da Cadmo che entra portando i brandelli del figlio e che costringe la figlia a osservare il sole, la luce, che dissolve la nebbia nella mente della donna. Ora consapevole della realtà, Agave precipita nel dolore. Cadmo compiange la donna, la rovina e la punizione del dio. [Lacuna di cui non si conosce l’ampiezza nella quale si consuma il lamento di Agave e la prima parte del discorso conclusivo di Dioniso]. Dioniso predice il futuro: Cadmo e la sposa Armonia si trasformeranno in serpenti, mentre i due sposi andranno nei Campi Elisi. Cadmo e la sposa guideranno un esercito di barbari, mentre la figlia dovrà patire l’esilio. Dioniso ha trionfato imponendo l’iniziazione al proprio rito. Agave si maledice, e con se stessa il luogo del delitto, ma è consapevole che il culto sarà officiato da altre donne: è consapevole della vittoria di Dioniso.
PERSONAGGI
- Dioniso: al termine della vertiginosa stagione creativa del teatro greco, Euripide plasma una tragedia densa, misteriosa, primigenia, per così dire, mediterranea e sanguigna, sublimando nell’illusione tragica, così apertamente manifesta nell’opera, la trama di eventi misterici, quasi d’iniziazione. E proprio in questa riflessione sulla tragedia, in quest’ultimo manifesto di una cultura sapienziale ellenica che la stagione filosofica successiva adombrerà col suo razionalismo, il dio della tragedia, del ditirambo, del vino, della sapienza e dell’illusione, Dioniso si fa personaggio, emblema di una poliedricità che l’opera non manca di suggerire, ora confondendo, ora chiarendo in improvvisi sprazzi di lucida, quanto brutale, follia.
“Nelle Baccanti Dioniso è un adolescente, strettamente legato alle donne, occupato nel proprio rito di passaggio per provare la propria identità di figlio di Zeus, libero da responsabilità e in questo modo dissolve anche le frontiere generazionali e sessuali.” Già Nietzsche aveva visto in Dioniso uno dei poli da cui la produzione tragica greca ha avuto origine: un contrasto perpetuo con Apollo, simbolo della razionalità. Eppure la similitudine tra le due divinità sono così strette che un’opposizione troppo stringente risulterebbe falsa, artificiosa, semplicistica. “Apollo è il dio della sapienza, in modo esplicito e pacifico. […] Riguardo a Dioniso si è detto che la sapienza è la cifra del suo essere, che la tracotanza del conoscere è un’indicazione della sua natura: la sapienza è l’impossibilita realissima che sta dentro di lui, non è qualcosa che egli conceda ad altri, che trasferisca fuori di sé. Apollo invece dà la sapienza agli uomini, o meglio a un uomo, ma lui se ne sta in disparte, lui è il "dio che agisce da lontano"[…] E la sua sapienza non è quella che trasferisce fuori poiché lui possiede "l’occhiata che conosce ogni cosa", mentre la sapienza che concede è fatta di parole, è qualcosa perciò che riguarda gli uomini.” Ed è questo un punto essenziale in fatto di consistenza: Apollo ha la densità di un’ispirazione eterea, divina, leggera; Dioniso è invece un magma denso che s’impossessa del corpo, penetra gli anfratti della coscienza e lì si insinua, nella carne: non è mania esterna, ma possessione. Ed è qui che il duplice, la maschera, l’illusione emergono con prepotente evidenza: Dioniso, nella sua ambiguità sessuale, nella sua dualità, è cacciatore e preda, causa efficiente della profezia e nello stesso tempo causa materiale di essa. Non a caso anche nelle Baccanti i termini cacciatore e preda ricorrono se non frequentemente, con una certa costanza, in un continuo gioco di disumanizzazione, o meglio, di riscoperta di sé in tutta la propria interezza. Non è la lenta ascesa iniziatica di Edipo, la riscoperta di una luce oltre la cecità, quanto invece il liberarsi di una forza vitale, animalesca, che si inserisce in quella legge di sopravvivenza di cui il rapporto preda e cacciatore è paradigma insuperato ed insuperabile. Ed ecco che nuovamente morte e vita ritornano con costanza sbalorditiva nell’opera di Euripide. “[Dioniso] è cacciato e il cacciatore - la sfrenata potenza che l’uomo invidia alle bestie e cerca di assimilare. Il suo culto fu in origine un tentativo, da parte degli esseri umani, di raggiungere una comunione con questa potenza. L’effetto psicologico era quello di liberare l’istintiva forza vitale dell’uomo dalla schiavitù ad essa imposta dalla ragione e dalle consuetudini sociali: il fedele diventa cosciente di una nuova, estranea vitalità, che egli attribuisce alla presenza del dio in sé”. Proprio in questo ampliarsi della propria coscienza, in questo comprendere il dio in sé, le baccanti non diventano tracotanti, non si insuperbiscono perché il Dio è pur sempre in loro, ma anzi la loro coscienza si dilata in un processo quantitativo dai risvolti esuberanti e che come una scossa tellurica deve trovare sfogo nei riti che le donne invasate trattengono. Dioniso è quella forza animale, temuta e piena di fascino con cui Penteo si trova a combattere/accettare, in un processo di crescita senza redenzione, in cui tutti i peccati si scontano, fino alla morte. Ed è proprio questo un altro aspetto che in Dioniso sembra farsi manifesto: la divinità non è necessariamente buona, non necessariamente perdona, non c’è confessione possibile. Come il menadismo nero si affianca a quello bianco. “Il poeta non ha né sminuito la gioiosa esplosione di vitalità arrecata dall’esperienza dionisiaca, né attenuato l’orrore ferino del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli guida il suo pubblico attraverso l’intera gamma delle emozioni, dalla simpatia per il dio perseguitato, attraverso l’eccitazione dei prodigi della reggia e la macabra tragicommedia della scena del travestimento, a partecipare, alla fine, alla reazione di Cadmo contro quella giustizia inumana.” L’immagine di Dioniso dio del vino è profonda e superficiale allo stesso tempo: da un parte rende evidente una dualità, ebbrezza/ubriachezza che il vino accoglie in sé, dall’altra rischia di ridurre una religione mediterranea, un rapporto con la natura, una riscoperta di sé che è in fondo la traccia scheletrica delle Baccanti, un ampliamento di coscienza. Bromio è l’energia vitale, animale cui non si è disposti a rinunciare e che pure rischia di esplodere se inascoltato, di lasciare tramortiti, senza possibilità si scampo. È, insomma, il personaggio di Dioniso quello con una valenza non soltanto sociale, ma anche spiccatamente etica, addirittura antropologica. Basta osservare le forme in cui il dio si manifesta: Straniero- uomo, attore, divinità. La riduzione di Dioniso a uomo, straniero orientaleggiante, femmineo, quasi androgino, seducente e misterioso è esemplificazione di un’ambiguità che la giovane età spesso impone di fronteggiare, così come Penteo deve fare nel corso della tragedia. L’umanizzazione, sia chiaro, non coincide con un ribaltarsi degli eventi, delle posizioni: lo Straniero anche se in carcere è pur sempre superiore, Penteo, anche se re, è pur sempre inferiore, costretto dalla sua natura ad una posizione di subordinazione che egli inconsciamente accetta, ma che concretamente non palesa: l’intelligenza di Penteo è giovanile protervia contraddittoria. D’altra parte il dio Dioniso, quello dell’illusione, smaschera i nodi costruttivi del dramma e nel medesimo momento in cui rivela l’artificio, esaspera le condizioni fino ad una vertigine di estremizzazione che è la vera forza del tragico. Il Dioniso uomo non riduce la potenza del dramma, ma anzi la incrementa dell’attesa dell’epifania conclusiva, la condisce col gusto amaro di una conoscenza superiore, con l’apprensione palpitante di un personaggio dal destino già segnato. “La funzione sociale del mito può essere di mediare le polarizzazioni […], ma nella tragedia è piuttosto eliminare le mediazioni ed esporre il conflitto nella sua forma più assoluta.” Perché se la divinità sembra intoccabile, quando questa si fa essere umano, mortale immortale, allora l’illusione scaturisce di nuovo a creare uno spettacolo nello spettacolo, un’altra illusione, un’altra pantomima che decreta il tracollo iniziatico di Penteo. Dioniso è anche attore, ancora finzione su finzione, è un dio che si diverte, in bilico tra crudeltà e delirio, non privo certo di punti in comune col giovane Penteo. Se dunque Dioniso si dimostra personaggio tanto multiforme, tanto inclassificabile in un'unica prospettiva, è inevitabile che l’invasamento bacchico, e le manifestazioni dello stesso Dioniso fossero ambivalenti. Come sostiene Dodds, “la pàrodos delle Baccanti mostra l’isterismo domato e posto al servizio della religione; quello che invece si sviluppava sul Citerone era isterismo allo stato puro, il pericoloso bacchismo che scende come un castigo sulle persone oneste e rispettabili e le trascina contro la loro volontà. Dioniso è presente in entrambi i tipi di isterismo: come San Giovanni o San Vito, egli è causa della pazzia e libera dalla pazzia, Bàkchos e Lysios. Occorre tener presente quest’ambivalenza, per intendere bene la tragedia; resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura; il castigo sta nel crollo improvviso degli argini interni: le forze naturali li travolgono irresistibilmente e la civiltà è sommersa.” È tuttavia indispensabile notare come Dioniso sia simbolo, e anche pretesto, per trattare di una riflessione più generale sull’uomo: se Dioniso è il nocciolo di tale argomentazione, quest’ultima non si esaurisce necessariamente nel dio, ma anzi investe, senza tregua tutti i personaggi del dramma. “C’è nel corso delle Baccanti una oscillazione tra due poli, tra la messa in evidenza degli aspetti orgiastici del culto di Dioniso e un discorso più generale che coinvolge l’uomo in quanto tale e che solo indirettamente si può collegare coi riti dionisiaci”. Ed è proprio l’orgia, questo lato ferino, animale, pulsionale, ad attrarre Penteo, nonostante i riti orgiastici siano stati soltanto una montatura posteriore, o comunque un aspetto non così rilevante dei riti bacchici, cui meglio si confaceva l’orobasia o la scarnificazione rituale. “ In realtà non ci sono prove di una diffusa promiscuità sessuale nei culti dionisiaci. Gli atti sessuali nel culto di Dioniso erano verosimilmente più simbolici e mitici che reali, forse nient’altro che un continuo tentativo di incorporare le condizioni naturali della riproduzione umana in maniera rituale e visiva nel regno della religione di Dioniso, l’archetipo divino di una "vita inestinguibile".
D’altra parte tutto l’ambito della sessualità risaliva ad Afrodite, che pure era spesso associata all’idea di vino, e quindi a Dioniso. Nel sesso, molto probabilmente, i Greci trovavano una delle espressioni più compiute di un quanto mai problematico attaccamento alla vita: Afrodite e Dioniso come esplosione degli istinti, manifestazioni di una vitalità vibrante ed inestinguibile. Per concludere questa rassegna sulle qualità di Dioniso, è interessante un ultimo aspetto che di nuovo si riallaccia ad Apollo e alla mania profetica. “Dioniso "induce gli uomini alla follia" ed è lui stesso "folle", Apollo suscita la follia nel divinatore, ma lui è "lontano": in cambio, però la manìa in senso eminente è la mantica, e, in Platone almeno, il dio della manìa è Apollo. Ma la manìa sta in rapporto con la sapienza; è per cosi dire un segnale della sapienza, un suo annunzio. Diventando folle, la baccante riceve in se stessa Dioniso, la cifra della sapienza. E il divinatore riceve da Apollo la parola che non comprende e pronuncia "con bocca folle", ma che sarà interpretata come sapienza. La manìa è la sapienza vista dal di fuori, nel suo primo mostrarsi, nel primo apparire come visione, danza, contatto, suono percepito, non ancora ascoltato”. Ed è proprio nelle danze che le baccanti manifestano il loro invasamento, in questo panteismo mistico con una musica dal suono ritmato e fragoroso che subentra alle sostanze psicotrope per favorire la disgiunzione dell’uomo dalla propria razionalità. Dioniso è l’ultimo rifugio, problematico, è vero, l’ultima valvola di sfogo per delle tensioni che sarebbe altrimenti esplose nel quadrato logico e monotono della vita civile. Ed allora le donna, vittime di una società maschile, fuggono dai propri obblighi e disperdono la propria insoddisfazione sulle montagna, nella campagna, lontano dai dettami civile, eliminando dalla polis quelle forze nefaste che avrebbero potuto altrimenti comportare sovvertimento delle norme pubbliche. Insomma “Il Dioniso delle Baccanti, il dio folle, gioca su tutti i registri del "sapere", della "saggezza", della "riflessione". Domina i più abili sofisti nell’arte di raggirare con l’astuzia, di intrappolare l’avversario, di ingannarlo per meglio vincerlo. Accorda a coloro che lo seguono il privilegio di pensare sanamente, con buon senso e moderazione, contrariamente alle grandi menti cieche a ciò che le supera e che la loro vanità fuorvia al punto da far perdere loro la testa e far sì che sragionino. […] Se il dramma delle Baccanti rivela, attraverso l’epifania del dio, la dimensione tragica della vita umana, con il "purificare" quel terrore e quella pietà che provoca l’imitazione sulla scena delle azioni divine, fa anche brillare agli occhi di tutti gli spettatori il "ganos", il fulgore che Dioniso ha il privilegio di dispensare quaggiù e che, come un raggio venuto da altrove, trasfigura il monotono paesaggio dell’esistenza quotidiana.”
- Coro di Baccanti: il Coro ha qui una funzione pregnante e che anzi si dimostra fondamentale nel gioco del doppio, in un processo di confutazione o argomentazione che risponde a criteri ora razionalistici ora invece più istintuale; è quello delle baccanti un Coro tra i più densi dell’intera produzione tragica greca. Esponente della teologia bacchica, drammaticamente annichilito al termine dell’opera, la sua teodicea si articola in riflessioni che talora si allontanano anche dal puro bacchismo per approdare a tematiche di più ampio respiro. Dettagliatamente:
1. Proemio: summa teologica dell’intero rituale bacchico, il proemio si apre con la rievocazione della nascita di Dioniso, seguita dalla descrizione dei tre momenti del rituale estatico: oreibasìa ("corsa sfrenata sui monti"), sparagmòs ("sbranamento" della vittima rituale), omofagìa ("pasto" rituale).
2. Primo Stasimo: È qui esposto il catechismo delle baccanti: la saggezza sta nel riconoscere i limiti della saggezza; Il Coro non sfoga la sua indignazione rimproverando direttamente Pènteo, ma oggettiva questo suo risentimento, invocando la Hosìa a testimonio dell’empietà del re, quasi tema inconsciamente di contaminarsi, parlando col reo, di mettessi al suo livello disputando con lui. L’abisso, esistente fra la mentalità di Pènteo e quella delle Baccanti, diventa sempre più incolmabile" (S****so).
3. Secondo stasimo: Il Coro fa un ultimo appello a Tebe; riafferma la propria fede nel mistero di Dionìso Dithyrambos (strofe) e denuncia il persecutore (antistrofe); il canto culmina (epodo) in un solenne hymnos kletikòs ("canto di invocazione"), un invito del Coro al dio affinché lo salvi e un quadro della sua venuta come guida delle danze orgiastiche e principe della Gioia" (Dodds). Noto il potere magico e psicagogico della musica e del canto di Orfeo, che spesso e in vari modi appare collegato a Dionìso: "Orfeo e Dionìso tendono a convergere. Entrambi hanno a che fare con la musica, con l’immediatezza del sentimento e con l’abbattimento delle barriere fra sé e gli altri. Per entrambi il ritmo e le cadenze della musica costituiscono il mezzo per abbattere tali barriere” . D’altra parte Orfeo è anche divinità misterica.
4. Terzo stasimo: dopo l’esaltazione per la vittoria di Dioniso, espressa attraverso un paragone venatorio (la cerbiatta, cioè la menade, riesce a sfuggire cercando scampo nella natura incontaminata e preclusa all’uomo), il Coro prosegue sottolineando come gli empi saranno puniti inevitabilmente non conoscendo la legge di natura. Il finale ha come tema la felicità interiore dell’uomo che non consiste nel benessere dovuto alle ricchezze materiali, ma nell’esperienza quotidiana del divino. Questo epodo segue il modello del “makarismòs” (felice lui che…). Esso rappresenta “la consapevolezza che i desideri dell’uomo e il loro succedersi e le loro realizzazioni si susseguono in un ritmo che non lascia nessuno spazio a situazioni di spicco. Ciò che invece appare come desiderabile, e come segno di "felicità", è il riuscire a vivere, al di fuori degli affanni, giorno per giorno. Ma tutto questo è visto non come conseguimento acquietante, ma come prospettiva che può in ogni momento essere messa in discussione”.
5. Quarto stasimo: è un canto di vendetta, vagamente chiaroveggente che sposta nel futuro ciò che il Messaggero farà apparire come passato. Il Canto prosegue con un’invocazione a Dioniso affinché si mostri nella sua forma ferina e distruttrice. Nella generalizzazione da Penteo al contesto, il Coro trae come nei casi precedenti delle leggi morali di più ampio respiro.
6. Quinto stasimo: “la strofe, tutta giocata su derisione e sarcasmo, si divide in due parti distinte: la prima, dedicata a Pènteo, esprime gioia per la sventura del nemico e invita a esprimerla con danze e con canti; il richiamo alla ridicola ‘vestizione’ è esplicitamente derisorio. La seconda, che comincia apostrofando Agàve con il collettivo "Baccanti cadmee" …, è tutta all’insegna di un sarcasmo feroce, segnato dall’insistente ritorno dell’aggettivo "bello", applicato all’orrida vicenda; le Baccanti asiatiche sanno bene, e intendono ricordare alle Baccanti tebane, che ‘la loro vittoria è anche la loro punizione’, che il loro entusiasmo e le loro orge sul Citerone non hanno ingannato nessuno" (Vitali). È un canto in cui orrore e stupore si mescolano riassumendo se pure a grandi linee l’intera vicenda delle Baccanti.
Eppure questo tentato recupero dei valori primigeni da parte del Coro, questo continuo ribattere sulla sapienza che sta nel riconoscere i limiti, viene smentito e anzi contraddetto dal termine del dramma, che nella sua inesausta brutalità sembra travalicare anche i limiti della compassione. E così il messaggio del Coro rimane sospeso, senza sbocchi effettivi nei fatti, in un cortocircuito che esprime nuovamente tutta la profonda indecisione di un Euripide, filosofo e tragediografo, non ancora giunto a conoscenza che gli permettano di non rivalutare di nuovo e daccapo le pur effimere conquiste umane. Ormai la religione dionisiaca ha perso la propria importanza, e non resta che osservare il dramma straziante di una nuova presa di coscienza oltre la follia, la manìa. D’altra parte tutti i cori delle Baccanti sono pervase, per amore di contraddizione, e forse per irresolutezza, da un razionalismo che ha poco da spartire col furore bacchico.
- Tiresia: degno di attenzione è il famoso indovino, così presente nelle tragedie greche, così emblematico. Eppure, se generalmente egli rappresenta la capacità di prevedere il futuro, e per estensione la sacralità degli dei, nelle baccanti il suo ruolo è differente, almeno ad un primo sguardo. Tiresia è sì cieco, ma nello stesso tempo vede più lontano degli altri: non perché illuminato da Apollo, che lo ispira dall’esterno, ma perché consapevole dell’importanza di Dioniso, da cui si lascia guidare alla celebrazione dei riti del dio. È un Tiresia che rispetta sempre e comunque le divinità, eppure trova una forza dentro di sé che è anche ampliamento di coscienza: non è più accompagnato da un giovane, ma anzi egli stesso si fa guida. È interessante notare come mantenga sempre una certa capacità di persuasione che mal si adatta al furore bacchico e d’altra parte tutto il suo discorso è permeato da un razionalismo, ben più accentuato di quello del Coro, un razionalismo che occhieggia al sofismo e che nulla sembra dover spartire con il furore estatico dionisiaco. “ Egli si presenta di fronte a Penteo come sostenitore della nuova religione e, in sintonia con il Coro, afferma di voler seguire le tradizioni patrie: eppure proprio Tiresia volendo difendere il dio dall’attacco di Penteo dà una spiegazione del mito di Dioniso che è tutta pervasa da uno spiccato razionalismo. Non ci sono, in realtà, nella crisi di cui le Baccanti sono espressione, porti sicuri a cui approdare. Ciò che è autentico è il vagheggiamento di un punto di approdo, ma non il suo raggiungimento.” D’altra parte non è per nulla chiaro se la sua conversione al bacchismo sia dettato da una reale persuasione, o sia invece dettato dalla convenienza. In quest’ultimo caso Tiresia, rappresentante della religione apollinea, vorrebbe neutralizzare tramite la ragione i culti dionisiaci, anche se in questo caso non troverebbe giustificazione né la mancanza del giovane accompagnatore, né il motivo del travestimento sotto spoglie bacchiche. L’utile sarebbe qui soltanto di carattere dottrinale. Altri hanno voluto vedere in Tiresia del ringiovanimento operato dal culto di Dioniso, e farebbe apparire l’indovino come il consueto saggio che approfitta delle circostanze nel pieno rispetto delle divinità. Certo è che se all’inizio l’incontro con i due vecchi pare grottesco, i successivi sviluppi e battute paiono ben più seriose. È stato notato (Ieranò), poi, che la decisione dei due vecchi di onorare il dio non è frutto di libera scelta, ma una sorta di imposizione dovuta alla necessità che determina nei due vecchi "più automatismo che libertà" e mette in evidenza la loro passività; frequenti sono d’altra parte le espressioni di dovere e necessità che si alternano nel corso dell’incontro.
- Cadmo: eroe, re, uomo ormai anziano, Cadmo andrà incontro ad eventi diametralmente opposti: da una parte diverrà iniziato ai culti bacchici, dall’altra vedrà morire il proprio nipote per mano di sua figlia. Alcuni hanno visto in questo scarto la prova inconfutabile che la conversione di Cadmo fosse dettata soltanto dall’utilitarismo e non da una reale convinzione. Eppure lo sguardo impietoso che Euripide getta sulle divinità, su quest’ambivalente indagine sul mondo celeste, farebbe pensare ad una furia divina senza motivazione reale, spropositata, abnorme, insensibile all’uomo. D’altra parte Agave, che pure era fedele adepta, invasata, è vero, sarà crudelmente punita. Ma il dolore finale è autentico, sia per quanto è successo, sia per il futuro che si apre in tutta la sua problematicità: un mondo privo di dei, o meglio, troppo influenzato da essi, che impone senza comprendere. Euripide non concede scampo, reclama domande su domande, senza però fornire risposte, e Cadmo, prima deriso dal nipote, poi piangente per la sua morte, che è punizione per la tracotanza, si arrende necessariamente al destino, compiangendo sé e la sua stirpe. E sorge dunque spontanea la domanda del perché gli dei possano essere così crudeli, così ingiusti.
-Penteo: iniziato suo malgrado ai misteri, perdente nello scontro con l’età adulta, figlio ucciso dalla madre, re diseredato dal dio, ignorante della verità dionisiaca, Penteo intrattiene per tutto il corso dell’opera uno scontro serrato con Dioniso, tra simmetrie ed opposizioni, in un combattimento senza esclusione di colpi che decreterà la sua rovina, il fallimento della sua parabola misterica. La prima analogia tra i personaggi è palese sin già dalle loro origini: Penteo e Bromio condividono una figura paterna lontana; il padre del primo morto precocemente, il padre del secondo divinità generatrice eppure eternamente distante, asfissiato da una moglie ossessiva. A questa distanza dal padre corrisponde l’antitetica vicinanza della madre: Semele muore, Agave continua ad estendere il suo dominio, senza dimenticare che un rapporto familiare, per quanto sottile, sussiste tra i due, e l’uccisione di Penteo è il disgregarsi di tutta questa consanguineità, quanto mai invadente. “Sia Penteo che Dioniso hanno nel loro profondo una figura paterna lontana e sconosciuta. Piuttosto di evitare lo strappo della figura parentale, Penteo è riportato indietro nelle sue manifestazioni più da incubo, le immagini distruttive, sia del padre che della madre. Come Dioniso, Penteo sta ambiguamente tra la giovinezza e la virilità, tra l’eccitabilità e la poca affidabilità dell’adolescenza, e la solidità della vita adulta”. Eppure se Dioniso è chiamato ad affrontare un paragone impari col padre, Penteo è designato re di una città: questo ruolo, maschile e potente, esige una crescita troppo rapida perché l’adolescenza possa obbedire, impone un distacco brutale da un mondo che è ancora rifugio, e soprattutto offre una realtà inafferrabile nella sua totalità. Ed è a questa ambiguità, a questa indecisione che tanto stride con la società greca civile, della polis, egli tenta di nascondere, ma lo sguardo implacabile di Euripide scioglie anche le reticenze più stringenti: e così egli impone la maschera, il travestimento, riflesso della femminilità di Bromio. Al dualismo della maschera si sostituirà poi la molteplicità cruenta dello smembramento rituale che concretizzerà una polarità di sensazioni troppo tese, troppo pressate per poter resistere all’implosione interiore. Sia Penteo che Dioniso, insomma, cercano un modo per affermare la propria presenza nel mondo: eppure se Dioniso dimostra l’alterità divina, Penteo, nella sua cruda umanità, rimane vittima della sua stessa tentata parabola ascendente, ucciso (e ciò è fondamentale) dalla madre. È qui chiara un'antitesi tanto profonda quando significativa: la Grande Madre, nei culti mediterranei, ha sempre costituito un preludio a Dioniso, o comunque è sempre stata dispensatrice di vita, di gaiezza, così almeno i riti gioiosi e misterici che la celebravano sembrano testimoniare. Eppure qui la Madre uccide il figlio, lo smembra e lo mostra vittoriosa conficcata sul suo stesso simbolo sacro. “Dioniso, come figlio di Zeus e del suo "ventre maschile" è in qualche modo eliminato dal ciclo completo della nascita, mentre Penteo è distrutto dalla totale immanenza del suo legame con la madre. Euripide sembra suggerire che la nostra umanità è, nel bene e nel male, legata ad accettare (a differenza di Dioniso, dio crudele) le origini sessuali della nostra vita e i conflitti che esse comportano.” Il termine della tragedia è soltanto esemplificazione di un equilibrio che l’uomo non può raggiungere, soggiogato dai legami familiari, da una casa (la reggia di Penteo) in fiamme, distrutta dalla potenza di un furore bacchico la cui riscoperta, per il giovane, malamente arginata, ha portato alla distruzione. Insomma “la punizione della hybris di Penteo sfocia, alla fine della tragedia, in una situazione dove l’accento batte non sulla esaltazione del dio che l’ha punita, ma sull’infelicità di chi, come Cadmo e Agave, è più direttamente vicino, per legami affettivi, a Penteo. Dioniso vince. Il dio appare alla fine della tragedia come ben in grado di farsi rispettare. Ma la dimostrazione della sua forza si rivela in un isolamento che ha qualcosa di allucinante, e la tragedia si chiude con Agave che proclama di non voler avere più nulla a che fare con la religione dionisiaca. “ Questo magma denso di costatazione è evidente in vari punti del dramma: già nel dialogo con lo Straniero, Penteo si sofferma minuziosamente sull’aspetto dell’uomo, con particolari estranei alla presentazione dei personaggi della tragedia greca. Lo sguardo di Penteo è però quello del turbamento interiore, della repulsione e del desiderio: la testa dello straniero, che egli avrebbe voluto tagliare, lo affascina ipnotizzandolo nell’osservazione dei riccioli, galvanizzandolo in una passione vagamente omoerotica che lo affascina e lo annienta. Ambiguo anche "Il suo atteggiamento nei confronti dei Baccanali femminili [che] non è semplice repulsione: come Ippolito, egli è il cupo puritano la cui passione è un misto di orrore e di inconscio desiderio, ed è questo che lo porta alla rovina" (Dodds). Tralasciando poi la scena del travestimento, che pure riecheggia di tutto un gusto tipicamente teatrale e greco, adombrando l’attenzione maniacale, l’ironia, e la profondità dello sguardo di Euripide, si approda alla scena dello smembramento rituale. Qui Penteo sembra quasi convertirsi al culto bacchico, ma non è una resa ex abrupto dettata dalla convenienza del momento, quanto invece la piena maturazione di un’idea profonda che trova la propria compiutezza soltanto nell’ultimo respiro. Ma la redenzione (o meglio, la decisione) è troppo tardiva, Dioniso, crudele, non perdona, il tempo che scorre non lascia spazio al ripensamento, e il giovane firma la sua condanna. Non si deve poi dimenticare che Penteo si maschera, e va incontro al suo destino, soltanto perché invasato da una leggera follia da Dioniso: proprio lo sbilanciamento interiore, lo squilibrio tra razionalità ed irrazionalità (che ovviamente agiscono su un qualcosa di già esistente) consumano la tragedia: le forze in gioco sono le pulsioni interiori, la tensione insostenibile di una crescita mutila. “Nella follia di Penteo il poeta ci mostra il soprannaturale che attacca la personalità della vittima nel suo punto più debole, operando sulla natura e attraverso la natura, e non contro di essa. Il dio vince perché ha un alleato nel campo nemico: il persecutore è tradito da quel che egli vorrebbe perseguitare, l’aspirazione dionisiaca che è in lui stesso.”
- Servo: comparsa fugace, annuncia la cattura dello Straniero - Dioniso, introducendo però quel clima surreale, anzi, miracoloso, che tutta la figura dello Straniero emana. Ha inoltre la dote di conferire alle parole la forza dei dettagli: così descrive il riso compiaciuto dell’uomo, macabro sorriso, ed inquietante caratteristica. “Al resto pensaci tu”, esclama, a discolparsi già in anticipo di una punizione che aleggia pesantemente nell’aria e che ben presto reclamerà la propria vendetta.
- Messaggero I e Messaggero II: come di consueto, i messaggeri hanno la funzione di colmare il vuoto che le ellissi narrative hanno creato: ma se il primo smentisce ciò che Penteo nella sua ignoranza crede, il secondo descrive le drammatiche conseguenze di questa tracotante protervia. Le parole dei messaggeri sono nelle Baccanti estremamente pregnanti e aprono uno squarcio su come i riti dionisiaci dovessero svolgersi al di là dell’opinione comune (si veda la Trama per alcuni elementi precipui). Il messaggero ha inoltre un’altra importante funzione: è, infatti, utile “per lo sviluppo psicologico della tragedia, dal momento che il suo effetto è quello di rivolgere l’ira di Pènteo dal dio e dai suoi sacerdoti contro i suoi stessi sudditi. Esso descrive, inoltre, per il pubblico ciò che non poteva essere mostrato sulla scena, lo strano effetto della follia dionisiaca sulle donne tebane, come appariva in tutta la sua bellezza e il suo orrore ad un osservatore dall’animo semplice. Bisognerebbe ricordare che ciò che qui si descrive non è il menadismo organizzato e controllato del culto dionisiaco, quale è tratteggiato per esempio nella pàrodos, ma un ‘menadismo nero’, che è stato inviato come una punizione su persone rispettabili e le ha trascinate via, contro il loro volere. Eppure anche queste menadi ‘nere’ non fanno alcun male a uomo o bestia finché non sono provocate".
-Agave: la tradizione manoscritta ha purtroppo cancellato l’ultimo discorso di Agave dopo che la donna ha scoperto di aver ucciso il proprio figlio. Proprio questo tema della maternità negata, della madre che uccide il figlio, così ricorrente nella produzione del tragediografo. Agave, invasata, folle, ha ucciso il figlio nell’ombra: la luce del sole che dirada le tenebre della sua anima, e che sembra riallacciarsi a quei rituali di recupero dalla trance. Viene a poco a poco ricondotta alla memoria di sé, partendo da eventi lontani (le nozze, il parto) e centrali nell’esperienza emotiva di una donna greca: da virago cacciatrice, è ricondotta ad essere sposa e madre" (Guidorizzi). È comunque evidente il tentativo di espandere il respiro dell’opera, abbracciando il dramma di una madre e quella di un nonno.
STILE, ILLUSIONE E METATEATRO
La lingua euripidea si presenta meno originale di quella eschilea e molto più prevedibile della carica drammatica che Sofocle infonde alle sue continue variazioni. È uno stile più piano, garbato, ritmato dalle subordinate oppure agglutinato nelle accumulazioni paratattiche degli interventi corali. Certo è che la filosofia coeva nascente influenzò non poco Euripide, che dimostra di subire l’opposizione tipica delle antinomie filosofiche. “Nelle parti recitate si avverte una forte tendenza sia all’uso di termini astratti sia all’introduzione nel lessico tragico di parole e nessi tipici della lingua parlata seppure talora impreziositi attraverso variazioni o accostamenti inediti.” L’importanza che il capovolgimento ha in Euripide è d’altra parte ampiamente testimoniato nella sua progressione logica. “Il suo metodo prediletto è assumere un punto di vista unilaterale: prendere una nobile affermazione, che è solo una mezza-verità, per mostrarne la nobiltà, e poi mettere in evidenza il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci perché essa è dopo tutto solo una parte della verità.” È stato anche notato come, nello specifico, le Baccanti abbiano una certa ambiguità di registro, tanto che spesso sconfinano nella farsa e nel comico. Basti pensare alle scene di Tiresia e di Cadmo, o al travestimento di Penteo. “La tragedia, anche in questo caso, fluttua ambiguamente fra eroe/mostro e non siamo mai completamente sicuri su chi sia il più mostruoso dei due.” Basti pensare al gioco dei ribaltamenti: il mostro grottesco ucciso trionfalmente è il re, mentre l’eroe vittorioso è il più crudele dei due, Dioniso, che pure manca di umanità. D’altra parte una tragedia così ambigua, così allusiva ed illusiva, non può certo tacere, nella propria stessa struttura, una forte carica metateatrale, nel senso che la stessa messa in scena di Dioniso, il dio patrono, quasi, della tragedia, e dell’illusione, svela gli artifici che il tragediografo crea per impressionare il pubblico. Il teatro greco è un teatro dalle forti connotazioni sacrali, nel quale lo spettatore osserva lo spettacolo, ma nello stesso tempo è fuori dalla scena, è osceno nel senso etimologico del termine. “Nelle Baccanti Euripide usa la figura di Dioniso come un dio della maschera tragica per riflettere sulla paradossale natura della tragedia stessa, paradossale perché, creando un’illusione la tragedia cerca di comunicare la verità; i paradossi di Dioniso sono quindi i paradossi della tragedia. […] Nel teatro tragico il partecipante "sta fuori" di se stesso, cioè lascia temporaneamente i limiti della sua identità personale. L’identificazione dell’uditorio con il personaggio mitico è una cosa diversa dalla fusione delle Baccanti con il loro dio della danza e della montagna.” La tragedia è dunque un qualcosa di paradossale, così come un nucleo bacchico all’interno dello spazio civile della polis: la tragedia, nella sua aspirazione alla verità, concretizza l’utopia di due realtà opposte che coabitano nello stesso ambito. Se infatti lo sguardo umano è troppo ristretto per contemplare le molteplici manifestazioni, allora il tragediografo deve dare luce, spazio a questa poliedricità non riducendola ad un’unica prospettiva, quanto invece esasperando i conflitti in una vertigine che non lascia spazio alla riflessione, e soprattutto sfruttando la posizione defilata dello spettatore che, purificandosi dalle passioni, pure non è travolto dagli eventi: contempla, per così dire, dall’alto, ciò che accade senza esserne coinvolto direttamente; proprio quando uno spettatore, Penteo, diviene protagonista nasce l’orrore, il travestimento e la scarnificazione. Il pubblico oscilla nelle Baccanti e in questo risiede uno dei punti di forza di un dramma che affascina e atterrisce contemporaneamente. La tragedia, specchio della realtà, permette di contemplare senza partecipare. Paradossalmente proprio esagerando le contrapposizioni, si mette in salvo la polis da qualcosa di potenzialmente eversivo. “Il potere magico di Dioniso di eludere le catene di Penteo e di emergere dalla profonda oscurità alla "luce" contiene il nucleo di tutta la rappresentazione.” Dunque, se le Baccanti sono una tragedia metatragica, allora il tragediografo è in un certo senso anche folle. Folle perché congiunge in sé l’ipnotismo di Dioniso e l’aspirazione analitica di analisi sociale, riunisce la verità all’illusione; e poiché l’illusione (il travestimento di Penteo) è pur sempre una forma di dissociazione (Penteo dimentico di sé), tale finzione è necessariamente pazzia (quella di Penteo). Eppure lo spazio della rappresentazione teatrale è pur sempre limitato, conciso, non dilatabile nella dimensione dell’eternità. Così Penteo, prima della definitiva scarnificazione, getta la mitra e torna alla realtà, invischiato, in un ultimo, allucinato ed allucinante attimo di vita, nel pieno di un rituale bacchico che non gli lascia scampo. “Questo ritorno alla realtà lo ritroverà al centro dello spettacolo-rituale dove la sua identità è oramai totalmente dissolta figurativamente nella fusione del re - uomo con la vittima bestiale e letterariamente nel dilaniamento e nella dispersione del suo corpo. La tragedia ci riporta alla realtà, alla fine, col rientro nella realtà da parte di Agave.”
ANALISI E TEMATICHE
La critica ha più volte tentato di dare una spiegazione del dramma, o comunque di scoprirne il nucleo tematico predominante; e altrettanto spesso i tentati di incasellare fatti e personaggi si sono infranti contro gli scogli insuperabili del testo, hanno sacrificato ora un aspetto, ora ne hanno ridotto l’importanza, ora hanno addirittura addolcito gli spigoli che Euripide pone e che sono forse il motivo del fascino di questa tragedia/prisma. È una tragedia che richiede un’esplorazione per così dire orizzontale e verticale: eppure non sono due piani perpendicolari, ma s’incontrano con angolature ardite fino a confluire nello straordinario personaggio di Dioniso, che in primo luogo è maschera, ovvero specchio in cui riflettersi. Una maschera ora grottesca, ora invece crudele, un’illusione che ora ingigantisce ora invece sbriciola il proprio rapporto con l’altro. In altre parole Dioniso è l’inconscio con cui l’uomo è chiamato a relazionarsi, multiforme (uomo/dio), irrefrenabile, crudele o delizioso, compiacente, sensuale e dissimulatore. Così Penteo nel suo continuo rapportarsi con Dioniso vive un rapporto ambivalente: da fiero oppositore si trasforma in un suo adepto e, sia ben chiaro, Dioniso non lo plagia totalmente, ma prende il controllo di un qualcosa che richiedeva soltanto un impulso per divampare in tutta la sua passiva distruttività. E cambia, anzi, si ribalta, anche lo sguardo dello spettatore il quale, se dapprima legittima il comportamento di Dioniso (Dio rinnegato) avversando Penteo (prototipo dell’oscurantista), inseguito compiange la sorte del giovane e s’infuria contro la divinità che non ha dimostrato la propria clemenza e non ha concesso redenzione. Totalmente distante è la concezione cristiana, che pure il Dioniso incatenato, trascinato di fronte al detentore del potere, ricorda. Esplorando dunque orizzontalmente l’opera è innegabile come Euripide, pensatore e tragediografo, uomo e poeta, dissemini la propria tragedia di trame antropologiche, che gettano uno sguardo profondo su un periodo, quello della crescita, che Penteo incarna in tutta la sua poliedrica contraddittorietà: “egli mostra insieme il problema dell’adolescente di definire la propria identità contro i modelli sia maschile che femminile e la condizione marginale dell’adolescente tra la responsabilità civile e la selvatichezza simboleggiata dalla foresta e dalla montagna. Euripide tocca dunque le difficoltà della famiglia e della società a riconoscere e trasmettere le iniziative sessuali dei giovani che maturano e le interferenze con la religione e la dicotomia cultura-selvatichezza (città-campagna).” E questa difficoltà, questa sfida contro se stessi e contro il tempo, si catalizza sulla sessualità. Sessualità vissuta in modo ambiguo, oscillante tra curiosità per la fisicità, per le orge delle baccanti, orrore per la loro sfrontatezza, impulsi omoerotici, il tutto continuamente sollecitato dal fuoco del mistero, del non visibile. E quando questo invisibile si capovolgerà nel suo opposto, la tensione si scioglierà improvvisamente in un attimo di lucida comprensione, atroce proprio perché consapevole dell’imminenza della morte. E come non notare la grande importanza che hanno in tutte le tragedie di Euripide le donne. Eroine sono i suoi più famosi personaggi, eppure Penteo è trafitto da un’ambiguità di giudizio nei loro confronti: da una parte rappresentano la campagna, la selvatichezza, il disgregarsi dei legami civili, della sicurezza della polis, dall’altra invece attraggono con le loro movenze sinuose e rispondono, amplificandole, alle istanze segrete dell’animo umano, all’irrazionale che tenta di emergere. E alla fine Penteo cederà al proprio femminile, si travestirà, sconfitto dalla forza della maternità che egli non è riuscito a soverchiare. Penteo entra in contatto col suo doppio bestiale, amplifica se stesso. Ma proprio nel momento in cui entra in contatto con questo doppio bestiale, l’energia che si sprigiona diventa insostenibile e lo costringe alla resa, anzi, lo smembra, così come la riscoperta della propria selvatichezza non risparmia nessuno, uomini, donne, vecchi, giovani, bambini e animali: tutti sono annientati dalla furia delle baccanti. Ed è qui che il razionalismo di Euripide inizia a sfumare nel pessimismo; e se è vero che Socrate, suo amico allora sedicenne, esprime una visione ottimistica della realtà fondata sul raziocinio, la coerenza infaticabile di Euripide e la sua più lunga vita disgregano questa certezza granitica in un continuo questionare se stessi il cui esito è inevitabilmente una verità di per se stessa aporetica, ma non per questo meno pessimistica. Le divinità sono distanti, l’uomo è catapultato in una dimensione in cui l’unica contemplazione possibile è quella della sua irrimediabile solitudine, angosciata da uno scontro senza esclusione di colpi con se stessi. Ed è qui che l’interpretazione richiede di osare, svincolandosi dal testo, o meglio cercandone la trasversalità. Alcuni hanno individuato in quest’opera la ritrattazione tardiva di un ateo irredento, o ancora, in chiave diametralmente opposta, l’ultimo grido disperato di un ateo che s’infiamma contro la crudeltà della realtà, contro una forza superiore che è cieca nel senso che è imprevedibile e priva di qualsiasi connotazione divina o antropomorfica. Impossibile poi non citare l’interpretazione estremista di Nietzsche secondo cui “[Euripide] si è opposto per tutta una lunga vita a Dioniso, al fine di chiudere la sua carriera (…) con una glorificazione del suo avversario e il proprio suicidio. […] Quella tragedia [Baccanti] è una sconfessione della possibilità di realizzare la sua tendenza, ma ahimé!, essa era già stata realizzata. Il miracolo era accaduto: quando il poeta ritrattò, la sua tendenza aveva già vinto. Dioniso era già stato cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demoniaca che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in un certo senso solo una maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate”.
L’interpretazione di Nietzsche è ovviamente funzionale al sostengo di tutto quello che è il suo sistema filosofico, e certamente nell’attribuire una così larga influenza a Socrate tradisce il compito del filologo. Pur tuttavia Nietzsche coglie il senso della tragedia, ovvero il suo ambiguo oscillare tra razionale ed irrazionale, tra istanze opposte dell’animo umano. L’interpretazione che appare oggi più equilibrata è certamente quella di Doods secondo cui Dioniso, rappresentate dell’inconscio, sarebbe di per sé “al di là del Bene e del Male”. Dodds, attraverso un’argomentazione serrata, scardina sia le basi interpretative sia di coloro che vedevano nell’opera una ritrattazione, una palinodia, di quelli che pur “sottolineando correttamente che Cadmo e Tiresia sono mediocri campioni dell’ortodossia e che Dioniso si comporta con spietata crudeltà non solo contro i suoi oppositori, Penteo e Agave, ma anche con il suo sostenitore Cadmo” ridussero la tragedia a una morale del genere “tantum religio potuit suadere malorum”, interpretando i canti corali come esempi di fanatismo religioso. L’ipotesi della palinodia è inficiata dall’immagine crudele che traspare del dio, quella di Dioniso “demone e finzioni”, o della superstizione religiosa è inaccettabile osservando il personaggio di Penteo che non è martire dell’Illuminismo, ma un tiranno dispotico, anche sciocco, infantile, con tendenze voyeuristiche, che alla fine ritratta la propria religione a favore del Dio. Non è possibile stabilire da quale parte stia Euripide, il cui scopo non è giudicare, ma ampliare la sensibilità umana, introducendo una contrapposizione che è strutturale, oltre che interpretativa: quella tra sophòn (conoscenza) e sophìa (saggezza). Penteo, esponente di una conoscenza materiale, pragmatica, si illude di conoscere cosa sia giusto, ma proprio il sophòn e la violenza lo condurranno alla rovina. Dioniso invece, con la sua imperturbabile, soprannaturale tranquillità, conosce l’ordine del mondo, la sua è sophìa. E sophìa è quella dell’animo, cui l’esigenza di un’esperienza dionisiaca è tanto chiara quanto la ragione spesso la contrasta. Proprio in ciò risiede l’ambivalenza della figura di Dioniso: esperienza potenzialmente benefica, ma altrettanto potenzialmente distruttiva. Alla fine della tragedia Cadmo condanna aspramente il dionisiaco, ma è una condanna tanto futile quanto insensata: condannando Dioniso egli condanna la natura stessa dell’essere umano. È una tragedia che non approda a punti fermi, ma che anzi rifugge da qualsiasi lido, esprimendo quella sublime indecisione del cuore che è l’incertezza della soluzione: così le Baccanti non hanno nessun’altra morale se non quella di rendere l’uomo consapevole della propria duplice natura. È un’opera del cuore, non della mente, forse troppo distante dall’ambiente intellettualistico di Atene per costituire una denuncia al sistema civile ateniese. “La "dimensione emotiva aggiunta" insorge non da una conversione intellettuale, ma dall’opera del cuore: da una visione introspettiva di immagini a lungo rimaste prigioniere nella mente”.
Se si volesse attribuire per lo meno un tono alla tragedia, esso non potrebbe essere altro che pessimistico: alla fine l’uomo perde, “l’amore della ricerca è sentito come inadeguato”, e l’immagine del divino, che è in realtà energia cosmica, necessità non meglio identificata, muove da un razionalismo che è costretto ad incrociare i ferri contro la propria antitesi. Si noti poi che al termine della tragedia l’equilibrio non viene ricostituito: la liberazione da Dioniso è soltanto apparente poiché le predizioni del Dio riecheggiano a coprire un arco di tempo che è in fondo irruzione dell’indefinito nel finito della morte. Proprio questo scontro genera nuovo orrore. Ultimo aspetto rilevante è quello della follia: non l’estatico rapimento bacchico già affrontato, quanto la follia di Penteo nel travestimento nel suo significato di più ampio respiro.
La follia rappresenta l’uscire fuori da se stessi, il dimenticare anzi la propria individualità, l’antitesi perfetta della conoscenza che è invece il conoscere scientemente se stessi. Solo la follia può liberare l’animo dai dettami imposti dal razionalismo, solo la follia può aggirarsi indisturbata concedere il proprio soffio divino e distruttivo sull’uomo. In fondo il significato delle Baccanti è il mistero: la prova di piena maturità di un uomo che ha affrontato l’irrazionale, sotto gli ordini della passione e non dell’intelletto.
Appendice 1: la morte di Penteo
La descrizione dell’uccisione di Penteo, così particolareggiata, così scientemente brutale e “compiaciutamente” macabra, ha nascosto, per alcuni, simboli misterici, o più propriamente del sogno, che illuminerebbero ulteriormente la vicenda di Penteo. “La lapidazione era il supplizio riservato al pharmakòs, il "capro espiatorio", che era cacciato dalla città con una sassaiola, per purificare la collettività; era una morte infamante che lo stesso Penteo avrebbe voluto riservare allo Straniero”. Così Penteo, che è salito sull’albero per sfuggire, diventa estraneo ai suoi stessi sudditi, minacciato con pietra da baccanti scatenate che circondano il suo albero. Lo sradicamento dell’albero faceva parte di un rituale cretese: "incisioni di Cnosso raffigurano sacerdotesse danzanti (probabilmente una danza estatica) che fanno l’atto di sradicare un albero. Nell’uccisione rituale si congiungerebbero il significato fallico dell’albero (lo sradicamento sarebbe il simbolo della castrazione) e la sua natura materna (l’albero porta e avvolge Pènteo).
Appendice 2: Baccanti o la commedia degli orrori.
Come già precedentemente osservato spesso le Baccanti rasentano in più punti la commedia, ma è sempre una farsa orrenda, terribile nel senso che suscita terrore nel lettore. A tal proposito “Entrambi gli antagonisti sono ora [al momento del travestimento di Penteo] trasformati in qualcosa di diverso dall’umano. […] [Penteo]è un essere che ride scioccamente, più debole di un bambino, più sgradevole di un deficiente, un essere tuttavia pieno del senso dionisiaco della forza e in grado di percepire il dio nella sua vera forma, perché il dio è entrato nella sua vittima. La scena fra questi due è quanto di più orribile vi sia in letteratura e il suo orrore è accresciuto da un bizzarro e terrificante humour. […] Una tale situazione poteva essere sfruttata facilmente come pura farsa. Ma qui l’effetto del farsesco è di accrescere l’orrore che emana da versi come il 922 e il 934. Come disse Hermann, gli spettatori non raffinati vogliono ridere e sono portati a ridere; ma per lo spettatore sensibile il divertimento si trasforma in pietà e orrore". Questa ambiguità si riflette anche in Dioniso: divinità dispensatrice di salvezza, ma anche crudele, irremovibile dalla propria brutalità. Questo compiacimento nel macabro sembra quasi suggerire una visione definitivamente disincantata della realtà, amara, senza possibilità di riscatto, dai toni pessimistici e ancor più accentuata dal drammatico epilogo, cui il comico fa da contraltare in una parabola grottesca di antitesi e amplificazioni.