Le Baccanti di Euripide è un’opera composta durante il volontario esilio del poeta in terra macedone e rappresentata postuma; è l’unica fra le tragedie greche a noi pervenute ad avere come protagonista Dioniso.
Il rapporto di Dioniso con la rappresentazione tragica è storicamente attestata dal fatto che le rappresentazioni avvenivano in occasione delle Grandi e delle Piccole Dionisie e delle Lenee. Oltre alle tragedie veniva rappresentato anche il dramma satiresco, che prende il nome dal coro dei Satiri, che, assieme ai Sileni, costituiscono il corteggio del dio.
Per lungo tempo si è ritenuto che il culto di Dioniso non fosse originario della Grecia, e il suo luogo di provenienza è stato identificato ora con la Frigia, ora con la Lidia, ora infine con la Tracia. La scoperta tuttavia delle tavolette micenee in lineare B con il nome del dio ha posto fine alla questione. Tuttavia si può ritenere che Dioniso abbia avuto in Grecia un ruolo trascurabile e solo dopo la sua vasta diffusione nell’aera orientale sia stato riaccolto nella terra d’origine, non senza resistenza a causa del carattere orgiastico dei suoi rituali.
L’origine mitica di Dioniso risale alla città di Tebe e alla stirpe dei Labdacidi; Semele, figlia dei sovrani Cadmo e Armonia, fu amata da Zeus e a lui generò Dioniso. Era, accecata dalla gelosia, persuase Semele a chiedere a Zeus di mostrarsi a lei in tutta la sua maestà divina; il dio, che aveva fatto promessa a Semele di esaudire un suo desiderio, non poté negarglielo e dovette presentarsi a lei rivestito del potere del suo fulmine, da cui rimase folgorata. Semele portava nel suo grembo Dioniso: Zeus estrasse il nascituro da esso e lo cucì all’interno della sua coscia.
Si narra che, alla nascita, Zeus lo fece condurre da Ermes a Niso affinché là fosse allevato dalle Ninfe. Secondo un’altra versione egli fu allevato da Ino, sorella di Semele, sposata a Atamante. Era però lo scovò e per vendicarsi fece impazzire i sovrani che uccisero i propri figli.
Si narra che, durante le peregrinazioni di Dioniso, Licurgo, re di Tracia, lo cacciò dal suo regno. Dioniso si vendicò facendo impazzire il re, il quale, credendo di avere di fronte a sé un vitigno, uccise il figlio Driante. Ad Argo le figlie di Preto, re di Tirinto, si rifiutarono di unirsi alle menadi e di onorare Dioniso; divenute folli, si ritirarono sui monti credendo di essere delle mucche e divorarono i propri figli lattanti. Orfeo, dopo la discesa nell’Oltretomba, si allontanò dal culto di Dioniso e per questo le mandi lo uccisero gettandone in mare le membra.
Secondo una versione, Zeus generò Dioniso dopo aver preso forma di serpente, da Persefone; gli inni orfici ci dicono che il dio nato da Zeus e Persefone era destinato a succedere a Zeus; i titani però fecero a pezzi il bambino e li arrostirono, il fumo attirò poi Zeus che ricompose il figlio e gettò i titani nel tartaro. In questa storia lo sparagmòs, che in altri racconti costituisce la terribile punizione dei nemici del dio, sia subito dal dio stesso.
Nei racconti di Dioniso hanno una parte significativa le Menadi o Baccanti, un corteo di donne fedeli al dio raffigurate in lunghe vesti, con le teste rovesciate all’indietro, incoronate di edera e recanti in mano il tirso, un bastone avvolto di edera e con alla sommità una pigna. Vivevano in luoghi solitari (monte Citerone) e durante i riti dionisiaci si abbandonavano all’enthousiasmos (divino invasamento) per mezzo di danze selvagge, accompagnate da flauti, timpani e tamburelli.
Esistono numerose testimonianze di pratiche religiose in altre popolazioni simili ai riti bacchici; tre le caratteristiche comuni si rilevano le danze orgiastiche con l’atteggiamento del capo reclinato all’indietro, il maneggiare serpenti e lo sparagmos e l’omofagia, ovvero il dilaniare le membra di un animale sacrificate e mangiarne crude le carni. Le Baccanti di Euripide sono dunque la rappresentazione di un mito antichissimo, che risale a un’età antecedente a quella della materia eroica di cui è costituito gran parte del repertorio delle tragedie attiche, ma nello stesso tempo, di un fenomeno attuale.
Le Baccanti sono strutturate in prologo, parodo, 5 episodi, 5 stasimi e l’esodo.
Il prologo è recitato da Dioniso in persona che si presenta subito come figlio di Zeus e di Semele e indica agli spettatori gli elementi essenziali della scena: la reggia di Tebe, la tomba di Semele e le rovine della sua casa, distrutta dal fulmine di Zeus ed ora resa recinto sacro da Cadmo e ricoperta da Dioniso di tralci di vite. Dopo varie peripezie, il dio è giunto a Tebe per istituire qui i suoi riti; ma le sorelle di Semele hanno affermato che questa avrebbe generato Dioniso da un uomo qualsiasi, e che poi avrebbe sostenuto di essere stata amata da Zeus e che per questo il dio l’avrebbe folgorata. Per punirle, Dioniso le ha fatto impazzire e diventare Menadi. Il prologo procede informando gli spettatori che il nuovo re, Penteo, figlio di una delle sorelle di Semele, Agave, nega il suo culto; per questo Dioniso lo punirà. Il prologo si conclude con l’invito di Dioniso alle Baccanti, affinché lascino il monte Tmolo in Lidia e vengano a Tebe per far sentire lo strepito dei loro timpani a tutti i Tebani.
Mito nel prologo: Dirce accolse nella sua casa Antiope, una giovane donna sedotta da Zeus, trattandola però come una prigioniera; quando la ragazza mise al mondo due bimbi, Anfione e Zeto, Dirce ordinò di portarli sul monte Citerone e di abbandonarli. Allevati da un pastore i ragazzi si vendicarono di Dirce legandola a un toro infuriato, ma Dioniso ebbe pietà di lei e la trasformò in una sorgente. Anfione fu poi padre del fiume Ismeno, e Zeto sposò Tebe.
Nella parodo il coro (costituito dalle menadi) esprime la sua gioia di celebrare il dio e rievoca aspetti e momenti dei riti bacchici. La parodo si compone di un prooimion (preludio). Nel preludio le menadi rispondono al richiamo di Dioniso: la prima strofa inizia con un makarismos: beato chi conosce i misteri divini e può celebrare sia la grande madre Cibele che Dioniso; prosegue con un incitamento alle Baccanti affinché riportino Dioniso in Grecia. Nella prima antistrofe viene ripercorsa la doppia nascita di Dioniso. La seconda strofa è un incitamento a Tebe a celebrare i riti bacchici sul Citerone, dove le donne tebane già attendono, spinte dall’invasamento del dio. Vengono rievocati altri simboli del culto dionisiaco: l’edera, la quercia e il pino, la pelle di cerbiatto, il tirso. Nella seconda antistrofe si evocano gli strumenti musicali dionisiaci, il tamburello e l’aulo frigio, il primo inventato dai Coribanti per coprire i vagiti di Zeus bambino nascosto dalla madre Rea dal padre Crono, e il secondo donato da Rea ai Satiri. Nell’epodo il coro conclude aggiungendo gli ultimi tasselli al quadro rituale dionisiaco.
Nel primo episodio appare sulla scena Tiresia, senza accompagnatore pur essendo cieco, e addobbato con pelle di cerbiatto, corona d’edera e tirso, come una baccante. La sua figura ha qualcosa di risibile. Egli chiama Cadmo, che esce dalla reggia anche lui comicamente travestito da baccante; dal dialogo tra i due si evince che essi hanno deciso di onorare Dioniso. Il riso si gelava sugli spettatori all’apparire di Penteo. La resis di Penteo mette in evidenza la sua posizione: è un momento di pirandelliano umorismo: dopo il comico, l’avvertimento del contrario, ecco il sentimento del contrario, l’umorismo. Il ridere sui due vecchi perde d’innocenza sulla bocca di Penteo e diventa critica feroce contro i sostenitori di Dioniso. Il re ha sentito le notizie riguardanti l’arrivo di un giovane misterioso e l’allontanamento delle donne dalla città per andare a baccheggiare sul monte; egli ha fatto subito portare in carcere alcune donne, comprea sua madre e sua zia. Quanto allo straniero, Penteo minaccia che gli farà staccare la testa dal collo (alla fine lo subirà Penteo, prolessi involontaria). Questo straniero sostiene la divinità di Dioniso, mentre la verità per Penteo è che il figlio di Semele è stato bruciato dal fulmine di Zeus; egli vede poi i due vecchi e li rimprovera incolpando il sacerdote di aver convinto il nonno. Dopo un breve ed aspro rimprovero del coro a Penteo, si apre la lunga resis di Tiresia, espressione di una teologia complessa che è il vero nucleo tematico della tragedia; il fatto che poi Tiresia non compaia più lo innalza dal rango di personaggio a quello di profeta. Tiresia rovescia su Penteo l’accusa di non avere nous, dicendo che due sono i principi basi per gli uomini: il secco e l’umido; Dioniso riveste il liquido, contrapposto al solido di cui è padrona Demetra: questa nutre gli uomini con sostante secche, mentre il Dioniso ha scoperto il vino che dà l’oblio dei dolori. Secondo Tiresia Zeus dopo che ebbe salvato Dioniso alla nascita, staccò un pezzo di etere e lo diede a Era come ostaggio spacciandolo per il bambino: la parola ostaggio (omeros) è somigliante alla parola coscia (meros), ciò fece sì che gli uomini si inventassero la favola del bambino cucito nella coscia di Zeus. Il primo episodio si chiude con tre interventi della stessa durata: Cadmo cerca di convincere Penteo dicendogli che anche se non crede nella divinità di Dioniso, può fingere di crederci. Infine Tiresia si rivolge a Cadmo per invitarlo a porre in atto la loro andata al monte, sicuri di fare il loro dovere per il bene della città.
Il quinto episodio è uno dei più movimentati della tragedia: esso è costituito dal racconto di un messaggero (il secondo angellos), che riferisce al coro e al pubblico i momenti dell’uccisione di Penteo; il re avverso al dionisiaco, che era apparso prima potente, poi via via sempre più indebolito rispetto al dio, ora subisce la sua sconfitta. Il messaggero narra di aver accompagnato Penteo, con Dioniso, nella sua spedizione di avvistamento delle baccanti; quando il re è giunto sul luogo, ha chiesto di poter vedere le donne da una posizione più agevole, ed ha proposto egli stesso di salire su un albero. Ma da quella posizione Penteo è visto dalle baccanti, che accorrono e dopo aver prima lanciato sassi, si pongono attorno all’albero e lo sradicano, provocando la caduta di Penteo. Ed è proprio Agave che per prima si avventa sull’infelice, i cui tentativi di farsi riconoscere risultano vani. I particolari dello sparagmos vengono puntualmente elencati dal messaggero: lo strappo di una spalla, l’asportazione delle membra, braccia e gambe. Agave si impossessa della testa e la confitta in cima al proprio tirso per poi recarsi in città con questo trofeo credendo che sia la testa di un leone.
Nell’esodo, il coro introduce Agave che sta giungendo alla reggia; ella avvia un dialogo lirico con il coro in cui esibisce con entusiasmo il suo trofeo. Ella poi chiede che possa vederlo suo padre Cadmo e che suo figlio Penteo lo appenda sulla facciata del palazzo. Entra Cadmo con i servi che portano su una barella i resti di Penteo; Agave si rivolge al padre annunciandogli di aver catturato ed ucciso la preda che porta sul tirso e gli dice che egli deve esserne orgoglioso. La risposta di Cadmo è insieme un grido di dolore e l’inizio della rivelazione: l’impresa delle figlie è stato un assassinio e la disgrazia è avvenuta per opera di Dioniso che si è vendicato. A questo punto Agave prende consapevolezza della situazione e passa ad una seconda fase in cui si preoccupa dell’integrità del cadavere e poi si abbandona alla domanda sconsolata: che aveva a che fare Penteo con la sua follia? Seguono il lamento di Cadmo e di Agave.