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Giovanni Verga, fotografo della realtà
In Italia intorno al 1970 si scopre il lavoro fotografico della “triade di Catania”. Cioè Giovanni Verga, Federico De Roberto e Luigi Capuana, il celebre caposcuola del “verismo”.
Che tra i grandi scrittori italiani, da noi amati e studiati, che hanno abbracciato, anche se in modo amatoriale la fotografia, ci sia Giovanni Verga, uno dei padri del nostro verismo, non era noto ai più, fino agli anni settanta.
A rivelarlo è stata la sensazionale quanto stupefacente scoperta fatta da un letterato, Garra Agosta che, messo sull’avviso della passione del maestro dal nipote, ha trovato, andando a rovistare nella casa di campagna a Vizzini, una gran quantità di negativi nascosti in un armadio.
L’autore dei Malavoglia, di Vita dei campi, Novelle rusticane e di Mastro don Gesualdo, ha ripreso tre o quattrocento immagini della sua città, dei contadini, dei campieri, degli amici del Sud e del Nord, delle donne di casa, dei bambini e delle ragazzine, dei servi e dei padroni. Ha messo insieme, cioè, le foto dei personaggi che affollano i suoi libri.
Guida e maestro di Giovanni Verga fu lo scrittore Luigi Capuana al quale ogni tanto scriveva di smetterla di impegnare così tanto tempo dietro la macchina fotografica, ma Capuana non se ne dava per inteso. Aveva addirittura ripreso la madre che stava per morire e poi ancora dopo la fine, rivestita in un bellissimo costume siciliano. E anche Capuana, ovviamente, aveva ripreso le strade di Catania e della sua Mineo.
La produzione fotografica di Verga può essere suddivisa generalmente in tre gruppi, a seconda dei soggetti ritratti. Il primo è quello in cui lo scrittore raffigura la sua famiglia, i suoi colleghi e amici o lui stesso. Un altro è quello in cui Verga rappresenta l’ambiente siciliano; l’ultimo è quello dei paesaggi cittadini o lacustri del Nord. Soprattutto nel secondo gruppo sono presenti individui dei quali viene messa in risalto la bassa estrazione sociale. Queste fotografie sono funzionali all’autore allo scopo di rappresentare esattamente la realtà così com’è, spesso anche senza concentrarsi troppo sulla tecnica, poiché così facendo la stessa foto avrebbe perso quel senso di realtà e naturalezza che l’autore stava cercando di ottenere.
Infatti la “calligrafia” fotografica era piuttosto incerta perché molte delle immagini non erano bene a fuoco e in altre l’inquadratura appariva forzata e un po’ assurda. Ma la sostanza c’era tutta e il “mondo dei vinti” era leggibilissimo in quelle foto.
In tutta la sua produzione c’è stato da parte dell’autore una valutazione critica personale attenta, tanto che, accanto ad una fotografia che lo aveva particolarmente emozionato, aggiungeva, la parola “buona”.
I ritratti non sono stati solo il suo argomento preferito ma gli hanno consentito di ideare una sorta di “approccio al ritratto”. Uno studio che portava avanti attraverso l’osservazione attenta realizzando vari scatti fino a che si sentiva pronto con in testa l’idea giusta.
Gli apparecchi fotografici usati da Verga sono stati diversi: la prima, fu la macchina a cassetta dello zio Salvatore, cui seguirono la Kodak della ditta Duoni e l’istantanea Express Murer, entrambe comprate a Milano; infine la macchina Eastman con i rullini in celluloide.
Dopo il ritrovamento delle foto di Verga, la critica letteraria si interrogò su quale dovesse essere il collegamento fra la produzione letteraria e quella fotografica e si delinearono tendenzialmente due posizioni. Da una parte si volle individuare la fotografia come modello per la scrittura, sottolineando la frequente mancanza di colori negli scritti di Verga e la preferenza per il bianco e il nero. Questo potrebbe derivare dal distacco emotivo e dal perseguimento del canone dell’impersonalità, che si pone come uno degli obiettivi della tecnica letteraria di Verga.
Da un altro punto di vista si volle invece vedere la fotografia separata dalla scrittura come se la grandezza dei capolavori potesse in qualche modo essere sminuita dall’ispirazione di un’arte “minore” come la fotografia. Non si è ancora raggiunta una posizione univoca anche se è chiaro che ha già scritto quasi tutto quando si appassiona alla fotografia. Ma si porta dietro quelle immagini a Milano, a Firenze e a Roma, come se volesse, ogni volta, rivedere la casa, la gente che lo circondava e controllare il modo di vestirsi dei contadini e delle contadine, rivedere il mare e i campi e tutta la gente che lo aveva in qualche modo ispirato.
Corrispondenze tra foto e opere
Le campane di Vizzini
La foto 228 ritrae una panoramica di Vizzini (3 maggio 1892), che si ritrova nell’incipit del romanzo Mastro-don Gesualdo.
"Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. […] Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme
anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre."
La foto 226 ritrae invece via Sant’Antonio, sempre a Vizzini, ed è uno scorcio di case addossate l’una sull’altra….
"Mara stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case 3 s'arrampicano sul monte, di fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, sul torrente." Così scrive Verga in Jeli il pastore.
I due personaggi principali della novella Jeli il pastore sembrano essere stati colti dal vivo nella lastra 236. I due bambini seduti sul parapetto del ponticello, nei pressi di Tebidi, devono aver certamente ricordato a Verga la giovane Mara che, all’indomani di una zuffa col pastore per una manciata di more, aveva iniziato ad addomesticarlo: […]Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa. Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Jeli e la bambina avevano così preso l’abitudine di vedersi nel bosco: mentre l’una filava la stoppa, l’altro, all’inizio sospettoso, a poco a poco le si avvicinava coll’andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate, diventando così, in qualche modo, meno selvatico. Quando poi, finalmente, Jeli e Mara si trovavano accanto, la somiglianza con i protagonisti della foto diventa davvero straordinaria. All’ombra di un albero, entrambi sono infatti seduti, fianco a fianco, sullo stesso muricciolo di campagna (che si trova tra l’altro proprio nelle vicinanze di Tebidi, dove è ambientata la novella) e ognuno guarda di fronte a sé senza parlare, richiamando con precisione davanti ai nostri occhi l’atteggiamento di Jeli e Mara che […] stavano delle lunghe ore senza aprir 4 bocca. Jeli osservando attentamente l’intricato lavorio della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l’uno di qua e l’altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com’era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
In conclusione sembra che l’essenza stessa dell’arte fotografica consista nel rendere fisso per sempre un mondo in continuo divenire, in cui l’immagine fotografata comincia a mutare nell’attimo immediatamente successivo allo scatto. Ciò doveva essere particolarmente significativo per Verga, frequentatore di salotti mondani a Firenze e a Milano, affascinato dalla diffusione della fotografia e attento alle innovazioni tecnologiche delle apparecchiature, così come in seguito sarà attirato dalla magia trascinante dell’arte cinematografica. Nello stesso tempo però la fotografia, come atto che fissa il passato per consegnarlo immutato alle trasformazioni del futuro, si adattava perfettamente all’aspetto più conservatore dell’autore, possidente siciliano, che non vedeva il progresso come fattore positivo di mobilità sociale, ma guardava il mondo dei “pezzentelli paffuti e affamati” cresciuti “in mezzo al fango e alla polvere della strada” attraverso l’ideale dell’ostrica, che fa loro desiderare di morire esattamente dove sono nati. Del resto l’ideologia era già delineata quando, all’inizio degli anni Sessanta in Sicilia, il giovane Verga si arruola nella Guardia Nazionale, istituzione nata per controllare l’attività delle masse contadine dopo lo sbarco dei Mille e per prevenire reati contro la proprietà. Il pessimismo dell’autore riguardo ad una reale possibilità di riscatto della massa dei “vinti”, contadini, operai o pescatori che fossero, derivava dalla situazione politica e sociale dell’Italia postunitaria. Se Zola poteva avere fiducia nel fatto che la denuncia sociale della sua produzione letteraria fosse utile all’azione di governo di una classe politica, come quella francese, ricettiva alle istanze di cambiamento degli intellettuali, ben diverso era invece il caso della società italiana, immobilizzata da problemi di difficile risoluzione, come l’analfabetismo, il brigantaggio, l’arretratezza dei sistemi produttivi, la povertà delle masse popolari.
GIOVANNI VERGA FOTOGRAFO DELLA REALTÀ: APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA
In Italia intorno al 1970 si scopre il lavoro fotografico della “triade di Catania”. Cioè Giovanni
Verga, Federico De Roberto e Luigi Capuana, il celebre caposcuola del “verismo”.
Che tra i grandi scrittori italiani, da noi amati e studiati, che hanno abbracciato, anche se in
modo amatoriale la fotografia, ci sia Giovanni Verga, uno dei padri del nostro verismo, non era
noto ai più, fino agli anni settanta.
A rivelarlo è stata la sensazionale quanto stupefacente scoperta fatta da un letterato, Garra
Agosta che, messo sull’avviso della passione del maestro dal nipote, ha trovato, andando a
rovistare nella casa di campagna a Vizzini, una gran quantità di negativi nascosti in un
armadio.
L’autore dei Malavoglia, di Vita dei campi, Novelle rusticane e di Mastro don Gesualdo, ha
ripreso tre o quattrocento immagini della sua città, dei contadini, dei campieri, degli amici del
Sud e del Nord, delle donne di casa, dei bambini e delle ragazzine, dei servi e dei padroni. Ha
messo insieme, cioè, le foto dei personaggi che affollano i suoi libri.
Guida e maestro di Giovanni Verga fu lo scrittore Luigi Capuana al quale ogni tanto scriveva di
smetterla di impegnare così tanto tempo dietro la macchina fotografica, ma Capuana non se
ne dava per inteso. Aveva addirittura ripreso la madre che stava per morire e poi ancora dopo
la fine, rivestita in un bellissimo costume siciliano. E anche Capuana, ovviamente, aveva
ripreso le strade di Catania e della sua Mineo.
La produzione fotografica di Verga può essere suddivisa generalmente in tre gruppi, a
seconda dei soggetti ritratti. Il primo è quello in cui lo scrittore raffigura la sua famiglia, i suoi
colleghi e amici o lui stesso. Un altro è quello in cui Verga rappresenta l’ambiente siciliano;
l’ultimo è quello dei paesaggi cittadini o lacustri del Nord. Soprattutto nel secondo gruppo
sono presenti individui dei quali viene messa in risalto la bassa estrazione sociale. Queste
fotografie sono funzionali all’autore allo scopo di rappresentare esattamente la realtà così
com’è, spesso anche senza concentrarsi troppo sulla tecnica, poiché così facendo la stessa
foto avrebbe perso quel senso di realtà e naturalezza che l’autore stava cercando di ottenere.
Infatti la “calligrafia” fotografica era piuttosto incerta perché molte delle immagini non erano
bene a fuoco e in altre l’inquadratura appariva forzata e un po’ assurda. Ma la sostanza c’era
tutta e il “mondo dei vinti” era leggibilissimo in quelle foto.
In tutta la sua produzione c’è stato da parte dell’autore una valutazione critica personale
attenta, tanto che, accanto ad una fotografia che lo aveva particolarmente emozionato,
aggiungeva, la parola “buona”.
I ritratti non sono stati solo il suo argomento preferito ma gli hanno consentito di ideare una
sorta di “approccio al ritratto”. Uno studio che portava avanti attraverso l’osservazione
attenta realizzando vari scatti fino a che si sentiva pronto con in testa l’idea giusta.
Gli apparecchi fotografici usati da Verga sono stati diversi: la prima, fu la macchina a cassetta
dello zio Salvatore, cui seguirono la Kodak della ditta Duoni e l’istantanea Express Murer,
entrambe comprate a Milano; infine la macchina Eastman con i rullini in celluloide.
Dopo il ritrovamento delle foto di Verga, la critica letteraria si interrogò su quale dovesse
essere il collegamento fra la produzione letteraria e quella fotografica e si delinearono
tendenzialmente due posizioni. Da una parte si volle individuare la fotografia come modello
per la scrittura, sottolineando la frequente mancanza di colori negli scritti di Verga e la
preferenza per il bianco e il nero. Questo potrebbe derivare dal distacco emotivo e dal
perseguimento del canone dell’impersonalità, che si pone come uno degli obiettivi della
tecnica letteraria di Verga.
Da un altro punto di vista si volle invece vedere la fotografia separata dalla scrittura come se
la grandezza dei capolavori potesse in qualche modo essere sminuita dall’ispirazione di
un’arte “minore” come la fotografia. Non si è ancora raggiunta una posizione univoca anche
se è chiaro che ha già scritto quasi tutto quando si appassiona alla fotografia. Ma si porta
dietro quelle immagini a Milano, a Firenze e a Roma, come se volesse, ogni volta, rivedere la
casa, la gente che lo circondava e controllare il modo di vestirsi dei contadini e delle
contadine, rivedere il mare e i campi e tutta la gente che lo aveva in qualche modo ispirato.
CORRISPONDENZE TRA FOTO E OPERE
Le campane di Vizzini
La foto 228 ritrae una panoramica di Vizzini (3 maggio 1892), che si ritrova nell’incipit del
romanzo Mastro-don Gesualdo.
"Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa,
perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. […] Per
tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso,
giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme
anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di
Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra
s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano,
Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre."
La foto 226 ritrae invece via Sant’Antonio, sempre a Vizzini, ed è uno scorcio di case
addossate l’una sull’altra….
"Mara stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case 3 s'arrampicano sul monte, di fronte al
vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in
fondo, sul torrente." Così scrive Verga in Jeli il pastore.
I due personaggi principali della novella Jeli il pastore sembrano essere stati colti dal vivo
nella lastra 236. I due bambini seduti sul parapetto del ponticello, nei pressi di Tebidi, devono
aver certamente ricordato a Verga la giovane Mara che, all’indomani di una zuffa col pastore
per una manciata di more, aveva iniziato ad addomesticarlo: […]Mara, dopo che stette ad
accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la
diede a gambe verso casa. Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Jeli e la
bambina avevano così preso l’abitudine di vedersi nel bosco: mentre l’una filava la stoppa,
l’altro, all’inizio sospettoso, a poco a poco le si avvicinava coll’andatura guardinga del cane
avvezzo alle sassate, diventando così, in qualche modo, meno selvatico. Quando poi,
finalmente, Jeli e Mara si trovavano accanto, la somiglianza con i protagonisti della foto
diventa davvero straordinaria. All’ombra di un albero, entrambi sono infatti seduti, fianco a
fianco, sullo stesso muricciolo di campagna (che si trova tra l’altro proprio nelle vicinanze di
Tebidi, dove è ambientata la novella) e ognuno guarda di fronte a sé senza parlare,
richiamando con precisione davanti ai nostri occhi l’atteggiamento di Jeli e Mara che […]
stavano delle lunghe ore senza aprir 4 bocca. Jeli osservando attentamente l’intricato lavorio
della calza che la mamma aveva dato in compito alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare
i bei zig zag sui bastoni del mandorlo. Poi se ne andavano l’uno di qua e l’altro di là, senza
dirsi una parola, e la bambina, com’era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar
alta la sottanella sulle gambette rosse.