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Indice

  1. Eugenio Montale - non chiederci la parola: commento
  2. Il rifugio nella parola
  3. Il gotico di Montale
  4. Lucidità montaliana

Eugenio Montale - non chiederci la parola: commento

Nel cuore tenebroso del Novecento, laddove l’anima si frantuma come vetro sotto il peso dell’assurdo e della disillusione, si leva il lamento contenuto ma inesorabile di Eugenio Montale, un poeta che – come un novello eremita in una cattedrale in rovina – rifiuta di concedere al lettore l’illusione di un verbo redentore. "Non chiederci la parola" non è soltanto una poesia, ma una lapide – un’epigrafe scolpita con la lama dell’onestà, su cui non c’è spazio per ornamenti dorati né per false speranze. È il lamento di un secolo che ha visto dissolversi Dio, Patria, e Ideologia sotto il miasma della guerra e della modernità corrotta, lasciando dietro di sé un deserto ove solo l’ombra della coscienza ancora si agita, febbrile, nel buio.

Il rifugio nella parola

Montale non erige una torre di titanica superbia, ma si rifugia tra le macerie della parola: non più strumento di salvezza, ma rovina, frammento. Il suo linguaggio non è il verbum creatore, ma un sussurro che si perde tra i venti di un paesaggio interiore devastato. Quando ci dice "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe", non sta solo rifiutando la chiarezza, sta smascherando l’ipocrisia di un secolo che pretendeva significati assoluti, risposte nette, formule magiche da ripetere come preghiere nel tempio della ragione. Ma il tempio è crollato. L’animo è informe, è pietra corrosa dal tempo, è creta che si rifiuta a ogni forma.
C’è in questi versi un’eco di Poe, di Baudelaire, ma anche delle antiche ombre gotiche che popolano castelli decadenti e selve oscure: lo spirito è spettrale, come se parlasse da una cripta in cui la luce non entra da secoli. Montale è il guardiano di questo sepolcro dell’ideale, un monaco dell’assenza che ha visto troppo per potersi ancora affidare alle consolazioni del linguaggio poetico come strumento salvifico. Eppure scrive – e qui sta la grande contraddizione, quasi dostoevskiana: egli nega la parola come faro, ma proprio attraverso la parola ci offre la sua confessione. Una confessione sterile? Forse. Ma anche disperatamente umana.

Il gotico di Montale

Il suo gotico non è fatto di guglie appuntite né di campanili sotto la luna, ma di anime incatenate, di spiriti che camminano tra le rovine di un’Europa che ha perso ogni senso del sacro. Il paesaggio che evoca – "e il vento che nel buio / urla e passa" – è quello di un’Apocalisse già accaduta, un Dopo nel quale restano solo le rovine da contemplare, senza possibilità di redenzione. E tuttavia, in questo rifiuto dell’“alta parola”, si cela una forma di sacralità negativa, una teologia dell’assenza che può ricordare gli abissi insondabili della mistica oscura di Giovanni della Croce o le cattedrali vuote del simbolismo decadente.
"Non domandarci la formula che mondi possa aprirti" è quasi una bestemmia per chi cerca ancora nella poesia una risposta: ma Montale non è qui per consolare. Egli è il poeta del negativo, della parola ridotta al silenzio, dell’esistenza privata di luce, in cui tuttavia sopravvive l’uomo – spoglio, nudo, fragile – che "solo questo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". È un’identità definita per sottrazione, un’essenza che si disegna nel vuoto: ed è proprio in questo vuoto che risuona la verità più autentica, più dolorosa, e forse perciò più necessaria.

Lucidità montaliana

Non vi è conforto in Montale, ma vi è lucidità. La sua parola è una candela accesa in una cripta: non illumina il mondo, ma impedisce al buio di diventare assoluto. E come i gargoyle delle cattedrali, che con volto mostruoso sorvegliano dall’alto i peccati del mondo, anche questa poesia, pur respingendo ogni illusione, rimane vigilante, testimone di un’epoca in cui anche la parola è caduta, e proprio per questo può diventare pietra d’inciampo, memoria, ammonimento.

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